Verso Bari 2020. L’esodo dei cattolici dai Balcani feriti

La porta della sagrestia è in un lato della Cattedrale. Sul marciapiede vicino ai gradini si scorge quella che agli occhi di uno straniero appare come una macchia rossa. Invece è una delle «rose del dolore », come le chiamano a Sarajevo, e formano una sorta di “Via Crucis di guerra” lungo le strade della capitale della Bosnia ed Erzegovina. Perché indicano i punti in cui hanno seminato morte e sangue le bombe cadute sulla città nell’assedio durato dal 1992 al 1996. Il cardinale Vinko Puljic, che mai ha abbandonato la sua gente negli oltre mille giorni di attacchi da parte dei militari serbi, la sfiora appena esce dal Duomo. Gli si avvicinano due ragazzi e una coppia di sposi. Cappello in testa e sorriso sul volto, li saluta con calore e ascolta le loro confidenze. «Nel Paese – racconta – erano 800mila i cattolici prima della guerra; oggi non si raggiungono i 450mila. E qui a Sarajevo abbiamo una delle situazioni più drammatiche: siamo passati da 528mila a 180mila. Un autentico esodo». Cattolici significa per lo più croati, uno dei “popoli” che compongono la Bosnia ed Erzegovina. Sono poco meno del 15% degli abitanti: la metà è bosniaca, quindi musulmana, e oltre un terzo serba, cioè ortodossa. Insomma, i cattolici sono una minoranza che si sta sempre più assottigliando «in una nazione ancora turbolenta», dice Puljic.

Il cardinale arcivescovo di Sarajevo, Vinko Puljic, e il cardinale Gualtiero Bassetti

Il cardinale arcivescovo di Sarajevo, Vinko Puljic, e il cardinale Gualtiero Bassetti

Al suo fianco ha il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, giunto per lanciare nei Balcani l’Incontro dei vescovi del Mediterraneo per la pace e il dialogo che si terrà a Bari nel febbraio 2020 e che si concluderà alla presenza di papa Francesco. «Eminenza, la attendiamo il prossimo anno», sussurra Bassetti mentre prende sottobraccio l’arcivescovo. «Certo – risponde Puljic – . Porterò le attese, le speranze, le difficoltà di una Chiesa che vive immersa in una realtà multiculturale e multireligiosa, marcata da tre identità ». Una terra ancora divisa. L’accordo di Dayton che ha chiuso il conflitto nell’ex Jugoslavia ha congelato gli attriti, senza indicare vie per superarli. Tre i presidenti. Tre i ministri in ogni dicastero. E giù fino alle amministrazioni locali, imponendo ovunque una “troika” etnica che paralizza le istituzioni. «Se la politica non crea condizioni di effettiva uguaglianza fra le tre comunità e qualcuno viene considerato più uguale dell’altro, non potrà mai esserci una convivenza serena», denuncia il cardinale.

I vescovi dell'Umbria con il nunzio apostolico Luigi Pezzuto nella nunziatura di Sarajevo

I vescovi dell’Umbria con il nunzio apostolico Luigi Pezzuto nella nunziatura di Sarajevo

«Più che di emigrazione, dovremmo parlare di fuga dei cattolici. Nel senso che non si ritorna », spiega il nunzio apostolico, l’arcivescovo Luigi Pezzuto. Accogliendo la delegazione dei vescovi dell’Umbria guidata da Bassetti e dall’arcivescovo di Spoleto-Norcia, Renato Boccardo, presidente della Conferenza episcopale regionale, l’“ambasciatore” della Santa Sede ammette che si sta registrando un’allarmante «emorragia di giovani», diretti per lo più in Germania e Austria, ma anche in Nord America o Australia. Lasciano una città dove il salario medio è di 400 euro e le pensioni di 150. «Se un medico si trasferisce a Berlino, guadagna anche dieci volte tanto – osserva Pezzuto –. E ciò attrae».

La redazione del settimanale diocesano di Sarajevo, 'Katolicki tjednik'

La redazione del settimanale diocesano di Sarajevo, “Katolicki tjednik”

La Chiesa si sta mobilitando per arginare il fenomeno. «Investiamo sulle scuole, per citare un caso», riferisce Puljic. Ce ne sono cinque legate all’arcidiocesi che accolgono 5mila ragazzi, dalle elementari alle superiori. «Se non esistessero, i cattolici sarebbero forse molti di meno – annota –. E sono le uniche davvero aperte a tutti, dove studiano fianco a fianco cattolici, ortodossi e musulmani ». Anche la Cei le sostiene. «Insieme con molti altri progetti che ci testimoniano la vicinanza della Chiesa italiana ai nostri bisogni», chiarisce il porporato. Finanziando ad esempio un nuovo studentato che sarà inaugurato nelle prossime settimane e che si aggiunge ai sette esistenti. «La comunità ecclesiale vuole favorire chi investe nel proprio futuro qui», fa sapere don Miroslav Cavar, direttore del settimanale diocesano Katolicki tjednik. E don Marko Skraba racconta come la Chiesa locale distribuisca oltre mille borse di studio. L’arcidiocesi fa anche da ufficio di collocamento. «Siamo in grado di offrire un’occupazione a 5mila persone nelle realtà cattoliche e di aiutare i giovani a trovare un impiego – spiega il prete giornalista Dražen Kustura –. Vogliamo dire che si può vivere in questo Stato da cristiani in comunione con Roma». La redazione è un appartamento sequestrato nei decenni del regime comunista di Tito. Vennero arrestati tutti i cronisti quando la rivista fu soppressa. Oggi i giornalisti sono tredici, in massima parte laici.

Il cardinale Bassetti di fronte a uno scorcio di Sarajevo

Il cardinale Bassetti di fronte a uno scorcio di Sarajevo

C’è chi ha chiamato Sarajevo la “Gerusalemme d’Europa”. Definizione che resta più che mai attuale. Campanili e minareti si stagliano gli uni accanto agli altri verso il cielo. Poi qualche targa o cartello in ebraico rimanda al piccolo drappello del popolo dell’Alleanza ancora presente. E come Gerusalemme la città mostra lo “scandalo” della divisione fra i cristiani e i muri (mentali, in questo caso) alzati dai seguaci delle tre religioni monoteiste. I petroldollari arabi stanno cambiando il volto della metropoli. «Oltre la metà delle mille moschee di Sarajevo è stata costruita dopo la guerra», spiega il caporedattore del settimanale diocesano, don Josip Vajdner. A riprova di un’evidente influenza islamica. E basta passeggiare fra le vie dello shopping per incontrare decine di donne con il burqa.

A Sarajevo il memoriale dei bambini caduti durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina

A Sarajevo il memoriale dei bambini caduti durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina

«Si vive da separati in casa in una regione che però non può restare prigioniera del passato – avverte il nunzio –. La sfida è quella dell’unità nella diversità». Don Tonino Bello si sarebbe affidato alla formula «convivialità delle differenze». Bassetti ricorda il vescovo pugliese “sul passo degli ultimi” che da presidente di Pax Christi e già piegato dalla malattia aveva marciato per la pace sotto le bombe nel dicembre 1992. «In numerosi angoli del Mediterraneo – insiste il presidente della Cei – la violenza è ancora all’ordine del giorno. Ecco perché le tre fedi nate da Abramo sono chiamate a costruire nel quotidiano la pace e a favorire la riconciliazione».

Il cardinale Bassetti davanti alla «rosa del dolore» che ricorda il massacro al mercato Markale di Sarajevo

Il cardinale Bassetti davanti alla «rosa del dolore» che ricorda il massacro al mercato Markale di Sarajevo

La palazzina che ospita la rappresentanza diplomatica è a poche centinaia di metri dal mercato coperto chiamato da tutti Markale. Bassetti si muove fra i banchi per raggiungere la “rosa del dolore” che contiene ancora un frammento dell’“ordigno del massacro”che aveva fatto 68 morti. Si ferma in preghiera mentre i venditori spostano casse di angurie e mele. Poco prima, nel Veliki park, ossia nel Grande parco, aveva reso omaggio al memoriale dei bambini uccisi nel conflitto: oltre mille. «La speranza ha comunque il volto dei ragazzi», ripete il cardinale mentre entra nel Centro giovanile “Giovanni Paolo II” realizzato anche grazie alla Cei. Otto piani con palestra, foresteria, asilo, sale per la musica. «È anche un laboratorio di dialogo – afferma il direttore don Simo Marsic –. La politica e il clima sociale non lo incoraggiano. Ma noi non ci arrendiamo. Consapevoli che non c’è domani senza cultura dell’incontro».

Uno scorcio di Spalato in Croazia

Uno scorcio di Spalato in Croazia

«La nostra Chiesa si sta impoverendo». Ha un’espressione preoccupata Marin Barišic, arcivescovo di Spalato-Macarsca. Anche la cattolica Croazia fa i conti con l’emorragia di fedeli che lasciano il Paese. «Sono 400mila i croati all’estero – spiega l’arcivescovo –. E fra loro ci sono medici, insegnanti, ingegneri. Insomma, professionalità di rilievo, per assicurare lo sviluppo di una nazione, che vengono a mancare». Barišic accompagna il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, e i vescovi dell’Umbria fra le vestigia del palazzo di Diocleziano, simbolo della città affacciata sull’Adriatico. «Siamo una polis nata dai profughi. Perché Spalato si è formata dopo la distruzione della vicina Salona, capitale della provincia romana della Dalmazia».

Il cardinale Bassetti con Marin Barišic, arcivescovo di Spalato-Macarsca, nel centro della città croata

Il cardinale Bassetti con Marin Barišic, arcivescovo di Spalato-Macarsca, nel centro della città croata

Oggi sono i migranti che si muovono lungo la “rotta balcanica” a bussare alle porte della Croazia. In 10mila sono fermi sul confine, nel territorio della Bosnia ed Erzegovina, sperando di entrare nel Paese che fa parte dell’Ue per raggiungere in primo luogo la Germania. «Dopo la chiusura totale dell’Ungheria – racconta Daniele Bombardi, referente di Caritas italiana nei Balcani – si punta verso la Bosnia e la Croazia. I due Paesi sono totalmente impreparati all’accoglienza. E la Croazia non usa mezzi termini per i respingimenti». I profughi sono siriani, iraniani cristiani perseguitati, afgani, pachistani che transitano dalla Turchia e si immergono nell’ex Jugoslavia. «Con la riduzione degli sbarchi sulle coste europee del Mediterraneo – afferma Bombardi – la “rotta balcanica” si sta rivelando un’alternativa che alletta. Ciò dimostra che le migrazioni non si fermano a tavolino».

Uno dei condomini in Bosnia che ancora portano i segni della guerra

Uno dei condomini in Bosnia che ancora portano i segni della guerra

Mostar, come a Sarajevo, le ferite della guerra segnano ancora non solo la società ma anche i condomini che restano crivellati di colpi. Il ponte-simbolo, distrutto nel 1993 e poi ricostruito, è ormai un’attrazione turistica, attraversato da migliaia di visitatori e persino dai pellegrini che arrivano nella vicina Medjugorje. Anche il pavimento della Cattedrale, pesantemente danneggiata dagli ordigni e adesso risorta, mostra le piaghe della devastazione: sono i fori delle 1800 pallottole cadute sulla chiesa. «Negli ultimi quindici anni l’Ergezovina ha perso 15mila cattolici», spiega il vescovo di Mostar-Duvno, Ratko Peric. Accanto ha il giovane segretario don Pero Milicevic: con il fratello gemello è l’ultimo di nove figli e ha visto la madre morire sotto le bombe. «Odi e divisioni rimangono – osserva Peric –. Ma come Chiesa investiamo tutto nel dialogo. Che è la sola alternativa alla vendetta».

La Messa a Mostar con il vescovo di Mostar-Duvno, Ratko Peric (a destra)

La Messa a Mostar con il vescovo di Mostar-Duvno, Ratko Peric (a destra)

«La Chiesa che testimonia il Vangelo nei Balcani ci insegna che le differenze non sono una minaccia ma una ricchezza». L’arcivescovo di Spoleto-Norcia, Renato Boccardo, commenta il viaggio dei vescovi dell’Umbria in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina. A guidare la delegazione il presidente della Cei e arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, il cardinale Gualtiero Bassetti, e il presidente della Conferenza episcopale regionale, l’arcivescovo di Boccardo. Cinque giornate nei Balcani per «conoscere queste Chiese sorelle e portare la vicinanza della Chiesa italiana», afferma Boccardo. Hanno partecipato i vescovi Luciano Paolucci Bedini (Gubbio), Domenico Cancian (Città di Castello), Mario Ceccobelli (emerito di Gubbio), Giuseppe Piemontese (Terni-Narni-Amelia), Marco Salvi (ausiliare di Perugia-Città della Pieve) e Benedetto Tuzia (Orvieto-Todi). «La comunità ecclesiale – sottolinea Boccardo – ha attraversato la guerra e oggi è voce di speranza in una terra multietnica e multireligiosa. Tutto ciò dice che, in un frangente come quello attuale dove le diversità sono presentate come aggressive, la convivenza non è impossibile. La Chiesa italiana è rimasta vicina a una regione, che porta ancora i segni dei conflitti, nella fase della ricostruzione». E la mente va alla ricostruzione in Umbria dopo il terremoto. «Non si procede – afferma Boccardo –. Nonostante le passerelle politiche, ci scontriamo con una burocrazia che rischia di fare più danni del sisma».

I vescovi dell'Umbria a Spalato in Croazia

I vescovi dell’Umbria a Spalato in Croazia

da Avvenire

Nuova laurea alla Lateranense. La pace dipende da noi (e per farla si può studiare)

Il rettore della Pontificia Università Lateranense spiega il ruolo chiave della formazione nella prevenzione e nella risoluzione dei conflitti

La pace dipende da noi (e per farla si può studiare)

da Avvenire

Caro direttore,

spiegare la pace non è così semplice. In modo immediato e intuitivo essa è intesa come il contrario della guerra o più in generale del conflitto che può riguardare ogni ambito del vivere sociale: rapporto interpersonale, identità contrapposte, eserciti e combattenti schierati. Ma la pace è molto di più. Può essere certamente una dimensione della politica di un Paese o restare solo un obiettivo della vita in comune tra gli Stati, magari degli «Stati amanti della pace» (come recita la Carta delle Nazioni Unite), con un significato teorico e un approccio pratico. La definizione diventa più articolata quando si fa riferimento alla possibilità di costruire la pace. La pace, infatti, è frutto di molteplici elementi, spesso tra loro inizialmente inconciliabili, ma che poi riescono a unirsi come effetto di azioni comuni tra i protagonisti della vita di relazione. Sono molteplici gli elementi che concorrono a determinare condizioni di pace. Sicurezza, disarmo, primato delle regole, sviluppo, diritti umani, migrazioni, salute, educazione sono soltanto alcuni tra i tanti fattori concorrenti a costruire la pace, come dimostra l’attenzione a livello internazionale e nazionale per questi obiettivi.

Questa premessa contribuisce, dunque, a superare il tradizionale approccio legato al binomio pace-guerra. Lo evidenzia anche l’azione delle diverse Istituzioni intergovernative che, di fronte alle nuove sfide, coniuga le aspirazioni alla pace al desiderio di promozione dei tanti fattori concorrenti. L’approccio utilizzato è, quindi, trasversale (cross-cutting) e considera la pace non come la situazione alternativa al conflitto, ma come la sua prevenzione o la sua soluzione. Per questi motivi, è qualcosa che investe tutti i livelli della società, iniziando da quelli individuali legati alla formazione. Non a caso, nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomodel 1948 si fa riferimento a condizioni di vita pacifiche. E nel 2016 con un’apposita Dichiarazione adottata dall’Onu, il diritto alla pace è diventato un obbligo rivolto a tutti gli Stati, poiché si fonda sui valori essenziali dell’umanità che sono presenti in tutte le culture, le religioni e le filosofie.

La pace va, quindi, interpretata nel contesto interculturale, è un fattore sociale contingente che necessita di processi educativi ad hoc. Da qui, l’esigenza di formare ed educare alla pace in modo tale che essa cessi di essere uno slogan e diventi un vero e proprio impegno a trasformare le persone, gli assetti sociali, gli ordinamenti giuridici, le istituzioni, le condizioni economiche favorendo così il dialogo, la comprensione, la gratuità, l’unità con gli altri, anche con i nemici. A questo vuole rispondere l’intuizione di papa Francesco che ha istituito all’Università Lateranense un Corso di studi sulla pace per formare «operatori di pace». Inserito nei percorsi di studio in scienze politiche, presente anche nelle Università italiane e estere, il Ciclo propone una laurea triennale in Scienze della pace e una laurea magistrale in Scienze della pace e cooperazione internazionale, per preparare funzionari e mediatori internazionali, futuri diplomatici, esperti di peacemaker, operatori negli scenari del post- conflitto, responsabili del Terzo settore. In un mondo che a causa della frammentazione esistente e crescente va delineandosi come ormai post-globale, c’è estremo bisogno che le giovani generazioni imparino e si formino all’idea che la violenza non è la cura, ma solo il modo per creare e combattere il nemico. Se correlato a tale logica lo studio della pace nelle sue diverse angolature può superare la violenza delle armi o la violazione dei diritti. Spetta a ognuno, singolarmente e ‘a corpo’, non restare più testimoni sorpresi per quanto accade nel nostro piccolo o grande mondo quotidiano; o di gridare allo scandalo pensando che la soluzione spetti ad altri. La pace dipende da me, da noi. Rettore della Pontificia Università Lateranense

La lettera di papa Francesco ai sacerdoti. Ancora coraggio perché tutto è dono

da Avvenire

Santo Padre, stavolta ci hai colto di sorpresa; proprio non ci aspettavamo questa lettera nel cuore dell’estate. Grazie, perché ci vuoi bene e ci incoraggi ad andare avanti con gioia. Come uno speleologo sei sceso negli anfratti più reconditi dei nostri cuori di sacerdoti e li hai illuminati con luce di sapienza. Avevamo bisogno di questa lettera. È vero, gli scandali sessuali a danno dei minori, commessi da nostri confratelli, hanno ferito – insieme a te, Francesco, e al tuo predecessore Benedetto – anche noi. Abbiamo sofferto per le vittime, per i loro cari, per la Chiesa e per chi, a causa di questi obbrobri, ha smarrito la fede.

È vero, anche noi, tante volte, siamo stati derisi e offesi per questi peccati che non avevamo commesso. Dolore, vergogna, senso d’impotenza in quei momenti ci hanno travolto, avremmo voluto parlare, dialogare, chiarire, ma non sempre l’altro era disposto ad ascoltare. Era il momento della croce e noi abbiamo chinato il capo. Abbiamo ingoiato bocconi amari sapendo che era giusto che fosse così, siamo un corpo solo e se un membro soffre tutto il corpo ne risente. Abbiamo pianto, ma mai, nemmeno una volta sola, siamo stati sfiorati dal pensiero di tirare i remi in barca. Facciamo tesoro delle tue parole, Santo Padre, oggi e negli anni che verranno. La tua lettera va ad arricchire il tesoro della Chiesa, immenso e mai esplorato abbastanza.

Hai voluto scriverci in occasione del 160° anniversario della morte del Santo curato d’Ars, un prete singolare, un mistico, capace di rimanere ore nel confessionale e balbettare sull’Altare rapito dal Mistero. Un prete di cultura modesta ma incredibilmente saggio, un vero esperto dell’animo umano. San Giovanni Maria Viannej riempiva le sue giornate di preghiera e di carità e tu ci vuoi come lui, non nell’imitazione pedissequa delle sue azioni, alcune delle quali potrebbero essere datate, ma in quella della grandezza del suo animo. Hai voluto riproporcelo, per indicarci la strada sicura, per metterci in guardia dalle trappole sempre più insidiose presenti sul cammino sacerdotale. Tu, padre e confratello, che porti sulle spalle il giogo della Chiesa universale, ti preoccupi di noi. E ci commuovi. Ci hai parlato della gratitudine. Ancora una volta hai affondato il dito nella piaga. L’ingrato, infatti, è un uomo sempre insoddisfatto; non ride, non sorride, sa solo brontolare. Tutto gli è dovuto, di niente si sente responsabile. Il seguace di Cristo, al contrario, sa che tutto è un dono, un dono che si ripete a ogni ora del giorno, e davanti al quale non può che rimanere incantato. Ci vuoi coraggiosi.

Ogni tempo ha avuto i suoi idoli, quello che viviamo non è da meno, e quando gli idoli si fanno minacciosi, intimidiscono, o, meglio, mettono alla berlina il prete e la sua fede in Dio, può anche accadere che il coraggio si dilegui. Il coraggio di cui tu parli, però, non è quello che proviene da un carattere forte, dalla presunzione o dalla giovinezza, ma dallo Spirito Santo, che, come ci ha detto Gesù, ci guida, ci difende, ci consola. Un coraggio che nasce dalla fede. «Io so in chi ho creduto», ripeteva a se stesso san Paolo nei momenti bui. E ci metti in guardia dall’accidia, quella «tristezza dolciastra» che ci svuota dentro, «il più prezioso elisir del demonio» ci hai ammonito, citando Bernanos. Non potevi concludere, Santo Padre, senza ricordarci l’importanza di Maria nella vita della Chiesa. Da lei abbiamo imparato e ancora dobbiamo imparare tanto.

Come ogni generazione anche la nostra ha il dovere e l’onore di dirla beata. È madre di tutti, ma ci piace pensare che per noi preti ha uno sguardo particolare. «Com’è bello vedere un prete con la corona in mano», mi ha detto un giorno una donna incontrata per la strada. Il Rosario, la preghiera dei poveri, degli umili, di quelli che nemmeno sanno leggere. La preghiera che accomuna colti e analfabeti, ricchi e poveri, bianchi e neri. A lei, la mamma che tanto somiglia alle nostre mamme, prima, vera discepola di suo Figlio, chiediamo la grazia di sostenere il nostro ministero sacerdotale. E non smettiamo di implorarla per te, Padre santo, mentre conduci al porto sospirato la barca di Pietro in questo tempo così ricco di opportunità e d’insidie, di santità e di egoismi. Grazie, padre. Da un prete tra i tuoi preti.

Laureata, partita dall’Italia. Noi col cuore in sospeso (riflessione di una espatriata)

Ho appena salutato nuovamente la mia famiglia e il mio Paese. Sono una giovane laureata che lavora all’estero, da ormai più di 6 mesi…

(Ansa)

(Ansa)

da Avvenire

Caro direttore,

è un giorno di fine luglio, e ho appena salutato nuovamente la mia famiglia e il mio Paese. Anche io sono una giovane laureata che lavora all’estero, da ormai più di 6 mesi. Un classico, la laurea triennale in Italia, la magistrale in Antropologia ad Amsterdam, un ritorno in Italia demoralizzante e alla prima chiamata di lavoro all’estero non ho esitato, ho fatto i bagagli e sono partita, tutto sommato anche contenta, devo dire. Ora lavoro con i Salesiani in Messico, dove faccio ricerca sul tema dei diritti dell’infanzia. Nonostante ciò, i saluti, gli addii, sono sempre i momenti più difficili, anche per chi ha scelto di partire e ha trovato il lavoro dei sogni. Avere la famiglia lontana è sempre un vuoto incolmabile. Partendo ho scritto qualche riga di getto, pensando a tutti i migranti che lasciano gli affetti senza nemmeno sapere se e quando potranno rivederli. Incollo qui sotto questi pensieri, se crede di poterci fare qualcosa ne sarò contenta! Colgo l’occasione per ringraziare lei e tutta la redazione di “Avvenire”, perché in questi anni preoccupanti non rinunciate a essere una voce controcorrente. Vi auguro perciò buon lavoro, anche oltreoceano avete lettori che vi seguono e vi sono grati!

«Quando per strada, in stazione, in un negozio, incrocerete il vostro sguardo con lo sguardo di un immigrato, qualunque sia la sua condizione, uomo, donna, bambino, adolescente, di provenienza asiatica, sub-sahariana, nord-sahariana, scacciate ogni discorso ascoltato nei tg, al bar, per strada, che minacciano e bombardano con controindicazioni sui ‘migranti’ come se fossero il bugiardino di un medicinale, pensate solamente: «Guarda questo essere umano, ha un cuore in sospeso», e augurategli un buongiorno. Perché ogni migrante, ogni persona che ha lasciato la sua casa, ha un cuore in sospeso. Ce l’ha lo studente che parte per l’Erasmus, l’innamorato che si unisce alla sua compagna in un Paese diverso, la ricercatrice che ha trovato il lavoro dei suoi sogni oltreoceano, la diplomatica che svolge il suo incarico istituzionale dove parlano una lingua diversa dalla sua, il giovane che va a Londra a cercare fortuna con il pretesto aggiunto di imparare l’Inglese, l’operaio che è stato ricollocato all’estero dalla propria ditta. Tutti questi migranti, hanno un cuore in sospeso, allo stesso modo dei e delle giovani che attraversano il Mediterraneo e di tutti gli esseri umani in cammino che cercano di attraversare un confine che li sancirà immigrati, richiedenti asilo, clandestini. Chiunque parte sa che lascia: lascia la casa, la famiglia, gli affetti, il cibo dell’infanzia, i colori, profumi, le proprie stagioni, gli amici… lascia, e una parte di sé rimarrà in sospeso, insoddisfatta, cullata dalla nostalgia che lo accompagnerà fino al prossimo ritorno. Ogni addio è un’interruzione di quel flusso di sentimenti, di amore, di quotidianità a cui non si dà molto peso fino a quando si deve dire addio; è solo allora che l’ordinario diventa straordinario, e lasciarlo appesantisce il cuore, stritola la gola, dilata lo stomaco, scioglie gli occhi. E anche se i primi vengono chiamati expat, espatriati, perché partono con passaporti privilegiati, soldi in tasca, carte prepagate, di credito, assicurazioni, permessi e visti, uno smartphone con cui connettersi a un wi-fi anche quando il proprio operatore smette di servire, anche a loro ogni arrivederci, ciao, ci vediamo presto, sospende una parte di cuore. Chissà tra quanto il prossimo abbraccio, e anche se sai che per qualsiasi emergenza potrai sempre prendere un aereo, che il cuore si riscalderà con nuovi affetti, amicizie, gioie, la profonda tristezza del distacco è inevitabile. Ritornate allora a quello sguardo incrociato con lo sguardo dell’essere umano che avete di fronte, e che a differenza di un expat ha lasciato davvero tutto e con sé ha potuto portare solo la speranza di un futuro migliore e un cuore in sospeso. Guardatelo e sorridetegli, augurategli un buon giorno e fatelo sentire ben venuto, perché ogni cuore in sospeso ha bisogno di sentirsi a casa nella sua nuova casa».