Ma da quando Dio, il Dio della Bibbia, è diventato puro spirito? Due recenti volumi riaprono la discussione, con spunti tutt’altro che banali. E utili anche oggi

ono usciti quasi in contemporanea alcuni volumi che si occupano della rappresentazione corporea di Dio, e già questa mi sembra comunque una notizia; poiché la convinzione universale che la divinità consistesse in puro spirito pareva incontrovertibile, o almeno abbastanza da non ammettere revisioni o pareri contrari.

Invece sia Christoph Markschies, che ne tratta accademicamente ne «Il corpo di Dio» (Paideia), sia Francesca Stavrakopoulou che con toni più divulgativi e scanzonati affronta l’«Anatomia di Dio» (Bollati Boringhieri) – e ci sarebbe anche di Giovanni Ibba «Con le ali si coprivano i piedi», più specifico sulla sessualità nella Bibbia – avvisano che l’antropomorfismo della divinità non può essere facilmente liquidato come appannaggio di popolazioni incolte e primitive; non foss’altro in quanto nella Bibbia ebraico-cristiana – da cui tutti dipendiamo – la corporeità fisica di Dio è onnipresente e fuori discussione.

I passi del Creatore nel giardino dell’Eden, la lotta di Yahwé con Giacobbe, Mosé che sull’Oreb ne vede «la gloria» infatti non sono per nulla metafore, come invece sempre si interpreta. «Il Dio testimoniato negli scritti biblici – chiarisce Markschies – non può essere ridotto senza perdita sostanziale a essere incorporeo, assolutamente trascendente, come di solito avviene».

E difatti nel mondo cristiano dei primi secoli (ma anche nell’ebraismo) la questione venne lungamente discussa con orientamenti opposti, prima che prevalesse – da Agostino in poi – la concezione spiritualizzata del corpo di Dio, di derivazione neoplatonica; l’apologeta Tertulliano per esempio sostenne (contrastato da Origene) che la divinità doveva essere per forza corporea, ancorché non in forma umana e di una materia non terrena.

È dunque divertente, soprattutto nel volume di Stavrakopoulou, considerare le conseguenze pratiche della corporeità divina, per esempio le elucubrazioni sulla estensione gigantesca del suo fisico o addirittura su certe parti anatomiche che non ci aspetteremmo in Dio. Ma più seriamente la lettura suscita e poi mette esplicitamente a tema varie questioni di non poco conto. Ne enumeriamo soltanto tre.

  1. Anzitutto «la verità del mito» della corporeità di Dio – come la chiama Markschies – ha il merito di «impedire di trasferire semplicemente a Dio i dualismi netti di corpo (o materia) e spirito e di pensarlo come puro essere spirituale», e dunque di conseguenza di correre il rischio di svalutare sul piano religioso tutto quanto attiene alla materia. Un vantaggio che, nella corrente sensibilità per il corporeo, non mi pare secondario: almeno in chiave pastorale.
  2. Qualora non si riconoscesse la corporeità di Dio, si porrebbe poi (ancora Markschies) «un problema teologico di primaria grandezza», ovvero una evidente differenza fra le tre Persone della Trinità: una delle quali – secondo la dottrina – sarebbe presente in cielo con un corpo, sia pure divinizzato. (Già, ma cosa vuol dire questo aggettivo: che il corpo del Risorto è “diverso” da quello del Cristo storico? Per chiudere una falla, si rischia così di aprirne una ancora maggiore…).
  3. Infine si pone la questione della corporeità di Cristo stesso. Se infatti il Padre ha biblicamente un corpo, come interpretare l’incarnazione del Figlio? Oppure è quest’ultimo (dice Stavrakopoulou) il nuovo «detentore assoluto del monopolio esclusivo sulla corporeità divina» e in pratica l’incarnazione e poi l’eucaristia sono responsabili della spiritualizzazione neoplatonica del Padre?

Questioni di lana caprina, si dirà. Può essere. Intanto però nel Credo ogni domenica continuiamo a ripetere meccanicamente che il Figlio è «della stessa sostanza del Padre» e proprio su faccende come questa si sono consumate nella cristianità fratture che durano da millenni.

Nella foto: impronte “divine” nel tempio ittita di Ain Dara, in Siria

vinonuovo.it

 

LA DISTRUZIONE DELLA GUERRA, IL SOGNO DI DIO PER LA PACE

A 100 giorni dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina tocchiamo con mano quanto è vero che «tutto è connesso». Solo lo sguardo alle tante vittime inermi potrà orientare una politica che miri alla pace

Cari amici lettori, abbiamo superato da poco il 100° giorno di guerra tra Russia e Ucraina. Ci passano sotto gli occhi le prime immagini di bombardamenti su Kiev, la fuga di tanti ucraini, gli orrori dei massacri insensati di civili, il timore per il possibile disastro per le centrali nucleari colpite da attacchi russi, i civili e militari chiusi nell’acciaieria Azovstal, l’uso di armi termobariche, lo spettro di una escalation nucleare, il rapimento di bambini ucraini portati in Russia, e da ultimo l’incombente spettro della fame in altre parti del mondo (Africa, Vicino Oriente) dipendenti dai rifornimenti di grano ucraino bloccati nei porti.

In Europa abbiamo vissuto la paura di essere privati del gas e petrolio russi: si è persino preso in considerazione un ritorno (“temporaneo”) al carbone (che sarebbe un grave passo indietro nella lotta contro il cambiamento climatico). In questa guerra più che mai tocchiamo con mano come «tutto è connesso», concetto chiave dell’«ecologia integrale» di cui parla papa Francesco in Laudato si’ (n. 138). I fattori ambientali, economici e sociali sono intrecciati: è la drammatica realtà anche della guerra. La guerra distrugge vite umane e rapporti familiari e sociali, distrugge la fraternità che è il sogno di Dio per l’umanità (Fratelli tutti, n. 26), distrugge le città e le attività industriali, mette in pericolo l’ambiente (vedi il disastro evitato per un soffio a Chernobyl e altre centrali nucleari) e i fragili equilibri tra le nazioni, dove quelle svantaggiate sono quelle che maggiormente patiscono le conseguenze “a distanza” del conflitto. Papa Francesco in Fratelli tutti richiamava il tema “ambiente” in relazione alla guerra: «Ricordo che la guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente» (n. 257; cfr. LS n. 57).

Osservazione che poteva sembrare marginale, e invece ora si sta rivelando drammaticamente vera. Non si può che sottoscrivere integralmente quanto si legge poco dopo: «La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male» (FT n. 261). Qual è allora lo sguardo cristiano sulla realtà della guerra, che dovrebbe contribuire a costruire una politica che mira alla pace? «Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come “danni collaterali”. Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi… Consideriamo la verità di queste vittime della violenza, guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace».

La guerra, male in sé, trascina con sé altri mali a cascata. L’unico vero realista, verrebbe da dire, è colui che cerca la pace. Preghiamo, cari amici, perché queste considerazioni facciano breccia anche in coloro che prendono le grandi decisioni della storia. 

Famiglia Cristiana

Il Dio nascosto (nei film)

Un titolo impegnativo, «Il Dio nascosto: quando il sacro si traveste da profano», per indagare quella spiritualità segreta, talvolta confusa e contraddittoria, ma spesso sorretta da una fede autentica, che un certo cinema contemporaneo ha indirizzato verso l’Alto, pur prelevandola da una quotidianità fragile, ambigua e provocatoria. Attraverso quattro saggi critici sul tema, il nuovo numero di Filmcronache, la rivista dell’Ancci (Associazione nazionale circoli cinematografici italiani), si muove dunque lungo le tracce di quei film (e di quegli autori) in cui la presenza di Dio appare spesso offuscata dalle seduzioni, dagli inganni e dalle miserie dell’incompiutezza umana.

Nel suo intervento, Tomaso Subini, docente di Cinema, fotografia, televisione e nuovi media all’Università degli Studi di Milano, si interroga su «Che cos’è un film religioso?», ponendo una domanda di fondo alla quale, dagli anni ’50 e ’60, hanno cercato di rispondere studiosi, ricercatori e istituzioni, esplorando nel contempo le liste ’ufficiali’ dell’epoca, contenenti opere controverse come

Francesco giullare di Dio o Il Vangelo secondo Matteo. «Dietro le divise: il ‘mestiere’ della fede» è invece il contributo del direttore di Filmcronache, Paolo Perrone, che in un’ampia panoramica, sospesa tra la beatitudine celeste e il precipizio terreno, rintraccia in alcuni recenti film come Corpus Christi, Agnus Dei, Maternal, Gli occhi di Tammy Faye e Beginning la veicolazione di una fede nutrita di preghiera e testimonianza, ma anche, non di rado, affaticata da sofferenze interiori e crisi vocazionali.

Nel suo intervento, intitolato «Imago Dei, fra natura e mito», Francesco Crispino, docente di cinema, film-maker e scrittore, evidenzia poi come un universo di simboli, mitologie e memorie ancestrali (e film come La vita nascosta-Hidden life, The Book of Vision, Non cadrà più la neve, Valley of the Gods, Piccolo corpo e Re Granchio) rimandino ad un Dio immanente e pervasivo, capace di manifestarsi in tutta la sua potenza a chi si dispone ad accoglierlo. Infine, con «Titane: un viaggio nuovo (e antichissimo) nella vita», padre Guido Bertagna, gesuita, già direttore del Centro culturale San Fedele di Milano, analizza a tutto campo il film di Julia Ducournau, Palma d’oro di Cannes 2021: una parabola postmoderna e postumana su un amore capace di accogliere l’altro oltre ogni ragionevole attesa. Il numero di

Filmcronache in uscita in questi giorni (disponibile gratuitamente in versione digitale negli store Apple e Google) sarà la base teorica per organizzare rassegne tematiche nei Cinecircoli e nelle Sale della Comunità.

Gli animali un dono di Dio, nostri “compagni” nel Creato

Il richiamo all’ecologia integrale è la condizione prioritaria per essere buoni amministratori del creato e allontanarsi da una cultura che trasforma gli esseri viventi in oggetti di consumo. Compresi gli animali, messi al centro del messaggio della Commissione episcopale per i problemi sociali, il lavoro, la giustizia e la pace per la 71ª Giornata del Ringraziamento: “Lodate il Signore dalla terra (…) voi, bestie e animali domestici (Sal 148,10). Gli animali, compagni della creazione”.

Ricca di significati la scelta di celebrare in Sardegna la manifestazione che contadini, pastori e allevatori considerano il capodanno delle campagne. L’isola, infatti, l’estate scorsa ha pagato un prezzo ambientale altissimo: 20mila ettari devastati dalle fiamme, centinaia di animali morti, 100 mila alberi d’ulivo inceneriti, con 60 milioni di api uccise, insetti che il documento dei vescovi considera «una benedizione per l’ecosistema e per le attività dell’uomo ». «La prossimità agli animali, che nella tradizione della civiltà agricola ha portato a sentirli e trattarli quasi come partecipi della vita familiare, nella modernità – scrivono i vescovi – è stata abbandonata, riducendo queste creature a oggetti di mero consumo». Un’ecologia anche integrata, che don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per i problemi sociali e il lavoro, ha descritto in apertura del seminario organizzato dall’arcidiocesi di Sassari unitamente a Acliterra, Coldiretti, Fai Cisl, Feder.Agri, Terraviva. La necessità di riconvertire il nostro stile di vita è il filo rosso che unisce la due giorni del Ringraziamento, che si conclude oggi con la Messa (trasmessa in diretta su Rai uno) celebrata dall’arcivescovo Gian Franco Saba, a Portotorres, nella basilica dei Santi Martiri Gavino, Proto e Gianuario, seguita dalle parole di papa Francesco, all’Angelus. Al termine la benedizione dei mezzi agricoli e degli animali.

Di “Benessere animale e benessere dell’uomo nell’attività zootecnica” si è parlato nella tavola rotonda, coordinata da Daniela Scano, caporedattrice del quotidiano La Nuova Sardegna.

«Questa Giornata rappresenta, per la diocesi di Sassari – ha detto don Andrea Piras, responsabile della pastorale del lavoro – l’occasione per consolidare l’alleanza che, tra le componenti ecclesiali, le parti civili, gli organismi sociali, le agenzie culturali della città e del territorio, insieme alle categorie di lavoratori e di tanti giovani studenti, intende favorire una scelta di consapevolezza e di responsabilità perché ciascuno, sentendosi interpellato personalmente, si adoperi come autentico protagonista del cambiamento d’epoca in atto».

«La giornata del Ringraziamento – ha commentato il segretario generale della Fai Cisl, Onofrio Rota – ci consente di rilanciare il percorso verso l’ecologia integrale che ci siamo impegnati a coltivare anche con l’adesione al Manifesto di Assisi e con la nostra campagna Fai Bella l’Italia. Tra gli obiettivi di quell’idea c’è il superamento di un approccio predatorio che per anni ha caratterizzato la crescita, anche nel nostro Paese, svalutando e depauperando il suolo, il paesaggio, gli alvei idrici, le persone, il loro rapporto con l’ambiente e il regno animale». «Per noi – ha aggiunto il presidente di Coldiretti Sardegna, Battista Cualbu – è un orgoglio ospitare in Sardegna, a distanza di pochi anni dalla tappa di Dolianova nel 2015, questa manifestazione nazionale, che dimostra ancora una volta la sensibilità della Cei per la nostra terra, in particolare in quest’anno segnato dai terribili incendi estivi».

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Un momento del Convegno a Sassari per la Giornata del Ringraziamento

Gesù modello d’empatia integrale

(Fonte Fonte_globalworship_tumblr_com)

L’empatia di Gesù è evidente e presente in molti passaggi del Nuovo Testamento. è riscontrabile in maniera chiara nella narrazione della guarigione dei due ciechi di Gerico (Mt 20,29-34). In tale circostanza l’empatia autentica di Gesù davanti ai due uomini che implorano la guarigione, è percepibile nelle sue azioni e parole. Pertanto, è fondamentale, per il nostro cammino di crescita come credenti, comprendere e riconoscere come Gesù possa essere modello di empatia integrale: cioè di empatia cognitiva, affettiva, compassionevole, prosociale, salvatrice e spirituale.

Empatia cognitiva: Gesù comprende profondamente la difficile situazione sociale in cui versano i malati emarginati che si rivolgono a lui per essere sollevati dalle loro sofferenze e guarire dalle loro malattie. Perciò, Gesù vede e si rende conto del dolore dei due ciechi di Gerico che soffrono per il rifiuto e l’intolleranza della «folla che li rimproverava» (v. 31). Gesù “si mette nei loro panni”. Pertanto, al loro grido (v. 30), sceglie di fermarsi e di porsi in ascolto delle loro sofferenze (v. 32).

Empatia emotiva: Gesù accoglie con empatia i malati. Egli sente con le sue emozioni e i suoi sentimenti la loro sofferenza. Pertanto, con la sua domanda: «Che cosa volete che io faccia per voi?» (v. 32), Gesù dimostra un’accoglienza incondizionata e un ascolto empatico, lasciandosi toccare il cuore dal grido di disperazione e dall’angoscia di questi uomini: «Signore, che i nostri occhi si aprano!» (v. 33).

Empatia compassionevole: La comprensione empatica, cognitiva e affettiva della sofferenza dei ciechi commuove profondamente Gesù fin “nelle sue viscere”. Tale sentimento scatena in lui una compassione e una motivazione viscerale per dare un senso e una speranza alla loro vita. Pertanto, l’espressione «Gesù ne ebbe compassione» (v. 34), che si ritrova anche in altri passaggi del Nuovo Testamento, rivela in maniera chiara questa empatia compassionevole di Gesù.

Empatia salvatrice, spirituale e prosociale: La compassione di Gesù lo porta a compiere azioni e gesti autenticamente empatici, volti a sollevare questi uomini dalla loro sofferenza; ma anche per dare testimonianza della salvezza del regno del Padre celeste. Perciò, nel caso dei due ciechi, l’empatia salvatrice, spirituale, prosociale di Gesù si manifesta nell’atto di guarigione: «Toccò loro gli occhi ed essi all’istante ricuperarono la vista e lo seguirono» (v. 34).

L’empatia integrale di Gesù diventa quindi un modello ispirante per la praxis morale del discepolo di Cristo. Infatti, ci invita integrare sempre di più l’empatia cristiana, interiorizzando i valori del Vangelo e dell’amore-carità che contribuiscono allo sviluppo del nostro giudizio morale. Dobbiamo essere anche convinti che l’empatia di Gesù curi e guarisca le nostre ferite personali e relazionali. Così, davanti alle fragilità dei nostri fratelli e sorelle, arricchiti e fortificati da questa crescita umana e spirituale, potremo anche noi essere testimoni dell’empatia integrale di Gesù e della sua Speranza salvatrice.

Mario Boies, C.Ss.R., M.Ps. – (Fonte: alfonziana.org)