L’arte di restare accanto Non possiamo continuare a pensare il servizio di accompagnamento dei giovani come qualcosa che si può improvvisare

Il nostro cammino di avvicinamento al Sinodo sta giungendo al suo culmine – siamo al tema dell’accompagnamento, ben trattato dal Documento preparatorio al Sinodo (II; II.1; II.4; III.1; III.4), forse perché sintesi di una valida e consolidata esperienza ecclesiale che risente meno del variare delle ‘ere teologiche e magisteriali’.

Il quadro che emerge dall’ascolto praticato è sostanzialmente positivo. I ragazzi di questa generazione incontrano, presto o tardi, figure religiose e persone credenti che sanno accompagnarli nelle difficoltà e nei dolori, sostenerli nella fatica delle scelte, accoglierli e curarli nelle fragilità, soprattutto familiari (II) – sostanzialmente confortarli.

Questa modalità di vicinanza può risultare anche incomprensibile o difficilmente emulabile, ma è ciò che essi si attendono: “Se alcuni fedeli, infatti, cercano nella religione il rigore, la giustizia, l’equilibrio, io ho sempre cercato in essa l’amore, l’accoglienza e la ricerca, soprattutto perché sono stata spesso sopraffatta dalle domande che mi sono posta sulla religione” (Marta). Decisivo, però, è che si tratti non di qualcuno che “conclude di essere arrivato”, ma di qualcuno che per restare intero dentro il mondo “prova sempre a rinnovarsi” (Alessio).

In questo, i nostri giovani testimoniano di nuovo una certa diversità rispetto ai loro genitori, i quali rappresentano o hanno incontrato “una tradizione poco compresa e oserei dire poco creduta – quasi una superstizione”, con una grande “differenza fra la teoria e la pratica, tra il dire e il fare” (Giulio). Il lavoro di riforma cominciato cinquant’anni fa sta quindi cominciando a dare i suoi frutti.

D’altra parte, è anche vero che prima o poi i ragazzi incontrano anche figure religiose o persone credenti capaci di lasciarli a se stessi o addirittura abbandonarli in un momento di solitudine e delusione (II). Ma tali esperienze, poi, si concretizzano in una serie di situazioni che, più che provocare qualche contestazione ecclesiale, si limitano a lasciare l’amaro in bocca. Forse perché anche i giovani d’oggi sanno affrontare in modo più maturo di quanto immaginiamo le debolezze e gli errori ecclesiali: “ho già imparato a discernere chi si professa credente dal credo stesso” – chiarisce Giulio; mentre Michelangelo provocatoriamente asserisce che “se anche fosse accaduto, non mi sarebbe dispiaciuto scoprirli manchevoli – il bello dei ‘maestri’ è proprio questo!”.

Ciò sottolinea come vi sia un aspetto di solitudine doppiamente inquietante che emerge piano piano dai racconti. In senso positivo, con Alessio, quando ci troviamo di fronte a “una persona introversa che fa le cose per conto suo”, ma che riconosce di essersi allontanato da solo “perché dovevo ritrovare me stesso” – aspetto questo che richiede nell’accompagnatore la capacità di saper fare un passo indietro, di ‘mollare la presa’, evitando così ogni rischio di ‘proselitismo’ e di ‘dipendenza’ relazionale. In senso negativo, quando nell’esperienza di strada si constata che, tra il doversi “dimostrare all’altezza di grandi aspirazioni e modelli irrealistici” (suor Chiara) e “un periodo storico caratterizzato dalla fretta e dalla disattenzione” (suor Alessandra), “uno dei drammi che i giovani più spesso vivono è proprio quello di sentirsi soli” (suor Ornella), al punto da esprimere a parole o con gesti e posture: – siccome ci sentiamo soli, lasciateci da soli -.

Di conseguenza, “essergli accanto vuol dire far loro sentire che non sono soli, rompere in qualche modo questo cerchio di solitudine che, più che fisico, è mentale e ancora più spirituale. Rotto questo guscio, scalfita questa ‘corazza’, si scopre un mondo di sensibilità e fragilità insieme ad una infinita bellezza” (suor Ornella).

A tal proposito, però, si corre il rischio di entrare in una logica dell’accudimento, dato che mentre i giovani “a volte fanno delle proprie fragilità un punto di forza per restare un po’ bambini”, “i grandi stanno vicino ai piccoli per compagnia più che per accompagnamento – con sfumature più o meno marcate di competizione intergenerazionale” (Daniele). E’ chiaramente una logica dannosa in vista della costruzione o del mantenimento di ogni relazione matura ed equilibrata: “basta proprio poco per giocarsi la fiducia nella relazione con i ragazzi” (suor Ornella), dimenticandosi che invece “è importante contribuire a costruire la serenità personale in cui sviluppare una vita cristiana” (Letizia).

Come evitare allora che l’accompagnamento assuma “una sfumatura coercitiva” e riesca invece ad essere un modo per “stimolare, risvegliare le menti sopite [e] le coscienze” (Michelangelo)? Soprattutto quando sembrano essersi consolidati e radicalizzati i due approcci della presenza forte e chiara e della mediazione più dolce e meno direttiva che dovrebbero essere vissuti non in costante opposizione, ma in una dialettica complessa?

Innanzitutto, comprendendo definitivamente come “accanto al percorso tradizionale di vita ecclesiale sia necessario creare un rapporto personale, un percorso personalizzato”, soprattutto quando incontriamo “persone estranee alla religiosità o spaventate dal lessico religioso” (Giulio). In secondo luogo, rendendosi conto che approssimarsi all’altrui coscienza – quale luogo segreto e intimo (II.1) – solo con apertura, attenzione, delicatezza,o solo con parole autorevoli e forti per scuoterla, non è mai produttivo. Per non essere invasivi o minacciosi e per non mettere in ombra la verità, l’arte da acquisire è piuttosto quando e con chi usare l’una o le altre.

In tutti gli interpellati, infatti, emerge la necessità che questa relazione personale si muova tra due poli in tensione costante. Da un lato, soprattutto “a livello mediatico” (Giovanna) e di “vita sentimentale e sessuale” (Giulio), si chiede alla Chiesa di evitare “un atteggiamento troppo rigido e giudicante che allontana le persone, soprattutto in momenti della vita in cui sono particolarmente vulnerabili poiché in ricerca o in crisi” (Camilla, Francesco). Nella convinzione che in realtà “la coscienza viene scossa dall’amore, dalla passione” e che “l’unico modo per trasmettere amore è farlo proprio”, esserne contagiati e contagiarlo: “il populismo religioso mi irrita e lo trovo sterile, le persone non vanno sedotte e neanche convinte…” (Marta).

Dall’altro lato, soprattutto nel “rapporto uno-a-uno” (Giovanna) e in “alcuni argomenti della sfera pubblica” (Giulio), si chiede alla Chiesa di “offrire un nuovo punto di vista e di mettere in crisi” (Daniele) alcuni aspetti del mondo, di “‘provocare’ con le parole, senza temere di ferire la coscienza dell’altro” (suor Nadia) – d’altronde “le rivoluzioni non sono pranzi di gala e neanche i salti della fede” (Michelangelo). Dice bene Giovanna: “dalle mani di una persona amica io sono disponibile ad accettare piccole ‘invasioni’, feedback negativi ma edificanti, consigli saggi anche se difficili da digerire”. In definitiva, sembra che gli stessi giovani chiedano anche pane forte e buono per i loro denti, non solo e non più le ‘pappette’ da bambini (1Cor 3,1-3).

Diventa chiaro perché, in questo “campo minato” (suor Alessandra) del confronto e dello scontro con la diversità, sia necessario formare educatori “in grado di restare nel contraddittorio, per trasformarlo in un terreno fertile che porti energie nuove nella società e nella Chiesa” (Daniele), “stimolando le persone, se necessario, a risolvere laddove possibile – o almeno a portare alla coscienza – le proprie contraddizioni” (Mariagrazia). Ritorna dunque l’invito rivolto all’accompagnatore di essere empatico e flessibile, ossia di “mettersi in gioco, far vacillare le proprie certezze, essere saldo nei valori, ma non negli schemi” (Daniele), “abbassare muri di difesa, sciogliere pregiudizi, in poche parole disarmarsi” (suor Alessandra).

L’effetto di questo stile di accompagnamento consisterebbe, secondo il Documento preparatorio, nel permettere ai giovani di stare nel mondo ed esprimere se stessi con fiducia ed originalità (II). Avverte però Daniele che, affinché tale “punto di partenza imprescindibile” non risulti “carente di ‘un pezzo'”, “è necessario porsi un obiettivo verso cui andare, che deve essere chiaro e ragionevole, ma soprattutto calibrato su chi si ha di fronte”: “intercettare i suoi punti di forza ed aiutarlo a valorizzarli, per il benessere suo e della società”. In altri termini, è necessaria una direzione di marcia che sappia “cercare quella parte fertile che c’è in tutti i ragazzi e farla germogliare”(Marta): dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior cantava – e cantano ancora i giovani d’oggi – Fabrizio De André.

Ma allora non possiamo continuare a pensare il servizio di accompagnamento dei giovani come qualcosa che si può improvvisare, che può essere affidato a chiunque mostri disponibilità. I guasti di questo atteggiamento e le contro testimonianze sono ormai chiari ed evidenti – ancor più “quando queste figure hanno ruoli di responsabilità che possono ricoprire senza dover rendere conto a nessuno” (Daniele). E’ un ruolo che richiede competenze adeguate e che perciò ha bisogno di essere ricoperto da persone che abbiano svolto un cammino specifico di formazione, non solo teorica, ma anche personale, di elaborazione di sé e che vengano periodicamente verificate sul proprio operato. Perciò resta ancora valido il suggerimento – anche qui – rivolto alla Chiesa di decidersi ad investire risorse per promuovere e potenziare questo tipo di formazione.

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