Bätzing: risposte sul Cammino sinodale tedesco

di: Marcello Neri – Settimana News

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Prima la Conferenza episcopale polacca (SettimanaNewsqui), poi quella dei paesi nordici (SettimanaNewsqui), avevano espresso tramite delle lettere aperte profonde riserve rispetto al Cammino sinodale della Chiesa cattolica tedesca.

A entrambe ha ora risposto il presidente della Conferenza episcopale, mons. Bätzing. La lettera inviata ai vescovi polacchi è rimasta confidenziale, mentre quella ai vescovi dei paesi nordici è stata pubblicata sul sito della Conferenza episcopale tedesca. Della critica giunta dalla Polonia, più che i contenuti aveva irritato la forma: il testo di mons. Gadecki era diventato di dominio pubblico prima che i vescovi tedeschi, compreso mons. Bätzing a cui era indirizzato, potessero prenderne visione.

Questo potrebbe spiegare il motivo per cui la sua risposta a Gadecki non è stata resa pubblica. È probabile, poi, che nei toni della replica il presidente della Conferenza episcopale tedesca sia stato anche più duro rispetto a quello conciliatorio usato con i vescovi nordici.

Nella lettera inviata a questi ultimi, Bätzing spiega le ragioni per cui le loro preoccupazioni e riserve non hanno ragion d’essere – in primo luogo perché “non corrispondono a quando effettivamente discusso, ai reali processi di consultazione e a quanto si trova nei documenti approvati”.

In secondo luogo, “è chiaro che il Cammino sinodale si attesta a livello della ricerca sinodale di un potenziale vitale nella vita e nell’agire della Chiesa oggi a cui papa Francesco, come dice anche lei, chiama tutta la Chiesa”. In questo senso, sia all’Assemblea dei sinodali tedeschi sia ai cattolici del paese è ben chiaro ciò che è possibile attuare a livello locale e ciò che coinvolge l’intera Chiesa cattolica sul piano universale. Distinzione adeguatamente rispettata, sia nella mentalità dei partecipanti sia nei testi che sono stati votati.

L’esperienza sinodale tedesca, che nasce dal dato di fatto del “fallimento della Chiesa nell’impedire gli abusi” al suo interno, insegna però che un “semplice andare avanti come si è sempre fatto non fa altro che distruggere la Chiesa”. Proprio questa base di partenza era ciò che nella lettera di critica di mons. Gadecki non veniva tenuto in debita considerazione per inquadrare correttamente il senso del Cammino sinodale tedesco. E su questo Bätzing si augura uno scambio fruttuoso con i colleghi polacchi: “mi piacerebbe imparare da voi, come state gestendo le cause sistemiche delle migliaia di casi di abuso che vi sono da noi in Germania, da voi in Polonia, ma anche in tutto il resto della Chiesa”.

Davanti all’accusa proveniente dai vescovi nordici di una Chiesa tedesca che butta a mare il depositum fidei, Bätzing ricorda che esso non deve venire inteso in modo tale che “ogni prassi ecclesiale, ogni regola e forma sociale della Chiesa, che si sono sviluppate nel corso della storia a partire da congiunture storiche ben determinate, siano di per sé immediatamente parte di questo depositum immodificabile”.

E sembra essere proprio il modo teologico di leggere la storia quello che separa i vescovi polacchi e nordici dalla Chiesa cattolica tedesca. Bätzing rimanda al mittente l’accusa di avere ceduto allo spirito del tempo e quella di dare alle scienze umane un rango superiore a quello della Scrittura e della tradizione. Certo, non tutto quello che avviene nella storia è indice dell’agire operoso di Dio nelle vicende umane – per questo si rende necessario un discernimento ecclesiale fondato teologicamente e competente dal punto di vista storico. Ma non si può negare che “l’agire e l’essere di Dio si fanno riconoscere anche negli eventi della storia umana” – sulla scia di Gaudium et spes.

E qui raggiungiamo uno spartiacque che non riguarda solo il Cammino sinodale tedesco, ma anche il giudizio ecclesiale sul pontificato di Francesco: ossia, quello del rilievo teologico e della normatività per l’attuazione ecclesiale della storia comunemente umana. Su questo la Chiesa tedesca e la Chiesa cattolica secondo Francesco coincidono perfettamente l’una con l’altro – e non è cosa da poco.

𝗦𝗶𝗻𝗼𝗱𝗼, 𝗱𝗮𝗹 𝗽𝗲𝗻𝘀𝗶𝗲𝗿𝗼 𝗮𝗹𝗹’𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲. Si moltiplicano le riflessioni sul Sinodo: è una buona notizia – dice Sergio Di Benedetto – perché abbiamo bisogno di costruire pensiero, per arrivare a una non più rimandabile azione ecclesiale

Lo stile sinodale di Papa Francesco Superare il clericalismo

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Pubblichiamo stralci del testo del sottosegretario del Sinodo dei vescovi uscito sulla rivista «Vita e Pensiero» (numero 2 del maggio 2021).

La recente cerimonia di apertura del Sinodo sulla sinodalità, al quale Papa Francesco ha convocato tutta la Chiesa di Dio, rappresenta un’ottima opportunità per introdurre una riflessione volta a chiarire come l’esercizio sinodale costituisca la modalità di essere Chiesa. In questo senso, Papa Francesco può a pieno titolo dirsi “il Papa della sinodalità”, avendo deliberatamente scelto di governare la Chiesa “all’interno del” e “attraverso il” Sinodo dei vescovi, mettendo l’accento sulla sinodalità e affermando con chiarezza che la conversione sinodale della Chiesa è un atto di risposta al discernimento che questa fa della volontà di Dio. Il Sinodo straordinario su «Le sfide pastorali della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione», convocato pochi mesi dopo la sua elezione, ha chiaramente manifestato l’aspettativa, comunicata nel discorso di apertura del Sinodo, che esso fosse caratterizzato dalla libertà di parola.

Lo stile sinodale di Papa Francesco è certamente il riflesso della sua esperienza della Chiesa in Argentina e dell’influenza della “teologia popolare argentina” che ha plasmato il suo ministero di gesuita e di arcivescovo di Buenos Aires. D’altra parte, però, questa visione è da comprendersi come “costitutiva della Chiesa”, radicata in una rivalutazione (e riappropriazione) dell’enfasi conciliare sulla Chiesa come popolo di Dio articolata nella Lumen gentium, a partire dall’affermazione del sacerdozio di tutti i fedeli: «Cristo Signore, pontefice assunto di mezzo agli uomini fece del nuovo popolo “un regno e sacerdoti per il Dio e il Padre suo”. Infatti per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui che dalle tenebre li chiamò all’ammirabile sua luce. Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio, offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio» (Lumen gentium, 10). E continua: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo». Nell’ambito, cioè, del solo sacerdozio di Gesù Cristo, vi sono, per così dire, due modalità di partecipazione: il sacerdozio comune di tutti i fedeli, quello regale, e il sacerdozio gerarchico, quello “ministeriale” (come affermato più avanti nello stesso paragrafo). La reciprocità di queste due modalità di partecipazione all’unico sacerdozio di Gesù Cristo emerge con tutta chiarezza.

Altra colonna portante dell’idea di sinodalità è rappresentata dal suo rapporto con il cosiddetto sensus fidei, per mezzo del quale tutti i battezzati partecipano anche all’ufficio profetico del Signore Gesù. In quest’ottica, tutti i fedeli richiedono la presenza dei vescovi e i vescovi richiedono la presenza di tutti i fedeli; anzi, i vescovi non possono esistere senza i fedeli appunto perché provengono dai fedeli ed esistono per nutrire i fedeli. Questa visione sinodale della Chiesa si articola con un’antropologia relazionale, in virtù della quale è evidente che tutti siamo collegati. Tutti i battezzati, in virtù del battesimo, sono chiamati a essere discepoli-missionari, resi partecipi della missione del Signore Gesù.

La capacità di ricevere l’insegnamento del Vaticano II con maturità e pienezza richiede una conversione a ogni livello della Chiesa, perché la nozione di conversione pastorale è strutturale per la Chiesa intera, e quindi deve rispecchiarsi nella prassi, nell’esercizio dell’autorità e nelle strutture. Il sensus fidei e la conversione pastorale, insieme a una comprensione della relazione tra il sacerdozio regale di tutti i credenti e il sacerdozio ministeriale, sono imprescindibili perché la Chiesa sia in grado di liberarsi dal male del clericalismo, e in tal senso Papa Francesco richiama una delle svolte più importanti del Vaticano II , e cioè che il pensiero ecclesiologico non inizia col primato, concepito al vertice di una visione piramidale della Chiesa, ma con tutto il popolo di Dio. Il primato papale non può più essere concepito “da solo” o “in sé”, ma solo “in relazione a” e “con” tutti i membri del Corpo di Cristo. Questo è il cuore della visione sinodale fondata sull’ecclesiologia del Popolo di Dio. La sinodalità è diventata la chiave ermeneutica per comprendere il ministero gerarchico, e quindi il primato. Il Sinodo dei vescovi, che rappresenta l’episcopato cattolico, diventa un’espressione della collegialità episcopale all’interno di una Chiesa interamente sinodale, e lo stesso primato petrino viene esercitato in circolarità con i vescovi e i fedeli, plasmato da una mentalità sinodale. L’esperienza del Sinodo sulla famiglia e poi del Sinodo dei giovani ha portato alla promulgazione di una nuova costituzione, la Episcopalis communio, che mostra il Sinodo come un processo e non più come un evento e chiede che, nella prima fase, siano consultati le Chiese e tutti i fedeli, integrando così la fase dell’accoglienza nell’intero processo e recuperando il sensus fidelium. Per essere chiari, Papa Francesco non ha cambiato alcuna dottrina riguardo al primato o alla collegialità. Piuttosto, ha semplicemente posto questi elementi, costitutivi della Chiesa, in relazione all’altro elemento anch’esso costitutivo della Chiesa: tutti i battezzati. Questa relazione si trova incarnata nella visione di Sinodo lanciata dalla Episcopalis communio che determina un processo in tre fasi che inizia da ciò che è alla base in ogni diocesi per allargarsi a livello di conferenza episcopale e facendo precedere l’assemblea generale dei vescovi a Roma dalla fase degli incontri pre-sinodali continentali.

Osservatore Romano

Il Sinodo è dei poeti e di chi prega

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Osservatore Romano

«La tendenza ad attaccare la democrazia è assai forte perché la democrazia è frustrante. Anche quando funziona, di rado porta a gratificazioni immediate, perché ogni singola azione dovrà essere mediata attraverso forme di compromesso. Poiché è molto probabile che includa punti di vista ampiamente conflittuali, i processi democratici, di solito, sono estremamente complicati e richiedono forme di pensiero e comunicazione ricche di sfumature. Di sicuro, la democrazia non è fatta per gli istinti umani». Può risultare abbastanza pericoloso accostare alla parola Sinodo l’impietosa riflessione che Cristopher Bollas fa nel suo saggio L’età dello smarrimento parlando di democrazia. E il pericolo può venire da quel fraintendimento che molti fanno nel confondere il processo sinodale come una sorta di processo di democratizzazione della Chiesa. Il Sinodo non è una forma di democrazia ma la riscoperta di una identità che nasce come frutto dello Spirito. Un Sinodo non serve a trovare un “giusto compromesso” tra posizioni molte diverse tra loro, ma a riscoprire al fondo di ogni diversità quel fiume comune di verità e comunione che ci tengono insieme. L’assunto da cui ogni Sinodo parte è semplice: ciò che ci unisce è più forte di ciò che può dividerci, e lo Spirito parla un linguaggio di comunione proprio attraverso la dialettica della diversità. Non si tratta quindi di trovare “compromessi” ma di riscoprire una comunione sulle cose che contano, e in quella comunione sapere che parla la volontà di Dio, unica vera grande preoccupazione di ciascuno di noi. Ma Bollas fa emergere un aspetto che è valido anche per un processo sinodale: dialogare, comunicare, ascoltare, confrontarsi, integrare, lasciarsi mettere in discussione, sono tutte cose che presuppongono la fatica di metterci contro quell’istinto di prevaricazione che abita dentro ciascuno di noi. Il fascino di una simile esperienza non deve illuderci che sia anche semplice. La vera possibilità è data dalla capacità di scendere a un livello più profondo di confronto. Bisogna passare dall’istintuale allo spirituale. In questo senso, laicamente, due poeti si intendono meglio di due manifestanti. E cristianamente due persone che pregano si intendono meglio di due cristiani che militano in sensibilità opposte. Il Sinodo è di chi prega non di chi vota. Ecco perché mi ha colpito ascoltare qualche giorno fa le parole del cardinale Grech che diceva «sogno un tempo in cui non avremo più bisogno di votare in un Sinodo perché ci intenderemo senza più bisogno di maggioranze e minoranze». Può sembrare una provocazione o l’incanto d’un poeta che vede le cose da una luce idealistica, ma sono convinto che la vera poesia è profezia: vede molto più lontano di quanto il nostro realismo riesca a vedere.
Grech ha ragione, senza un sogno così non avrebbe senso nemmeno metterci in gioco in una simile esperienza. Ci riusciremo? Desiderarlo è già un frutto dello Spirito.

Sinodo italiano, a lavoro per convergenza con assemblea mondiale

Sinodo italiano, a lavoro per convergenza con assemblea mondiale

Città del Vaticano, 23 lug. (askanews) – Il Segretario del Sinodo, cardinale Mario Grech, ha ricevuto il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Gualtiero Bassetti, in vista del “cammino sinodale” italiano, sintomo di un’accelerazione del lavoro per una convergenza tra il sinodo nazionale e quello mondiale.
La Segreteria del Sinodo, che ha fisicamente luogo in Vaticano, organizza, da quando Paolo VI nell’immediato post-concilio creò questa istituzione, le assemblee sinodali generali, ordinarie o straordinarie, che radunano periodicamente a Roma vescovi da tutto il mondo o da alcune macro aree geografiche per discutere, e deliberare, su alcune specifiche questioni, sulle quali poi il papa, pastore universale, si esprime con una esortazione apostolica (che non necessariamente, come è accaduto a valle del sinodo panamazzonico, sostituisce il documento finale approvato con votazione dai padri sinodali).

Altro sono i sinodi (o percorsi sinodali, o cammini sinodali, o concili plenari) nazionali: che, in particolare sotto Francesco, si sono moltiplicati, ma restano iniziative confinate alle Chiese nazionali: Germania, Irlanda, Australia, Italia…
Se alcuni di questi sinodi sono partiti a spron battuto, come quello tedesco, fino a sollevare a Roma una qualche apprensione per il rischio di fughe in avanti di natura dottrinale, altri, come quello italiano, è sembrato stentare a prendere il via, con il papa che è più volte intervenuto, personalmente o tramite i suoi emissari, per sollecitare l’episcopato a fare il fatale passo di aprire un cammino sinodale. Alla fine, all’ultima assemblea plenaria dei vescovi, in primavera, la Cei ha annunciato che in autunno partirà tale processo.

Nel frattempo, però, il papa ha annunciato che sempre il prossimo autunno prenderà le mosse una consultazione globale del “popolo di Dio”, che dovrà coinvolgere i fedeli, le diocesi, gli episcopati di tutto il mondo, per sfociare in una assemblea generale da celebrare nell’autunno del 2023.
I due piani, così, quello dell’assemblea sinodale mondiale e quello dei singoli sinodi nazionali inevitabilmente si intrecciano. E lo stesso Francesco ha consigliato ad esempio al presidente della conferenza episcopale tedesca Georg Baetzing, ricevuto lo scorso 24 giugno, di “continuare sulla strada sinodale” intrapresa, “discutere apertamente e onestamente le questioni in gioco” e “giungere a raccomandazioni per un mutato agire della Chiesa”, ha riferito lo stesso vescovo di Limburgo, ma “allo stesso tempo, ha chiesto che la Chiesa in Germania contribuisse a plasmare il cammino della sinodalità che egli ha proclamato in vista del Sinodo dei Vescovi nel 2023”. Dunque procedere nel sinodo nazionale, ma poi convergere nel sinodo globale.

Qualcosa di analogo avviene ora con il “cammino sinodale” italiano. I contatti, le interconnessioni sono notevoli: il papa, ad esempio, ha recentemente nominato il vescovo di Modena-Nonantola-Carpi Erio Castellucci, da poco vicepresidente della Cei, tra i membri della segreteria del sinodo, e lo stesso Castellucci è stato nominato nei giorni scorsi, insieme a monsignor Pierangelo Sequeri, preside del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, e a padre Giacomo Costa, direttore di Aggiornamenti sociali nonché figura-chiave nelle ultime due assemblee sinodali generali (giovani e Amazzonia) nel “comitato consultivo di orientamento” della prossima assemblea. Ora, però, Grech ha ricevuto direttamente il presidente della Cei, card. Bassetti, “per uno scambio fraterno”, ha riferito la segreteria del Sinodo sui social, “sul processo sinodale della Chiesa italiana”.

 

Chiesa. Via al cammino sinodale, si parte dal popolo delle parrocchie e dalle diocesi

Al via il percorso nazionale che avrà come orizzonte il Giubileo del 2025. Basta input dall’alto. Spazio alle varie anime del cattolicesimo
La Chiesa italiana inizia il cammino sinodale che si concluderà nel 2025

La Chiesa italiana inizia il cammino sinodale che si concluderà nel 2025 – Avvenire / Gambassi

Il nome ufficiale è «Carta d’intenti». E rappresenta la prima roadmap del cammino sinodale della Chiesa italiana sollecitato da papa Francesco. Un percorso che è cominciato in modo formale con l’Assemblea generale dello scorso maggio e che è riassunto nel testo approvato dai vescovi della Penisola e consegnato al Papa. Il movimento “diffuso” che avrà come protagonisti le diocesi, le parrocchie e le multiformi espressioni del mondo ecclesiale italiano durerà cinque anni e avrà come orizzonte il Giubileo del 2025.
Il 2021 segna già il debutto del percorso in «sintonia con l’avvio della preparazione del Sinodo universale» dei vescovi.

Il 2022 è l’anno della «prima tappa» italiana che sarà dal «basso verso l’alto»: in particolare avrà come snodo il «coinvolgimento» del “popolo delle parrocchie”. Il 2023 costituisce la «seconda tappa» che andrà «dalla periferia al centro»: in primo piano un grande «momento unitario di raccolta, dialogo e confronto con tutte le anime del cattolicesimo» del Paese, specifica il testo-guida. La «terza tappa» prevista per il 2024 sarà «dall’alto verso il basso» e ruoterà attorno alla «sintesi delle istanze» emerse fra la gente e alla «consegna, a livello regionale e diocesano» delle proposte di azione pastorale. La conclusione durante il prossimo Anno Santo con la «verifica nazionale per fare il punto» dell’itinerario compiuto.

Il cronoprogramma recepisce le indicazioni di Francesco che lo scorso gennaio aveva sollecitato di varare un «Sinodo nazionale» tornando al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze del 2015 e che, a fine aprile, incontrando l’Azione cattolica, aveva suggerito che fosse «dal basso fino all’alto» e poi «dall’alto al basso», come lo stesso Bergoglio aveva già detto durante l’Assemblea generale del 2019. Nessun itinerario «precostituito», spiega la Cei. Anzi.

«L’incoraggiamento di papa Francesco – si legge nella Carta – richiede di dare una risposta sollecita e coraggiosa. Per fare questo occorre riprendere in mano Evangelii gaudium alla lente d’ingrandimento del Discorso di Firenze, facendo tesoro delle esperienze che in Italia già diverse Chiese locali hanno fatto in questi ultimi cinque anni». Il riferimento è anche ai Sinodi che la diocesi della Penisola hanno celebrato o stanno celebrando.

Mai nel testo si ricorre alla parola “Sinodo”: si preferisce utilizzare sempre l’espressione “cammino sinodale”, come del resto accade in Germania o in Irlanda dove sono in corso esperienze analoghe. A fare da filo conduttore la sfida di «annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita», evidenzia il titolo dell’itinerario italiano annunciato al termine del Consiglio straordinario permanente della scorsa settimana. Perché alla base della scelta sinodale c’è anche il «travaglio del tempo presente» marcato dalla pandemia che «sta mettendo in ginocchio le comunità cristiane, diocesane e parrocchiali».

Allora la crisi diventa occasione per «stimolare e accompagnare la rigenerazione, rafforzando quanto di buono e di bello si è già fatto negli ultimi anni, riaccendendo la passione pastorale, prendendo sul serio l’invito a rinnovare l’agire ecclesiale». Un «ripensamento» che non ha bisogno di ricercare «affannosamente soluzioni immediate», ma necessita di mettere a fuoco «i “punti cruciali” per il prossimo futuro».

La Carta ne indica alcuni: l’«abbondante semina della Parola»; la «proposta della lectio e della meditazione personale»; la «complementarità di celebrazioni sacramentali nelle comunità e di forme rituali vissute nello spazio familiare»; la «catechesi proposta con modalità e luoghi che superino il modello scolastico»; l’«azione educativa verso ragazzi»; l’urgenza di «un’alleanza familiare», di «una nuova stagione di solidarietà e carità», di un rinnovato «impegno civile» anche attraverso «un servizio politico all’altezza della ripresa auspicata». L’agenda sarà scandita dal rapporto fra «Vangelo, fraternità, mondo». Con alcune priorità: la “forma di Chiesa” per il futuro; l’Eucaristia domenicale come sorgente ecclesiale; l’accompagnamento delle famiglie; il ruolo dei giovani; l’attenzione ai poveri; la presenza sociale e culturale.

È ancora da definire la cassetta degli attrezzi di lavoro: può contenere un’«agenda di temi di ricerca», l’Instrumentum laboris, le schede per l’ascolto e la verifica, una piattaforma digitale per il confronto. Comunque la Conferenza episcopale prospetta già una rivoluzione nell’impostazione che ha segnato gli ultimi decenni. Con il cammino sinodale si passerà «dal modello pastorale in cui le Chiese in Italia erano chiamate a recepire gli Orientamenti Cei a un modello che introduce un percorso sinodale, con cui la Chiesa italiana si mette in ascolto e in ricerca per individuare proposte e azioni pastorali comuni».

Basta quindi limitarsi all’opzione «applicativa»: serve imboccare la via «di ricerca e di sperimentazione» a partire dai territori. Da qui le tre parole-chiave per coinvolgere le comunità: “ascolto”, “ricerca” e “proposta”. Il che significa «ascoltare la situazione», «cercare quali linee di impegno evangelico sono immaginabili e praticabili», «proporre scelte concrete che ciascuna Chiesa locale può recepire». L’intento è «smuovere il corpo ecclesiale e la sua presenza nella società». Ecco perché serve uno «stile ecclesiale» che guardi «al primato delle persone sulle strutture», alla «corresponsabilità», alla capacità di «tagliare i rami secchi, incidendo su ciò che serve realmente o va integrato/accorpato».

Il cammino italiano si armonizzerà con quello del Sinodo dei vescovi sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione” che, secondo la riforma approvata da papa Francesco, non si ridurre a un’adunanza in Vaticano ma coinvolgerà in prima battuta diocesi, Paesi e continenti. E questo va visto come «il primo momento» dell’itinerario nazionale, sottolinea la Carta d’intenti. Allora in Italia assumerà un valore particolare la data che segnerà in ogni diocesi del mondo (comprese quelle della Penisola) l’inizio del Sinodo dei vescovi: è domenica 17 ottobre quando ogni presule darà avvio al percorso universale nella propria Chiesa locale, preambolo del cammino italiano.

Avvenire

Venerdì 9 Luglio. Cei, Consiglio permanente straordinario sul Sinodo

I lavori, che si svolgeranno in videoconferenza, prevedono una condivisione sul “cammino sinodale” avviato. Sabato 10 luglio il comunicato finale
Il Consiglio permanente Cei del 23 marzo 2021

Il Consiglio permanente Cei del 23 marzo 2021 – Ansa / Ufficio stampa Cei

Avvenire

Il Consiglio permanente della Conferenza Episcopale Italiana torna a riunirsi venerdì mattina in sessione straordinaria per mettere a tema il cammino sinodale della Chiesa in Italia e raccordarlo con la preparazione dell’Assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi, già iniziata.

Lo ha comunicato una nota dell’Ufficio comunicazioni sociali della Cei, diffusa questa mattina. I lavori si svolgeranno in videoconferenza e non è prevista la consueta introduzione del cardinale presidente Gualtiero Bassetti. Ci sarà una condivisione sul “cammino sinodale”, avviato dalla 74ª Assemblea generale secondo quanto indicato da papa Francesco e proposto in una prima bozza della Carta d’intenti presentata al Pontefice.

Il Consiglio Permanente, in base a quanto stabilito dalla mozione votata dall’Assemblea generale, ha «il compito di costituire un gruppo di lavoro per armonizzarne temi, tempi di sviluppo e forme, tenendo conto della Nota della Segreteria del Sinodo dei Vescovi del 21 maggio 2021, della bozza della Carta d’intenti e delle riflessioni di questa Assemblea». E probabilmente proprio la costituzione del gruppo di lavoro per il cammino sinodale della Chiesa italiana sarà uno dei temi principali della mattina di lavoro (al momento non è prevista una ripresa pomeridiana, che pure in altre occasioni si è verificata). Ad ogni modo il comunicato finale verrà diffuso sabato mattina.

Come si ricorderà il tema del cammino sinodale della Chiesa in Italia era stato al centro dell’Assemblea generale svoltasi a maggio a Roma. Un cammino, aveva sintetizzato il cardinale Bassetti, per rilanciare l’evangelizzazione ed essere vicini ai problemi concreti della gente.

Sinodo Italia: se non ora, quando?

settimananews

chiesa italiana

«Non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,26-29).

C’è un tempo per ogni cosa, come sostiene il sapiente della Bibbia (Qo 3). E questo, certo, è il tempo per interrogarsi a fondo sul significato di una pandemia che sta mettendo in ginocchio il pianeta, a oggi tutt’altro che conclusa.

Ma per la Chiesa che vive in Italia – al pari delle altre Chiese della cattolicità sparse nel mondo intero – è altresì il tempo di mettersi in cammino, anzi: di avviarsi con una certa speditezza per un cammino sinodale, come l’hanno definito i vescovi nella loro 74ª Assemblea generale, svoltasi a Roma dal 24 al 27 maggio scorsi (si badi: una scelta che non è una diminutio rispetto a sinodo, rimandando tale locuzione a uno stile, una metodologia, un atteggiamento ecclesiale, ben più di quello che, nel caso peggiore, potrebbe risultare anche solo un mero adempimento burocratico).

Il titolo programmatico, “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita”, è destinato a diventare verosimilmente anche lo slogan del prossimo evento.

L’intera operazione dovrebbe articolarsi in tre fasi nell’arco di un biennio, cominciando a livello diocesano locale nell’ottobre 2021, passando poi al livello nazionale e, di seguito, a quello europeo, previsto per l’ottobre 2023.

Un impegno, va detto da subito, da far tremare i polsi, solo limitandosi a scrutare il piano organizzativo: ma anche, e vorrei dire soprattutto, un’occasione preziosa, da cogliere al volo e da sfruttare appieno, che avrà bisogno da parte di tutti noi di grande pazienza, grande capacità di ascolto e grande umiltà. Imparare ad agire sinodalmente, da parte dei laici, dei presbiteri, dei vescovi, non sarà per nulla facile. Soprattutto per la disabitudine di tutte le componenti, al riguardo.

La posta in gioco

La posta in gioco, in effetti, è davvero alta. Anche perché, almeno per ragioni anagrafiche, del prossimo cammino sinodale potrà sentirsi partecipe per l’ultima volta in un’esperienza ecclesiale importante una generazione ancora in grado di fare riferimento al concilio Vaticano II con qualche cognizione di causa, avendone udito i racconti dai diretti protagonisti e respirato un po’ dell’atmosfera unica di quell’assise iniziata ormai quasi sei decenni fa.

Una generazione che – forse – può ancora scaldarsi il cuore su temi (come le riforme ecclesiali) che alla stragrande maggioranza dei giovani connazionali probabilmente appaiono sospesi fra l’astruso e l’insensato: eppure, ovvio, il coinvolgimento di questi ultimi in qualche modo nel processo sinodale resta vitale.

Credo che la domanda sottesa a tale processo, sull’identità della Chiesa e su che cosa significhi essere Chiesa oggi, vada declinata nell’unica modalità possibile e sensata: non rassegnandosi a contemplare il proprio ombelico né cimentandosi in analisi autoconsolatorie, com’è capitato in un recente passato (penso a Verona 2006), bensì misurandola sui suoi modi di relazionarsi con il mondo esterno, con quell’alterità che ormai ci abita e ci mette in crisi e non di rado ci inquieta, con la vasta porzione di Paese che non solo ha smarrito il senso di Dio, ma non sente per nulla il bisogno di un’appartenenza ecclesiale e neppure ha la percezione di cosa voglia dire un’appartenenza simile (inevitabile richiamare l’analisi di un teologo di vaglia come il gesuita Christoph Theobald che, sulla scorta dei lavori di Danièle Hervieu-Léger, parla dichiaratamente di esculturazione del cristianesimo dalla cultura occidentale).

Per orientarci e non smarrirci troppo, tra le mani abbiamo, dal 2013, una bussola credibile e non ancora sperimentata a fondo, il testo di Evangelii gaudium, che papa Francesco ha scritto non solo come programma del suo pontificato, ma come mappa di una Chiesa capace di uscita. E alcune parole-chiave: vangelo, fraternità, mondo.

Tutte da riempire, perché ha ragione il vescovo Erio Castellucci, eletto nell’occasione alla vicepresidenza dei vescovi italiani, che ne ha parlato lo scorso 31 maggio in un’intervista a Settimananews: «Non sono concetti: sono volti, esperienze, urgenze che riguardano tutte la necessità di ripensare l’annuncio di Cristo, in un contesto nel quale si sono riscoperte alcune grandi domande esistenziali». Volti oggi ammaccati, confusi, oltre che mascherati.

Fedeli allo stile di Gesù

Nei limiti di un intervento che ha l’obiettivo di gettare appena qualche sassolino per agitare acque che ci si augura possano divenire lustrali, vorrei evidenziare tre punti che in questo momento percepisco – da un’angolatura del tutto limitata e periferica – come cruciali per la felice riuscita dell’impresa.

Tre passaggi che contribuirebbero a misurare, fra l’altro, quanto la scelta episcopale sia stata dettata da una convinzione profonda, oppure da una rassegnazione ormai obbligata di fronte all’insistenza del papa: il primo richiamo del quale alla necessità di un sinodo nazionale è ormai di sei anni fa, novembre 2015, a Firenze al quinto convegno della Chiesa italiana…

Per prima cosa, a dispetto della pubblicistica che si pasce di argomenti divisivi e caldi più o meno sentiti, bisognerà avere consapevolezza che il cammino sinodale, se vorrà riuscire, dovrà concentrarsi su questioni di metodo, più che di contenuti (i quali, naturalmente, non mancheranno, come non dovranno mancare le decisioni e gli sguardi di prospettiva, pena ulteriori frustrazioni per ciò che resta del mondo cattolico).

Perché? Perché sinora, come si accennava, salvo benemerite eccezioni, nei sinodi precedenti, la parola d’ordine della sinodalità, del camminare insieme, sia pur proclamata, è rimasta spesso sulla carta; ed è necessario che si passi finalmente dalla carta alla vita.

E che lo si faccia sulla scia dell’unico Maestro possibile e veritiero, Gesù di Nazaret. Ciò che Gesù fa e dice nei suoi incontri, nei vangeli, costituisce un tutt’uno con il suo essere: in lui ci sono un’assoluta unità e trasparenza di pensiero, parola e azione che sono manifestazione del Padre. Una bellezza che, a saperla guardare, affascina e può ancora affascinare il mondo.

Dallo stile di Gesù emerge la provocazione di un messaggio che apprende, mentre le patologie e le infedeltà al vangelo che pervadono ogni epoca della storia ecclesiale – compresa la nostra, posta alla fine del regime di cristianità – sono leggibili come rottura della corrispondenza tra forma e contenuto.

Quando prevale la forma, si produce un cristianesimo ridotto a estetismo liturgico, istituzione gerarchica, struttura, dove, però, è assente la sostanza di quell’amore che porta Gesù fino alla croce. Se invece prevale il contenuto, si ha un cristianesimo ridotto a impianto dottrinale e dogmatico, verità fatta di formule alle quali credere, ma priva di un legame vitale con l’esistenza delle persone.

Gesù, dal canto suo, ha indicato piuttosto un metodo da adottare, la strada di un vangelo capace di apprendimento, e creato uno spazio di libertà attorno a sé comunicando, con la sua sola presenza, una prossimità benefica a tutti quelli che incontrava.

Una Chiesa fedele allo stile di Gesù, perciò, non si presenta come istituzione detentrice di un sistema di dogmi da insegnare al mondo, né ovviamente come societas perfecta, bensì quale spazio in cui le persone possono trovare la libertà di far emergere la presenza di Dio che già abita la loro esistenza.

Ogni persona, infatti – quali che siano la sua appartenenza religiosa, il suo pensiero e la sua cultura – è portatrice di un’immagine di Dio che aspetta di schiudersi, cioè di fare proprio lo stile di Gesù: quindi i cristiani dovrebbero essere in ricerca della manifestazione divina propria di ogni religione e di ogni pensiero, invece di assumere atteggiamenti di svalutazione e condanna.

In ascolto del popolo di Dio

In seconda battuta, affinché il processo sinodale non si ponga su un binario morto, sarà necessario che esso dia fiducia e prenda sul serio il popolo santo di Dio (con tutte le sue manchevolezze, le nostre manchevolezze, i suoi limiti, le sue fragilità).

Ascoltandolo attentamente in tutte le modalità possibili, ma soprattutto affidandogli, per quanto possibile, la scelta del menu di argomenti da trattare. Cosa che potrà causare delusioni e inciampi, ma che potrebbe anche invece produrre esiti sorprendenti.

Parafrasando papa Francesco nella Gaudete et exsultate, mi verrebbe da dire: prendiamo sul serio i cristiani della porta accanto, quelli semmai affaticati da una quotidianità che costantemente ci rincorre, forse con pochi titoli ma tanta vita da raccontare e da condividere.

Mi torna in mente la considerazione di un vescovo francese di vent’anni fa, Albert Rouet, autore del bestseller La chance di un cristianesimo fragile, fatta a un giornalista che chiedeva cosa la Chiesa dovrebbe fare per poter essere meglio accolta nell’attuale congiuntura culturale, con cui indicava con franchezza evangelica il suo sogno: «Rispondo alla domanda con un’utopia. Vorrei una Chiesa che osa mostrare la sua fragilità. A volte la Chiesa dà l’impressione di non aver bisogno di nulla e che gli uomini non abbiano nulla da darle. Desidererei una Chiesa che si metta al livello dell’uomo senza nascondere che è fragile, che non sa tutto e che anch’essa si pone degli interrogativi».

Insomma, come avrebbe risposto don Tonino Bello: una Chiesa del grembiule. Del resto, i modelli e i codici comportamentali ai quali ci si poteva conformare con tranquillità e che potevano essere scelti come punti di riferimento fino a pochi anni fa per la costruzione di un’identità ecclesiale da conseguirsi una volta per tutte, non esistono più.

Caducitàfriabilitàprovvisorietà sono i nomi della fragilità anche dei soggetti collettivi (la coppia, la famiglia, le organizzazioni, i partiti politici, le istituzioni in genere, comprese le Chiese e le comunità religiose).

Interruzioneincoerenzasorpresa sono le normali condizioni della nostra vita. Con cui l’imminente processo sinodale sarà chiamato a scontrarsi, bagnandosi di realtà.

Abitare la fragilità, come ci siamo abituati a ripetere durante la pandemia, significa soprattutto accettare la sfida insita in questo tempo di permanente transizione eletta a orizzonte vitale; capire e amare questa condizione con le potenzialità e le risorse nuove che porta con sé, accettando che sia finita un’epoca e che la nostra condizione sia pressoché irriconoscibile rispetto alle forme ereditate dal passato, persino recente. Senza alcuna certezza da vantare.

La crisi pandemica, del resto, non ha fatto altro che accelerare dinamiche già evidenti (dalla penuria di presbiteri alla crisi degli istituti religiosi, dalla situazione mortificante di tante parrocchie alla frustrazione di chi si occupa della trasmissione generazionale della fede), che vanno ben al di là di una pura e impietosa lettura di cifre su quanto pochi siano i seminaristi oggi in Italia o su quanti fedeli non siano più tornati all’eucaristia domenicale dopo il lockdown del 2020.

Potrebbe peraltro rivelarsi un kairòs, un tempo di straordinarie e sorprendenti opportunità, se ci crederemo e ci investiremo energia e passione. Se prevarrà la realtà.

«La realtà è superiore all’idea» è uno dei principi che – com’è noto – guidano il pensiero di papa Francesco. Il quale ne parla, per la prima volta, nell’esortazione Evangelii gaudium, al numero 231, mentre affronta gli obiettivi, a lui particolarmente cari, del bene comune e della pace sociale, inserendolo fra i criteri per un discernimento di scelte capaci di favorire un’ordinata vita sociale ed ecclesiale: «La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà».

L’invito, dunque, è a vigilare attentamente su quelle forme di idealismo che – pur talvolta generose e mosse da buone intenzioni, ma non per questo innocue – rischiano di mortificare il reale. Che deve penetrare nel tessuto del processo sinodale!

Osare il dialogo

In terzo luogo, coerentemente con quanto detto sinora, c’è da augurarsi che esso scelga di aprirsi, il più possibile. Solo rapportandomi all’altro, posso capire qualcosa di ciò che sono. Coinvolgiamo perciò donne e uomini dotati di professionalità di alto livello, interni ma anche esterni a percorsi ecclesiali, interrogandoli a fondo, e non pro forma, sulla loro percezione della Chiesa, sui problemi e sui futuri immaginabili.

Certo, le istanze delle fedi sono oggi sempre più provocate da un mondo regolato su stili civili, sociali e culturali in cui tanto il bricolage di codici religiosi quanto l’indifferenza verso il divino e una certa banalizzazione del sacro si stanno via via accentuando.

Eppure siamo chiamati, e saremo chiamati ancor più domani, a osare il dialogo, sforzandoci di edificare ponti (e non muri) nella Babele che abitiamo.Tornando alla citata esortazione Evangelii gaudium e ai quattro princìpi che dovrebbero orientare specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune, il primo di essi è: il tempo è superiore allo spazio. Ecco come viene descritto dal papa (citazione lunga, ma vitale):

«Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione.
Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (n. 223).

C’è di che meditare, in vista dell’ormai imminente cammino sinodale. Anche perché, come si legge nella Mishnà, trattato Pirkè Avot in un detto attribuito a rabbi Tarfòn: «La giornata è corta e il lavoro è tanto; gli operai sono pigri, il compenso è abbondante e il padrone di casa incalza. Ma non è tuo il compito di completare l’opera, né sei libero di esentartene» (Pirkè Avot 2,18-19).

Se c’è un tempo per ogni cosa, questo è il tempo per non esentarsi dal tentare l’opera e dal sentirsene partecipi. Se non ora, quando?