Se la Messa diventa solo elevazione

Sui rischi di un immaginario catechistico-pastorale per cui la Messa non “sta” né nell’annuncio della parola, né nella comunione, né nell’assemblea che si fa Chiesa, né nella santificazione della domenica come giorno del Signore, ma unicamente nella consacrazione

Per continuare il discorso a puntate sulla messa. Da esperienze varie – dirette e no – noto che tra alcuni (giovani) sacerdoti si diffonde una curiosa “moda”: all’elevazione si fermano con l’ostia sollevata per lungo tempo, a volte addirittura oltre un minuto, e spesso la spingono più in alto possibile, in modo da restare essi stessi con gli occhi al cielo in atteggiamento “estatico”.

Premetto: non voglio denigrare nessuno e nemmeno giudicare atteggiamenti; ma ogni gesto presuppone un’idea, una convinzione: e su questa m’interessa soffermarmi. Evidentemente questi (giovani) sacerdoti intendono dare al momento dell’elevazione un significato preponderante nel rito, proprio come succedeva in un recente passato: allorché i fedeli, pur non capendo quasi nulla delle parole latine e spesso praticando nel frattempo devozioni personali, erano richiamati all’attenzione dall’insistito suono della campanella proprio al momento della consacrazione.

Si tratta dunque di un ritorno a una concezione preconciliare della messa, secondo il noto movimento “a pendolo” della storia (perciò ho voluto sottolineare che si tratta di moda curiosamente diffusa tra celebranti giovani). Ma nemmeno questo è il punto centrale del discorso. Cui ci si avvicina semmai notando che:

a) i giovani preti in questione dovrebbero sapere che l’elevazione deve la sua enfasi al medioevo, quando si diffusero convinzioni superstiziose (del tipo: chi guarda l’ostia non morirà in quel giorno) e addirittura l’idea di una “comunione oculare” sostitutiva di quella manducatoria – aberrazione peraltro non dissimile dalla “comunione spirituale” oggi farisaicamente consigliata ai divorziati risposati…

b) secondo una corretta teologia liturgica, l’elevazione non è mai stata (nemmeno prima del Vaticano II!) il momento centrale della messa e renderlo tale significa perciò incentivare un’interpretazione per lo meno arbitraria del rito: ovvero il contrario di quel ritorno al rigore cultuale “tradizionale” che questi giovani sacerdoti sembrerebbero voler sostenere.

Ma a mio parere la maggiore verità silenziosamente rivelata da un’esagerata ostensione dell’ostia è che purtroppo la messa non è affatto considerata né un sacrificio né una cena (secondo la nota dicotomia ideologica che sembra disputarsi le preferenze delle diverse “tifoserie” teologiche), ma è semplicemente il mezzo per compiere la presenza reale di Cristo nel pane.

Il secolare retaggio controriformistico di lotta anti-protestante ha cioè tuttora un potente influsso distorsivo sulla concezione della messa: per il nostro immaginario catechistico-pastorale, essa non “sta” infatti nell’annuncio della parola, né nella comunione, né nell’assemblea che si fa Chiesa, né nelle preghiere elevate in quanto comunità, né nella santificazione della domenica come giorno del Signore, ma “sta” unicamente nella consacrazione e nella successiva elevazione. L’eucaristia (“rendimento di grazie”, ringraziamento) viene così abbassata a puro strumento in funzione del culto della presenza reale. Si tratta – sempre secondo me – di una grave riduzione, le cui conseguenze sono pesantissime in numerose direzioni.

vinonuovo.it