Il Dio che perdiamo

Una premessa

La Newsletter n. 226 dell’8 luglio 2021 di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” si intitola “Il Dio che perdiamo” (opera di Raniero La Valle), inserendosi a pieno titolo nel dibattito sul post-teismo che Adista ospita da qualche anno ma che in questi giorni ha assunto una vivacità inarrestabile (link nel testo). Il nucleo del contendere di tale dibattito riguarda il Dio-persona: possiamo ancora intenderlo così, dato l’avanzare delle scienze e il sentire, sempre più critico e “adulto”, dell’umanità contemporanea? Proprio il “sentire critico” sta inducendo studiosi, credenti o dubbiosi, a porsi domande che per prima cosa mettono in discussione la necessità dell’esistenza delle religioni e, a seguire e conseguire, l’”identità” di Dio.

Un ragionare, questo, che, se articolato in risposte troppo radicali, fa sorgere in alcuni un doloroso senso di orfanità, associato al timore che anche il cristianesimo possa essere inghiottito – sospettano – in questa sorta di vuoto metafisico. Altri rispondono che no, Gesù Cristo non ha voluto creare una religione – voluta invece da sedicenti suoi seguaci e mantenuta, in alleanza anche con poteri temporali, fin oggi – e perciò la validità della parola di Gesù resta intatta e lascia intatto quell’umanesimo cristiano che è e rimane faro di fratellanza-amore-giustizia.

Un ragionare importante per la crescita spirituale; parlarne e poterne parlare non comporta giudizi e non depriva l’identità degli interlocutori, tanto meno lo strumento che ospita il loro generoso scambio di pensieri. (Eletta Cucuzza)

Carissimi,

grazie al “dossier sul post-teismo” curato da Enrico Peyretti, che pubblichiamo nella sezione “Dicono la loro” di questo sito, portiamo qui alla luce un tema finora passato sotto silenzio, che da tempo sta turbando gruppi cristiani anche a noi più vicini. Si tratta della questione che fa di Dio una nozione del passato, non più utilizzabile oggi: “Oltre Dio” è l’ultimo documento in cui è espressa questa posizione, è il terzo libro di una serie edita con dichiarata neutralità dall’editore Gabrielli, dedicata appunto al tempo che viviamo come successivo alla religione e perciò detto “post-religionale”, dove però è la neutralità stessa che fa problema: ne va infatti non solo dell’identità, ma del fondamento stesso dell’essere, non di Dio, ma della nostra relazione con lui.

L’oggetto stesso del dibattito è difficile ad essere definito, non c’è un limite, una soglia su cui alfine ci si possa attestare. Nel libro di Raniero La Valle, “No, non è la fine” (Edizioni Dehoniane), in cui il tema è già stata affrontato,  la questione è stata posta così: “Certo Dio è licenziato e accompagnato alla porta della città con tutti gli onori… (Ma) fatto sta che messo Dio tra i vecchi  attrezzi  da riporre, la strada è stata aperta per procedere allo smaltimento dei “miti”, che sono poi la creazione, il peccato, il messia, la redenzione: un accanimento da cui viene fuori un messaggio globalmente antibiblico. E se c’è stato qualche teologo volenteroso che nella ricerca di nuovi modelli cristiani ancora ha cercato di inalveare questo sommovimento nei parametri del Concilio Vaticano II e nella nuova prospettiva aperta dalla predicazione di papa Francesco (Victor Codina, “Cristiani in Europa”, in Adista-documenti, 11 luglio 2020), altri hanno rivendicato la radicalità del superamento necessario: il Concilio, papa Francesco sarebbero a loro parere ancora dei cambiamenti interni al vecchio computer; bisogna invece cambiare il computer stesso, il suo hard disk «che gira a vuoto, è pieno di virus e non consente nuove applicazioni» (Santiago Villamajor, “Riscattare il cristianesimo”, in Adista-documenti, 11 luglio 2020). Solo che l’hard disk da buttare via è il Vangelo stesso, nel suo contenuto inaudito, il pezzo da rimuovere è lo stesso mistero pasquale; e dunque a cadere sono la croce e la resurrezione, lo scambio trinitario, il dono dello Spirito, il discepolo che rimane, e l’anno liturgico che tutto ciò rivive e ripropone nel tempo. Cioè è il cristianesimo, comunque lo si dica riformato. Ebbene, il prezzo è troppo alto…”

La questione è aperta. Forse si potrebbe dire qui come alla base ci sia un equivoco di fondo sul contenuto stesso della disputa: per i neo-noncredenti collocare nel passato la questione di Dio vuol dire rifiutarne l’oggettivazione che l’ha resa tributaria del mito, della fantasia, dell’invenzione antropomorfa, l’ “Oggetto Immenso” fatto preda della ragione; e ne hanno i motivi. Ma col Dio pensato così i conti sono stati fatti da tempo, alla domanda sull’identità di Dio la risposta è quella di Gesù alla Samaritana,  Dio non va cercato su questo monte o su quell’altro, ma in Spirito e verità; la questione invece è quella del rapporto umano con lui, è la fede che lo coinvolge nella storia, è della fede che si può identificare un prima e un dopo (“il Figlio dell’uomo quando verrà troverà la fede sulla Terra?”); la domanda è sul senso e le implicazioni della fede di quanti credono in lui, è questo che appicca il fuoco alla storia.

E qui, su questo rapporto vitale con un “Tu” che ci ama, vale la notazione con cui Enrico Peyretti ha accompagnato il suo dossier per rivendicare il rapporto con Dio come “persona” : «Se ciò che abbiamo chiamato Dio non fosse comunicante, appellante, ispirante, in qualche modo parlante,  trasmittente una comunicazione significativa per lo spirito umano (cioè se non fosse persona), avremmo “deus sive natura” (infatti è una ipotesi): la bellezza, armonia, sensatezza, e anche cecità e violenza della natura. Ci sono, infatti, religioni della natura… Se non fosse persona, non avrebbe alcun senso l’atteggiamento umano di fede, affidamento, fiducia interiore e resistente ai colpi del caso, e della malvagità umana. Una fede che genera speranza, al di là di tutte le vicende storiche e biografiche… Se non fosse persona, non ci sarebbe la preghiera umana, che è anche il semplice sospiro, più grande di tutte la parole, davanti all’alba, al tramonto, al morire, al nascere, all’incontrare altri simili a noi, e accompagnarci nell’impresa della vita».

Se perdessimo questo Dio, possiamo aggiungere, perderemmo anche il Dio nonviolento che è il grande dono fatto all’umanità dalla Chiesa del Concilio, da Giovanni XXIII a papa Francesco ad Abu Dhabi alla preghiera nella piana di Ninive, e la violenza, a cominciare da quella religiosa, resterebbe inarginata.

Adista

Dibattito. Il valore spirituale della tecnologia, teso verso l’infinito

Dalle grotte alle stazioni spaziali, mentre i Primati superiori non sono progrediti per nulla… La teologia cristiana può azzardare una risposta: l’essere umano aveva, e ha, un compito da realizzare
La Stazione Spaziale Internazionale in orbita attorno alla Terra

La Stazione Spaziale Internazionale in orbita attorno alla Terra – archivio

Avvenire

Dalle osservazioni della Terra nell’ambito dell’agricoltura, ai radiotelescopi sulla Luna. Dalle prospettive future dell’Europa e dell’Italia in campo spaziale, ai futuri insediamenti su Marte. Prende il via la quinta edizione del Festival dello Spazio, con sede a Villa Borzino, a Busalla, in programma dall’8 all’11 luglio. Faranno da cornice al Festival molti eventi esterni che si svolgeranno in serata, come la conferenza di Giuseppe Tanzella-Nitti (Pontificia Università della Santa Croce e Vatican Observatory) dal titolo “La tecnologia ha un valore spirituale”, con riflessioni, che qui anticipiamo, sul significato teologico del progresso scientifico. Il programma completo al sito www.festivaldellospazio.com.

La domanda se il progresso tecnologico possa avere un valore spirituale è certamente inconsueta. Ma non è inconsueto, per quanto strano possa sembrare, parlarne nel contesto delle imprese spaziali, come fanno quest’anno gli organizzatori del Festival dello Spazio, giunto alla sua quinta edizione. I meno giovani di noi ricorderanno la lettura del primo capitolo della Genesi che Frank Borman fece inaspettatamente durante la prima circumnavigazione della Luna, la vigilia di Natale del 1968, mentre per la prima volta nella storia vedevamo spuntare il pianeta blu, la nostra Terra, dietro l’orizzonte della Luna. O la lettura del Salmo 8, propostoci da Buzz Aldrin il 21 luglio quando il Lem era poggiato sul suolo lunare. Von Braun, di fede cristiana, vedeva nelle imprese spaziali una missione spirituale, quella di estendere l’intelligenza umana nel cosmo, a testimonianza della grandezza del suo Creatore. David Noble raccolse in un libro pubblicato nel 1997, intitolato The religion of technology, le testimonianze di tecnici e astronauti attorno alla corsa alla Luna, tutti convinti che il genere umano stesse quasi obbedendo ad un mandato divino: la frase di Kostantin Tziolkovsky, «la terra è la culla dell’umanità, ma non si può vivere per sempre in una culla», era ormai un ritornello a tutti noto. L’esplorazione dello spazio, in fondo, è in continuità con quanto Homo sapiens cominciò a fare quando mise i suoi primi passi. Cosa c’è al di là del fiume? Cosa troveremo oltre questa pianura, dietro queste montagne? Le sue varie migrazioni “out of Africa” non erano dettate da istinti di nutrizione e di riproduzione. Cercava qualcosa di più, qualcosa verso cui si sentiva attratto in modo innato: capire, esplorare, avanzare. A differenza degli altri animali, il nostro progresso culturale ha influito sulla nostra evoluzione biologica, determinandone gli esiti. Abbiamo lasciato sorprendentemente indietro tutti gli altri animali. In poco più di 200.000 anni abbiamo traslocato dagli anfratti e dalle grotte alle stazioni spaziali in orbita e abbiamo passeggiato sulla superficie di altri corpi celesti. Nello stesso periodo di tempo, i Primati superiori, anche quelli che sanno usare gli arti superiori, non sono progrediti per nulla nel loro modo di procacciarsi il cibo o costruire ripari. La teologia cristiana può, con umiltà, azzardare una risposta: l’essere umano aveva ed ha un compito da realizzare. Per questo l’uomo è stato creato e amato dal suo Creatore. Uno sguardo alla sacra Scrittura e agli insegnamenti della Chiesa cattolica ci autorizza a pensare che la tecnologia, e dunque anche le imprese spaziali, partecipino al mandato assegnato da Dio ai nostri progenitori di prendere in consegna un creato in progress, in statu viae, per condurlo al suo compimento, come ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica (cfr. n. 302). Prima del peccato originale la Genesi afferma che «il Signore prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15); non c’era erba verde, aveva prima indicato, perché il Signore non aveva fatto piovere e non c’era nessuno che lavorasse il terreno, né che facesse salire dalla terra l’acqua nei canali, per poter irrigare il suolo (cf. Gen 2,4-6). Dunque un lavoro richiesto all’uomo (perché lo coltivasse), e un’attività tecnica intelligente (costruzione di canali, conoscere le leggi dell’agricoltura). Si tratta di una custodia non solo materiale, ma anche spirituale: il verbo “custodire” ( shamar) è il medesimo usato quando si parla di custodire la vita umana o la legge di Dio nel proprio cuore. Che la Bibbia riservi un’attenzione speciale alla tecnica lo si vede poi nella speciale attenzione riservata alla costruzione dell’arca dell’alleanza, autentico capolavoro artistico e ingegneristico, e alla costruzione del Tempio di Gerusalemme. Il Nuovo Testamento ci consegna lo stesso messaggio, arricchito dallo straordinario annuncio che Dio si è fatto uomo, ha lavorato con mani d’uomo, in mezzo a noi. Con la natura umana, il Verbo divino ha assunto anche il lavoro e tutto ciò che questo implica. Gesù di Nazaret è conosciuto come figlio del fabbro (cfr. Mt 13,55) ed egli stesso come fabbro o carpentiere (cfr. Mc 6,3). Il vocabolo greco tektón (la cui radice ricorda il sostantivo italiano tecnica) vuol dire operaio, carpentiere, colui che realizza e produce qualcosa di utile alla vita umana. I cristiani dunque, ci piaccia o no, sono seguaci di un tecnico. San Paolo ci presenta il grande “movimento” con cui Gesù Cristo, median- te il suo mistero pasquale, riordina la creazione disordinata dal peccato e la porta verso il suo compimento. Lavorando per amore, l’uomo coopera a ricapitolare tutta la creazione in Cristo perché, nello Spirito santo, sia ricondotta al Padre. Diverse e suggestive pagine della Gaudium et spes ci spiegano come l’attività umana, includendovi la scienza e la tecnica, partecipa a questo moto, trasforma il mondo, lo santifica. È costruendo la città degli uomini che ci si muove verso la città di Dio. La tecnologia ha un valore spirituale, e lo possiede in sé, non solo perché attività umana. Non è un mero strumento, neutro, da usare per il bene o per il male, come un martello. È il modo con cui gli esseri umani, in Cristo, prolungano l’opera del Creatore, contribuendo alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia (cfr. Laborem exercens n. 25). È un po’ come dire che, oltre agli scienziati che parlano di Dio (e ve ne sono un certo numero), anche gli ingegneri possono parlare di Dio, e farlo proprio in quanto ingegneri e perché ingegneri.
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Dio tra le righe. L’impossibilità della condanna

Avvenire

Spesso i credenti hanno una cattiva coscienza verso chi non crede. Glielo imputano come una colpa, come se non credere fosse una scelta etica sbagliata, e non invece la risposta libera a una proposta che liberamente arriva da Dio. Non tutti hanno il dono della fede, e questo resta un mistero. Di certo, chi ha ricevuto questo dono non può farlo proprio come se discendesse dalle sue capacità. Papa Francesco, nella sua prima intervista, data a La Civiltà Cattolica, quando gli venne chiesto chi si sentiva di essere, rispose: «Un peccatore a cui Dio ha guardato».

Pär Lagerkvist, premio Nobel per la letteratura, ci ha restituito in Barabba (Bur) un esempio mirabile di riscrittura evangelica. Sapendo cogliere in vari aspetti la novità evangelica. Ad esempio, quando Barabba compare davanti ad un gruppo di seguaci di Gesù, e la loro reazione fu di «occhi roventi e minacciosi nella semioscurità», ecco sopraggiungere le parole di grazia di un vecchio credente: «È un infelice, noi non abbiamo il diritto di condannarlo. Anche noi siamo pieni di colpe ed errori e non è merito nostro se il Signore ha avuto misericordia di noi. Noi non abbiamo alcun diritto di condannare un uomo perché non ha un dio».

Stiamo ben lontani dal giudicare «chi non ha un dio», perché le ragioni di ciò le conosce solo Lui.

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Il tempo che vola e non è mai solo nostro e la fede che apre

Lettera ad Avvenire

Caro direttore, i latini dicevano: “Ruit hora” (il tempo vola). C’è chi, un po’ paradossalmente, afferma che non il tempo passa per noi, ma noi passiamo nel tempo. Questo passaggio è estremamente rapido. Economizziamo il tempo, poiché è tanto prezioso! Solo chi potrà dire di averlo saputo spendere bene potrà anche dire di aver veramente vissuto. Mi auguro, dal profondo dell’anima, che l’anno 2021 porti luci di gioia e di speranza nei nostri cuori in un periodo tra i più bui della storia. Fede, speranza e carità siano le vere e invincibili armi di ogni cristiano e di ogni uomo e di buona volontà. Martin Luther King diceva: «Se la paura bussa alla tua porta, manda ad aprire la fede e vedrai che non c’è nessuno».

Franco Petraglia

Idee. Quale Dio cercano i non credenti?

Franz Coriasco racconta la sua perdita della fede e la sua esperienza di agnostico che continua a vivere nel desiderio di credere

Quale Dio cercano i non credenti?

Solinas

Avvenire

«Ho pregato con le lacrime, con tanti perché, fino al “perché mi hai abbandonato?”. Ricevevo solo silenzio. Il grande silenzio del Sahara. Il silenzio di Dio. Ma caparbiamente restavo fedele alla preghiera, perché so che Lui c’è. Che è ascoltato il grido di tanti che sono passati per la notte oscura e di Gesù stesso in croce: Padre perché mi hai abbandonato? E con la preghiera portavo tutti a Dio». Sono le parole di padre Pierluigi Maccalli, il missionario rapito in Niger e rilasciato dopo due anni l’8 ottobre scorso. Esattamente un mese dopo, domenica 8 novembre, è stato ricevuto dal Papa e prima ha celebrato la Messa in una parrocchia romana. Nell’omelia non ha potuto non rivivere la sua odissea, sequestrato da feroci aguzzini che volevano convertirlo a forza all’islam. Ma senza riuscirci. «Il deserto – ha aggiunto ancora – è stato un’esperienza di essenzialità. Mi ha ricordato che l’essenziale nella nostra vita è lo shalom, questa armonia tra cielo e terra e tra tutti gli uomini. Essenziale la fraternità. Siamo tutti figli dello stesso Padre. Essenziale il perdono. Non ho rancore verso chi mi ha sorvegliato. Erano ragazzi, giovani col kalashnikov, ma dicevo: non sanno quello che fanno. E neanche chi ha pianificato forse questo. L’ho detto anche a colui che il giorno della liberazione mi portava all’appuntamento. Gli ho detto: “ho una parola da lasciarti, che Dio ci faccia capire un giorno che siamo tutti fratelli. Mi ha risposto: “no, fratello per me è chi è musulmano”. Io ho lanciato il seme, Dio voglia che cresca nel cuore dell’Africa». Parole che denotano l’estrema sofferenza ma anche il coraggio di chi ha rischiato il martirio e non ha ceduto. E che ha vissuto però nella prova il dubbio della fede, quel dubbio di cui il grido di Cristo sulla croce è l’emblema più autentico.

Ed è a quel grido, «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», che si ricollega Franz Coriasco nel suo volume Il Dio dei senza Dio (San Paolo, pagine 224, euro 18; >> acquista su Amazon a prezzo scontato ), in cui racconta la sua perdita della fede, avvenuta alla fine degli anni Ottanta, e la sua esperienza di agnostico che continua a vivere nel desiderio di credere. Giornalista e critico musicale, nonché autore di programmi televisivi, Coriasco si mette a nudo con grande sincerità e umiltà e in questo volume si misura col concetto, o meglio con la presenza/assenza di Dio nella sua vita e nella società e nella cultura di oggi. Quale Dio cercano, o immaginano, i non credenti? E poi, è così evidente e da rimarcare la differenza fra credenti e non credenti? Diversi anni fa su questi temi rifletteva anche Norberto Bobbio, il quale sollecitava credenti e non ad unirsi per combattere contro i pericoli della fede cieca e del non credere a nulla. E di recente il filosofo André Comte-Sponville, autodefinitosi “ateo non dogmatico” e sostenitore dell’esistenza di una “spiritualità per atei”, ha scritto: «Se qualcuno vi dice “so per certo che Dio non esiste”, non avete a che fare con un ateo, ma con uno sprovveduto. Parimenti, se incontrate qualcuno che vi dice “so che Dio esiste”, è uno sprovveduto che ha la fede e che, scioccamente, confonde la fede con il sapere».

Su questa strada l’autore del volume si dice non più interessato al Dio «dall’onnipotenza arbitraria e asettica», né al Dio nel cui nome si sono consumate tragedie e crociate di ogni tipo, e ancora meno «a quello caricaturale di certe omelie buoniste o a quello bricolage dei manuali sincretisti». Cresciuto alla scuola di Chiara Lubich e colpito soprattutto dagli aspetti mistici della personalità della fondatrice del movimento dei Focolarini, Coriasco volge lo sguardo a quel grido «umanissimo urlato prima di morire» da Gesù, a quel Dio debole e impotente cui tanti si sono indirizzati, da Etty Hillesum a Simone Weil, tanto per citare due riferimenti letterari e spirituali di prim’ordine. Senza avventurarsi in disquisizioni teologiche, il libro ripercorre alcuni tentativi di lettura di quel grido. Come quella del cardinal Martini: «Si ha come l’impressione che Gesù si chiuda in se stesso, quasi come stupito, sconvolto dal diluvio di calunnie, di malvagità, di interpretazioni perverse, di crudeltà che si scatenano contro di Lui per accogliere questo mistero di iniquità e per macerarlo dentro di sé per l’umanità». Interpretazione eloquente, quasi una risposta alle critiche di un Sergio Quinzio o più recentemente di un Massimo Cacciari e di un Salvatore Natoli a proposito del silenzio della Chiesa sulle cose ultime. Ancora, papa Francesco più volte ha affrontato questo discorso temerario. Come nel marzo 2015 a Napoli, interrogato da una giovane a proposito del dolore innocente: «Il più grande silenzio di Dio è stato la Croce: Gesù ha sentito il silenzio del Padre, fino a definirlo abbandono. Il nostro Dio è anche il Dio dei silenzi e ci sono silenzi di Dio che non si possono spiegare se non guardi il Crocifisso. Il nostro Dio sta anche in silenzio. Ricordati: è il Dio delle parole, il Dio dei gesti e il Dio dei silenzi». Un simile accento si ritrova nel romanzo La notte di Elie Wiesel, in cui un kapò nazista fa impiccare a un albero un bambino costringendo i detenuti del lager ad assistere. Un prigioniero esclama: «Dov’è il buon Dio?». E lo scrittore risponde a voce bassa: «Eccolo lì, appeso a quella forca».

Libro: «Il Dio dei senza Dio»

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14 novembre 2020 – Osservatore Romano

Piuttosto che di essere recensito, il libro di Franz Coriasco, Il Dio dei senza Dio. Riflessioni agnostiche sul più paradossale degli dèi (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2020, pagine 224, euro 18) chiede di essere raccontato, perché le vicende di un animo e le esperienze interiori non possono essere passate al vaglio della critica, come accade nel caso di un saggio o di un romanzo. Tanto più se ciò deve avvenire nello spazio, necessariamente limitato, di una recensione. Certo, nel volume sono presenti non poche argomentazioni e affermazioni di carattere teologico e filosofico, ma tutto questo viene filtrato dal protagonista e rielaborato all’interno di un racconto autobiografico, una specie di originale diario intimo. E un diario non è recensibile.

La prima fondamentale informazione che l’autore dà al lettore riguarda il suo ateismo: da trent’anni Franz Coriasco ha perso la fede; non crede più in Dio, ma nello stesso tempo ritiene che il suo confronto con l’Altissimo non sia concluso: per questo motivo si presenta come un agnostico che, pur non credendo, non esclude che Dio possa esistere e, dunque, continua a domandare di Lui, perché questo enigmatico Signore gli si propone come una presenza (o una assenza) problematica. A quale Dio si riferisce Coriasco? A quello, ricordato nei Vangeli di Matteo e di Marco, a cui si rivolge il Crocifisso gridando «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Fu Chiara Lubich a far riflettere a fondo Franz su quell’urlo straziante: anche lei aveva incontrato Gesù abbandonato e ne aveva fatto il centro della propria vita, identificandolo con gli ultimi, i poveri, i senza speranza, con tutto il dolore del mondo; un Gesù da amare, amando gli abbandonati.

Fu, per Coriasco, allora adolescente, una testimonianza decisiva. Ma verso la fine degli anni ’80 del Novecento, la fede svanisce. In quel periodo tanto complicato un evento si impone: l’incontro con Chiara “Luce” Badano, che morirà giovanissima e che nel 2010 è stata elevata agli onori degli altari. Coriasco ha una certezza: «Gesù Abbandonato è stato indubbiamente il Dio di Chiara Luce». Ma la fede non torna. Improvvisamente, nell’oscurità di una vita sempre più cupa e intristita, irrompe l’amore. Franz si sposa, ma dopo poco il matrimonio fallisce e si conclude con il divorzio, che lo lascia nello smarrimento, incapace di trovare alcuna consolazione, neppure in quel “Gesù Abbandonato” che una volta gli era sembrato il rifugio più rassicurante. D’altra parte, in quale altro modo porsi di fronte a un Dio il cui Figlio muore inchiodato a una Croce, sperimentando l’abisso della solitudine e del nulla? Potrebbe essere questo Dio «azzerato» — si chiede ancora Coriasco — a offrire la risposta decisiva?

Ad aiutare Franz nell’ approfondimento di questi temi davvero brucianti fu Giuseppe Zanghì, anima eletta e amico di una vita, che il nostro autore ricorda costantemente con gratitudine: insieme discutono del dolore e dell’amore, dell’uomo e di Dio, della Trinità e del demonio, della fede e dell’ateismo, di tutto ciò che, insomma, interessa drammaticamente Coriasco e che poi è rifluito nel libro, soprattutto nella seconda parte, occupata da quelle «riflessioni agnostiche» che ne caratterizzano il contenuto.

In questo contesto, l’autore colloca varie considerazioni sul ruolo della fede cristiana e della Chiesa, che ai suoi occhi sembrano aver perso lo smalto sanamente provocatorio che dovrebbero contraddistinguerle. La crisi religiosa appare una parte della più generale crisi che sconquassa il mondo e, in particolare, l’Occidente una volta cristiano. Soltanto l’Abbandonato mostra la capacità di non finire travolto dallo sfacelo, che Coriasco giudica imminente.

Su tutto, incombe la tragedia del male che da sempre interroga e angoscia l’umanità e trafigge il cuore dei credenti. Ancora una volta per l’autore la sola presenza plausibile appare quella del Crocifisso, dell’Abbandonato: l’unico cristianesimo in grado di resistere alla tempesta della contemporaneità è quello che ha al centro il Dio che per amore si spoglia di ogni sua prerogativa, quello che Chiara Lubich definiva il Dio degli atei e, dunque, anche il Dio di Franz Coriasco.

Il libro non si conclude con un colpo di scena e l’autore conferma fino all’ultima pagina il proprio agnosticismo. La sua storia e le sue riflessioni, che ho cercato di sintetizzare, offrono infiniti spunti per pensare e meditare. Spero che a Coriasco non dispiacerà se, per concludere questa mia “non-recensione”, mi affido al celebre pensiero di Blaise Pascal in cui Gesù dice all’uomo: «Consolati, tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato».

di Maurizio Schoepflin

In ascolto di Dio. Iniziativa del Lay Centre di Roma per valorizzare il silenzio durante la pandemia

«In questo tempo c’è tanto silenzio. Si può anche sentire il silenzio. Che questo silenzio, che è un po’ nuovo nelle nostre abitudini, ci insegni ad ascoltare, ci faccia crescere nella capacità di ascolto». Il 24 aprile scorso, nei giorni più duri della pandemia in Italia, quelli del lockdown, Papa Francesco apriva la messa mattutina a Santa Marta con questa preghiera-riflessione dedicata al silenzio e all’ascolto. La città vuota e taciturna per la quarantena e, di contro, l’esplosione di parole sul web di quei primi giorni di paura, hanno ispirato anche un’iniziativa ecumenica del Lay Centre di Roma, l’istituto cattolico internazionale creato nel 1986 per offrire accoglienza e formazione agli studenti laici delle università pontificie dell’Urbe.

Dal 24 luglio e per cinque settimane, registrandosi al sito laycentre.org, sarà possibile ricevere ogni venerdì, via mail, un testo di meditazione in lingua inglese dedicato al silenzio, accompagnato da un’immagine e da un brano musicale. «Wellsprings of silence» (“Sorgenti di silenzio”), s’intitola la serie nata per favorire la riscoperta della ricchezza della preghiera e della meditazione silenziosa. «Durante la pandemia — spiega Heather Walker, coordinatrice della comunicazione e dei programmi di studio del Lay Centre — qui a Roma, quando uscivamo per andare al lavoro o a fare la spesa, scoprivamo le strade vuote e silenziose. Dietro le mura delle abitazioni c’erano invece una vita e una comunicazione frenetica. Ora che l’Italia è uscita dal lockdown abbiamo pensato ai nostri amici di tutto il mondo, ai nostri studenti che vivono in Paesi ancora in piena pandemia e offerto loro dei testi che aiutino, nel silenzio, a riflettere, ascoltare la voce di Dio e a trovare risposte. La preghiera silenziosa nel mondo cristiano è abbastanza diffusa fra i religiosi — nota ancora Walker — ma non lo è altrettanto fra i laici. Ecco perché abbiamo voluto proporre testi non solo di autori religiosi».

La prima meditazione pubblicata è di padre John Keating, religioso irlandese, docente a Dublino. Un esperto di silenzio che nel 1990 ha trascorso un anno di ritiro in solitudine sulle coste del lago Lough Derg nel suo Paese. Seguirà quella della teologa Karen Petersen Finch, ministro della chiesa presbiteriana, e, nelle settimane successive, quelle di laici e religiosi esponenti di altre confessioni cristiane, a sottolineare il carattere ecumenico delle meditazioni.

Chiuderà il ciclo la dottoressa Donna Orsuto, cofondatrice del Lay Centre e docente di spiritualità alla Pontificia università Gregoriana.

Nel suo testo padre Keating cita in apertura il capitolo 10 del Libro dei Proverbi: «Un fiume di parole non è mai senza colpa, chi frena le labbra è saggio». Ricorda poi quanto sia frequente oggi ascoltare parole che non costruiscono pace: un linguaggio divisivo, aspro che sembra distruggere ciò che abbiamo di più caro e prezioso. Il religioso invita a trovare l’antidoto in un equilibrio fra suono e silenzio, che possa generare gentilezza, tenerezza e compassione. Sottolinea il bisogno urgente che avvertono in molti di curare questo bilanciamento e di concentrarsi sulle piccole cose, non su quelle grandi. «Stare in disparte in silenzio — nota padre Keating — ci dà la possibilità di ritrovare noi stessi e crescere anche nelle relazioni con gli altri».

Come ricorda insomma il Salmo 23 è solo presso le «acque tranquille» che possiamo rinfrancare il nostro spirito. Solo uno specchio d’acqua fermo e silenzioso può riflettere la nostra anima.

di Fabio Colagrande

Osservatore Romano

Ma la bellezza ci salverà comunque, perché basta guardarle certe cose e ascoltarli certi suoni per convincersi che hanno la forza di un vaccino

Parole in libertà, in giorni senza libertà: chiusi per virus, non possiamo fare. Ma possiamo continuare a pensare…

Giorno 33

La forza della solitudine, la potenza della voce. Ci sono giorni in cui le suggestioni ti autorizzano a essere più ottimista, e a convincerti che se alla fine andrà tutto bene non sarà grazie a uno slogan buttato lì senza una ragione precisa, ma perché esiste la grazia delle cose.

Preghiera e musica, ieri, mi hanno convinto che l’antidoto ce l’abbiamo già. Che la peste può fare strage, ma che non potrà mai essere più forte della bellezza.

Sembrano solo parole, ma le immagini contano. Ed è bellezza pura quell’uomo stanco vestito di bianco che dice cose finalmente chiare all’Europa, senza sorridere mai ma anche senza urlare. E’ bellezza l’immensità di quella basilica, il gelo caldo del marmo, la magnificenza sobria della Piazza. Ma è uno schiaffo al virus anche il canto di un altro uomo senza occhi, in un’altra chiesa vuota e lucida, cuore di una città deserta dove l’oro di una madonnina brillante cura e vigila.

Da Roma a Milano, le capitali del mondo sovrappongono la loro meraviglia, i lumini che segnano la strada, il suono del Panis Angelicus tra le vetrate, sui pavimenti, la cupola grande e le guglie. Amazing Grace sul sagrato, stupenda grazia, appunto: ero cieco ma ora vedo, dice la canzone, quella grazia che mi ha guidato nella paura. Tanto, troppo di tutto, accidenti: non potrà non arrendersi quel male nascosto di fronte a questa enormità, dono immeritato ma nostro.

Ricordiamocelo, non vantiamocene e non sbattiamolo in faccia agli altri come se fosse un passaporto per ottenere aiuto e rispetto. Abbiamo cose meravigliose senza aver fatto nulla per pretenderle, quasi tutta la bellezza che possediamo è il frutto del lavoro di altri, centinaia, migliaia di anni fa. Uomini che hanno costruito cattedrali e fatto il Rinascimento, composto inni e scritto melodie inimitabili. E ci hanno lasciato in regalo l’eredita della luce che sprigionano, insieme alla pena di sapere che noi non siamo e non saremo mai bravi come loro.

Ma la bellezza ci salverà comunque, perché basta guardarle certe cose e ascoltarli certi suoni per convincersi che hanno la forza di un vaccino. E che Dio c’è, anche solo perché ha permesso che esistano. Non è ancora nato un nemico tanto forte per cancellare un capolavoro: l’armonia è la cura, il disinfettante universale.

Qualcuno ha scritto che per sapere quanto un uomo sia ricco occorre chiedergli quanta bellezza abbia vissuto. Noi, chi più chi meno, siamo ricchi abbastanza per resistere ancora a lungo. Basta aprire gli occhi e liberare le orecchie.

da Avvenire