In «Besprizornye» Luciano Mecacci racconta la storia dimenticata di milioni di minori orfani o abbandonati dai genitori che vagavano per l’Unione Sovietica in fuga da violenze e fame

L’Osservatore Romano

Internati nei gulag mandati al fronte o semplicemente non sopravvissuti alla strada di molti di loro non si seppe più nulla
(Gaetano Vallini) Via dai fronti di guerra e dalle regioni in cui infuriano sanguinosi scontri tra rossi e bianchi, in fuga dalle campagne inaridite dalla carestia, per due decenni, dal 1917, milioni di persone vagano per la vasta Russia in cerca di un rifugio e di cibo. «Nel brulichio di esseri umani che affollano le stazioni ferroviarie di città grandi e piccole, da Vjatka a Kazan’, da Nižnij-Novgorod a Mosca, o si ammassano lungo il Volga negli imbarcaderi di Samara e Saratov, spiccano i besprizornye. Un popolo a sé, che si muove senza adulti: solo bambini e ragazzi, maschi e femmine. Fuggono dalle case dove hanno visto morire i genitori o dove non c’è più neanche un tozzo di pane. Fuggono dagli orfanotrofi dove si muore, letteralmente, di freddo e di fame, o dalle colonie dove la violenza dei compagni si mescola all’indifferenza degli educatori».
A questo popolo di piccoli reietti Luciano Mecacci, già ordinario di Psicologia generale all’Università di Firenze e membro dell’Associazione italiana degli slavisti, dedica un accuratissimo studio. Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935) (Milano, 2019, Adelphi, pagine 274, euro 22), si avvale infatti di testimonianze dirette e documenti dell’epoca spesso trascurati, per offrire una ricostruzione dettagliata di vicende terribili, calando il lettore nell’abisso nel quale precipitarono le piccole vittime di questa tragedia poco conosciuta.
È difficile trovare tra gli orrori del Novecento qualcosa di paragonabile alla condizione dei besprizornye, eppure essa non trova spazio nei libri di storia a dispetto dei numeri. Stimati tra i sei e i sette milioni nel 1922, per lo più orfani ma non di rado spinti dagli stessi genitori disperati perché non in grado di assicurare loro il minimo sostentamento, questi bambini e ragazzi, sporchi e vestiti di stracci, si spostavano da soli o in gruppi tra diverse città aggrappati alle balestre dei vagoni dei treni, trovando riparo dal freddo glaciale in stazioni, scantinati di palazzi, depositi abbandonati, cassonetti delle immondizie e in ogni anfratto minimamente coperto.
L’alternativa offerta dalle autorità sovietiche, pur ben consapevoli della gravità e dell’ampiezza del fenomeno, non era molto migliore. Gli orfanotrofi pubblici erano, infatti, tutt’altro che accoglienti, spesso non dissimili dai lager. Tali strutture per minori erano infatti luoghi in cui bambini, ridotti alla fame, vivevano in stato di abbandono, ammassati in condizioni spaventose. Poterono constatarlo, tra gli altri, il console belga Joseph Douillet e il professor Armandi, della Croce rossa italiana, in visita all’orfanotrofio Novočerkass, rimanendo scioccati da quanto videro, ovvero bambini che si «abbandonano ad atti che una penna decente non saprebbe descrivere».
Non meraviglia che molti di loro fuggissero, preferendo la vita randagia al degrado istituzionalizzato. Affamati e infreddoliti, pur di sopravvivere i ragazzini formavano bande dedite a furti, saccheggi. Il tutto in un crescendo di aggressioni e violenze che talvolta sfociavano persino in atti di cannibalismo. «Ci hanno cacciato come dei cani rabbiosi, ma non si sono sbarazzati di noi. I ragazzini sono stati troppo intelligenti. Si sono messi assieme e ora noi non abbiamo niente da temere», afferma Mishka, uno dei protagonisti del romanzo autobiografico di Kolja Voinov, Outlaw: the autobiography of a Soviet waif, aggiungendo: «Derubiamoli, picchiamoli e godiamoci la vita finché siamo vivi!».
In uno dei capitoli più toccanti, Mecacci si sofferma sul fenomeno della prostituzione tra i besprizornye. In uno stato di alterazione psichica indotta dall’abuso di alcolici e di sostanze stupefacenti, moltissimi minori — maschi e femmine — adescavano viaggiatori e passanti nei pressi delle stazioni ferroviarie, in una spirale di ulteriore sopraffazione e degrado. Per tanti di loro, scrive lo studioso, la prostituzione «fu il modo estremo per fronteggiare il freddo degli scantinati e la fame perenne e per comprenderlo basterebbe ricordare le parole del Grande Inquisitore di Dostoevskij: “Prima sfamateli, e poi chiedete loro la virtù”».
Quella dei besprizornye è una piaga sociale di dimensioni tali da non sfuggire né ai visitatori né, ovviamente, alle gerarchie. Su di essa scrissero alcuni illustri scrittori, giornalisti e studiosi stranieri. Come Joseph Roth, che in viaggio in Russia nel 1926, in un reportage per la «Frankurter Zeitung» scrive: «Torme di bambini abbandonati, pittoreschi e coperti di stracci vanno a zonzo, corrono, stanno seduti per le strade… i besprizornye, che vivono di aria e di sventura». O come Walter Benjamin, che durante un soggiorno a Mosca tra il 1926 e il 1927, esprime scetticismo sulla possibilità di poter recuperare quei ragazzi e così descrive la situazione: «Di giorno li si vede per lo più soli, ciascuno impegnato nel proprio sentiero di guerra. Di sera invece fanno mucchio sotto le impietose insegne luminose dei cinema; e si dice ai turisti che non è troppo simpatico imbattersi in una banda del genere quando si rincasa da soli». Anche Georges Simenon nel 1933 durante alcune visite a Odessa e a Batumi, sul Mar Nero, riporta la risposta della guida a una sua domanda su quanti fossero i besprizornye: «Ce ne sono dappertutto… Dormono dove capita… Mangiano quello che trovano… Sono una gramigna… Che cosa volete aspettarvi da dei figli di kulaki che vanno in giro da una provincia all’altra con la speranza di trovare qualcosa da mangiare?».
Ma anche noti autori sovietici si sono occupati dei besprizornye, oggetto di film e di numerosi libri, nonché citati in alcuni romanzi. Boris Pasternak ne parla, ad esempio, ne Il dottor Živago laddove descrive la lavandaia Tanja, una besprizornica, alla quale venne assegnato il cognome Bezoeredeva, in realtà una parola inventata, deformata più che un vero cognome, perché questo non era concesso a figli di genitori ignoti.
Più di tutti se ne occuparono educatori, psicologi, sociologi e magistrati, chiamati a trovare una soluzione al problema. Agli inizi degli anni Venti si organizzarono persino congressi specifici e venne proposto un piano a tutto campo, ma la sua attuazione s’infranse prima contro la fragilità del sistema sovietico post rivoluzionario, alle prese con problemi considerati più gravi e urgenti, e poi con il silenzio e la censura di uno Stato ormai poco propenso ad ammettere che nel “paradiso” sovietico potesse esserci spazio per un fenomeno così disdicevole e nocivo per l’immagine del paese all’estero. Tanto che alla fine, dopo aver tentato con i centri accoglienza allestiti nelle stazioni delle principali città e con i citati orfanotrofi, iniziò la fase repressiva, che coincise con gli anni del cosiddetto terrore staliniano.
Non più categoria da aiutare, ma declassati a mero problema di ordine pubblico, i besprizornye cominciarono a essere arrestati, incarcerati o inviati addirittura nei gulag. E qui non fecero fatica ad adattarsi alle dure condizioni di vita degli internati. Ne parla anche Aleksandr Solženicyn in Arcipelago Gulag: «Gettati nella mischia di un mondo crudele, i marmocchi non lottano l’uno contro l’altro. In un altro marmocchio non vedono un nemico! Entrano in quella lotta come un collettivo, una squadra… È che davvero non considerano nessuno come un essere umano, all’infuori dei ladri anziani e di se stessi! È questa l’idea che si sono fatti del mondo e vi si attengono». Tuttavia soprattutto i più piccoli spesso soccombevano.
Per molti altri besprizornye l’alternativa al gulag fu l’arruolamento nell’Armata Rossa. Le gerarchie, nota Mecacci, erano infatti convinte che sarebbe stata utile la loro ben nota assenza di empatia nei confronti del prossimo, una caratteristica questa ritenuta «ideale per servitori dello stato sovietico quali i soldati schierati in prima linea». Ne trattò anche il giornalista Indro Montanelli nel 1941, in una cronaca dal fronte finnico-sovietico dedicata ai paracadutisti lanciati sul territorio nemico. «Sono degli autentici selvaggi, e da un certo loro modo di comportarsi vien fatto di dubitare che abbiano una qualsiasi sensibilità… Non si avvedono punto che impiegati a quel modo sono condannati al macello. Infatti ne sono stati uccisi alcune migliaia», annotava Montanelli, che così argutamente chiosava: «Ora resta solo da domandarsi se Stalin servendosene come paracadutisti vuol approfittare dei besprizornye per vincere la guerra o se vuole approfittare della guerra per sbarazzarsi dei besprizornye. Ad ogni modo è la seconda ipotesi che ha più probabilità di avverarsi».
«Del destino di centinaia di migliaia di besprizornye non si seppe mai nulla. Se alcuni di loro furono probabilmente salvati dalla forza d’animo, dalla tenacia o premiati dalla fortuna, la bilancia pende vistosamente dalla parte di chi non ce la fece», sottolinea Mecacci. Si tratta di una storia per decenni caduta nell’oblio nella stessa Unione Sovietica. Solo a metà degli anni Sessanta ricominciarono ad apparire articoli, libri e film sull’argomento, anche se bisognerà attendere la fine degli anni Ottanta per l’avvio di ricerche libere da censure. Da psicologo Mecacci amplia l’approccio, osservando il fenomeno soprattutto dal punto di vista degli sfortunati protagonisti. Ma ancor più gli si deve riconoscere il merito di aver recuperato anche per la platea di studiosi e lettori italiani la memoria di milioni di sfortunati esseri umani quasi del tutto dimenticati dalla storia: i bambini randagi di Stalin.
L’Osservatore Romano, 7-8 febbraio 2020