Per una rilettura della «Dei Verbum»

Poesia e verità del documento più bello e impegnativo del Vaticano II

di Rino Fisichella

Riflettere sulla Dei Verbum equivale di fatto a ripercorrere l’intera storia del concilio Vaticano II. La costituzione dogmatica fu oggetto del dibattito dei Padri conciliari fin dai primi mesi del concilio, ne accompagnò i lavori per i tre anni successivi, e fu approvata pressoché all’unanimità a conclusione dell’assise il 18 novembre 1965. Certamente, non ho timore di affermare che siamo dinanzi al documento più bello e più impegnativo del concilio. Più bello, perché ha saputo coniugare la verità dogmatica, con il suo linguaggio preciso e spesso poco incline a lasciarsi tradurre nella plasticità delle immagini con espressioni di alta poesia. Più impegnativo, perché diversi dei suoi contenuti giungono, dopo secoli di dibattito teologico, a una loro chiara elaborazione che evidenzia il progresso dogmatico compiuto. La rivelazione, che costituisce il fondamento e il cuore della fede cristiana, veniva finalmente a ritrovare il suo posto centrale nella vita della Chiesa. Le prime parole con cui si apre il documento, citando il testo della prima lettera di Giovanni, fanno percepire da subito che si tratta di un’esperienza costitutiva e viva. L’esigenza cioè di comunicare l’incontro reale con Gesù Cristo il Figlio di Dio che chiama alla comunione di vita con la Trinità, cuore e fondamento della fede. Dei Verbum dice immediatamente la straordinaria novità che si viene a compiere nella storia degli uomini. “Parola di Dio” non si intende qui come un generico parlare del Padre, ma attesta l’evento definitivo del suo intervento nella storia: il mistero dell’incarnazione del Figlio. Lui è la Parola che da sempre viene pronunciata e che ora diventa anche visibile.

(©L’Osservatore Romano 31 gennaio 2013)