Gli studenti e le studentesse del Liceo A.F. Formiggini di Sassuolo, insieme al loro insegnante di religione, si sono impegnati in un “Sinodo a scuola”

In un clima sereno e di fruttuoso confronto, hanno dialogato partendo da alcune domande-guida che hanno orientato gli interventi di ciascuno e il dibattito in classe:

Come senti o ti senti nella Chiesa?
Ti senti ascoltato dalla Chiesa? Secondo te, la Chiesa sa ascoltare?
Che cosa la Chiesa può imparare dalla società in cui viviamo? Che atteggiamento dovrebbe avere?
Che cosa chiedi tu alla Chiesa oggi? Come potrebbero rinnovarsi, guardando al futuro?
Com’è la Chiesa che sogni? Quali passi compiere per arrivarci?
Frequenti la parrocchia? Come ti senti al suo interno? Che cosa funziona o non funziona?
Quali sono i punti da confermare, le prospettive di cambiamento, i passi da compiere? Quali strade si stanno aprendo per la nostra Chiesa locale?
Hai altri temi sui quali vorresti dialogare con la Chiesa cattolica?

Un primo tema emerso dalla discussione in classe è quello della mancanza di giovani all’interno del contesto ecclesiale. Gli studenti, inoltre, rilevano anche una certa “indifferenza” da parte dei responsabili di comunità davanti a questo vuoto. Quei pochi, poi, che continuano a frequentare sono considerati dai loro coetanei dei veri e propri “alieni”.

Un secondo tema è quello del bigottismo dilagante e della rigidità del contesto parrocchiale, che porta ad un allontanamento maggiore delle giovani generazioni: parroci e catechisti che incutono timore, con il loro imporsi, pur di avere delle assidue presenze al catechismo. Dall’altro canto, però, va rilevata anche la pigrizia dei bambini e dei giovani a partecipare agli incontri previsti, perché attratti da cose che passano (vestiti, successo, denaro…) e anche dal desiderio di bruciare le tappe.

È emersa anche la considerazione che la Chiesa si presenta sempre cauta e lenta nei cambiamenti; in più vuol far vedere che è accogliente, ma in realtà non lo è.

Qui si inserisce anche tutto un discorso sul modo di fare catechismo, il quale non dovrebbe essere assimilato ad una lezione scolastica e che dovrebbe avere catechisti più preparati e non grossolani, capaci di far innamorare e non destare timore con rigidità e giudizio. Alcuni arrivano a dichiarare che così il catechismo non serve a niente, non lascia nessun ricordo e né tantomeno alcun concetto.

Un terzo tema che è venuto fuori molte volte è quello della mancata comprensione della liturgia: molti hanno confessato che per loro la celebrazione eucaristica è considerata noiosa proprio perché nessuno ha mai loro spiegato il senso dei gesti e la bellezza dei significati celati in essi. Si ravvisa, inoltre, una mancata preparazione del celebrante nel tenere l’omelia e nel rendere i temi religiosi vicini e affascinanti, per destare il senso del sacro. A volte si affrontano temi attuali, ma con atteggiamento giudicante, sintomo di ignoranza e di poca accoglienza.

Un quarto tema è quello dei sacramenti, il più delle volte visti come tappe obbligate, elargiti senza convinzione ma solo per convenzione. Molti li celebrano, ma pochi hanno consapevolezza di cosa stanno celebrando. Il più delle volte sono solo un alibi per fare festa.

Un quinto tema è quello dell’operato dei presbiteri: alcuni – cito testualmente le parole degli studenti – “sono veramente insostenibili”, altri non vivono quello che celebrano, altri ancora non si interessano delle situazioni e dei vissuti della loro comunità, tanto che alla richiesta di un aiuto rispondono di rimandare l’appuntamento per via del loro giorno libero.

Accanto ad alcuni che sono seri e che vivono la loro vocazione con impegno, fede e onestà, si stagliano altri molto innamorati del potere, ricercatori ossessionati dei propri interessi, che predicano la povertà, ma vanno a braccetto con i ricchi e i potenti.

Molti studenti, guardando al loro operato, dichiarano con tristezza e rabbia che “la Chiesa purtroppo non è un posto sicuro”.

Suggerimenti pratici
Accoglienza: vorremmo una Chiesa che sappia accogliere concretamente le diversità, che sia più aperta nei confronti delle persone appartenenti ad ogni orientamento sessuale. Si evitino atteggiamenti esclusivi e si sposino quelli inclusivi, per fare della Chiesa una comunità e non una elitè. La Chiesa, inoltre, non dovrebbe aspettarsi che siano i giovani ad andare da lei, bensì il contrario, se è veramente missionaria.

Ascolto attivo e dialogo: vorremmo una Chiesa che sappia ascoltare – prima di parlare – le ragioni altrui, considerando l’altro non un sacco da riempire o un ostacolo da eliminare, ma come una ricchezza da cui anche imparare.

Fare la differenza: significa cambiare mentalità, fare in modo che la gente sia attratta guardando la fede e lo stile di bene dei cristiani. Solo così la Chiesa tornerà ad essere ancora un punto di riferimento per la società. Va limitata, poi, l’istituzione, senza però sradicarla completamente.

Riprogettazione del percorso sacramentale: siano dati da adulti e dopo un percorso di fede consapevole e ricco di esperienza.

Valorizzazione della cultura: si investa in cultura per dare contenuto e sostanza alla fede anche con l’apporto del pensiero razionale, in una reciproca complementarietà.

Auspichiamo che lo scopo di tale cammino sinodale sia veramente non la produzione di fogli o documenti che non leggerà quasi nessuno, ma la volontà di – così come si scriveva già dai tempi del Sinodo dei giovani – «far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani».

Cosa trarre dall’esperienza
Consapevole della complessità e della varietà dei temi in gioco, vorrei – alla luce della discussione condotta con gli studenti e dell’esperienza di servizio mia personale all’interno del contesto ecclesiale – fare alcune considerazioni, che possono servire da stimolo e provocazione.

Come molti studiosi hanno ripetuto, viviamo in un tempo in cui è finita la cristianità, ma non il cristianesimo. Papa Francesco, dal canto suo, più volte ha ripetuto che stiamo vivendo “non un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca”.

Di solito, dinanzi alla complessità e alle difficoltà, la prima tentazione in cui si può cadere è quella di lamentarsi. Già Agostino metteva in guardia gli adulti del suo tempo da questo pericolo quando scriveva: «Voi dite: sono tempi difficili, sono tempi duri. Vivete bene e, con la vita buona, cambiate i tempi: cambiate i tempi e non avrete di che lamentarvi».

Ecco, Agostino pone l’attenzione sulle proprie responsabilità. È da queste che dobbiamo ripartire.

Lo stesso Instrumentum laboris del Sinodo dei giovani (2018) confessava: “molti giovani non ci chiedono nulla perché non ci ritengono interlocutori significativi per la loro esistenza”. Di più. Alcuni “chiedono espressamente di essere lasciati in pace, perché sentono la presenza della Chiesa come fastidiosa e perfino irritante”.

Dinanzi a questi graffianti giudizi, la Chiesa non può rimanere indifferente, ma cercare di fare la differenza.

Lungi dal fare di tutta l’erba un fascio, visto che molti sono coloro che operano nel silenzio della carità, ma a volte va constatata la motivazione “la Chiesa è fatta di uomini”, perché può essere usata come alibi per lasciare le cose come stanno o per non vedere i problemi.

Fare la differenza vuol dire che – per usare le parole del teologo francese Yves Congar – “non bisogna fare un’altra Chiesa, bisogna fare una Chiesa diversa”.

I giovani chiedono una Chiesa autentica e non di facciata; una Chiesa che ha il coraggio di cambiare le carte in tavola, pur rimanendo fedele al suo Cristo; una Chiesa che ponga un freno ai banchetti per tornare al grande banchetto dell’Eucarestia; una Chiesa che diviene sempre più comunità e sempre meno comitiva.

È importante avvicinare il messaggio evangelico, ma bisogna anche stare attenti a non scontarlo.

Chi non abita il corpo ecclesiale sarà sicuramente più attratto da una Chiesa che vive relazioni autentiche e durature piuttosto che una Chiesa che fa a gara per preparare feste, serate, sagre (con tanto di sponsor), dimenticando il Festeggiato.

La Chiesa non dovrebbe essere una pagina di Facebook che tenta d’accaparrarsi il maggior numero possibile di “like” cercando d’essere “moderna” o “alla moda”; la Chiesa dovrebbe essere madre e maestra di Verità. Il modo più efficace per danneggiare o addirittura distruggere la fede nei giovani è quello di promuovere una falsa e fuorviante distorsione della verità in un tentativo di acquisire popolarità.

Un gruppo di giovani, non ascoltati, in una lettera pubblica sul Sinodo dei giovani ebbero a scrivere: “Noi desideriamo che la Chiesa sia popolare, perché tutti conoscano l’amore di Cristo. Tuttavia, se dobbiamo scegliere tra popolarità e autenticità, scegliamo l’autenticità”.

A volte sembra che la Chiesa viva la parabola della pecorella smarrita al contrario: pur di non perdere le novantanove pecore rimaste nel recinto, ha paura di correre dietro a quella perduta per salvarla. Eppure la “Chiesa in uscita”, tanto cara a papa Francesco, chiede la missionarietà e non chiusura nella propria comfort-zone.

Certamente, praticando lo stile missionario, bisogna mettere in conto il rischio di perdere, almeno all’inizio. Ma è comunque necessario rischiare, consci del fatto che – per dirla con le parole di papa Paolo VI – “il cristianesimo non è facile, ma è felice”.

Un ultimo aspetto su cui il sinodo dovrebbe riflettere e lavorare è quello del ruolo della leadership nelle comunità, evitando con fermezza gli abusi di potere. Tornare alla ricchezza dei contributi offerti dal Concilio Vaticano II – come per esempio, quello della corresponsabilità dei laici – può essere molto salutare.

Un appello
A suggello di queste considerazioni, anche io mi unisco a queste giovani voci degli studenti e con amore di figlio impegnato nella Chiesa rivolgo ai vescovi che si riuniranno in assise questo semplice e schietto appello:

Noi giovani non vogliamo dei vescovi o ministri amiconi, ma amici.
Non vogliamo vescovi e ministri bravi nel fare analisi sociologiche, ma pastori di cui fidarci.
Noi giovani non vogliamo vescovi e ministri che indichino con il loro indice la via vera, buona e bella, ma rimangono al palo.
Non vogliamo vescovi e ministri come farisei che “legano pesanti fardelli sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito”, ma come Cristo che sapeva guardare e amare il giovane anche se ricco e triste.
Nulla maior est ad amorem invitatio quam praevenire amando, scrive Sant’Agostino all’amico che gli chiedeva come educare i difficili ragazzi dei suoi tempi – “Non c’è invito più grande all’amore che prevenire amando”.
Settimana News

Nel cammino sinodale bisognerebbe puntare di più i riflettori sul “laicato della teologia”. Quanti aspetti ormai trascurati potrebbero emergere dall’ombra?

Il cammino sinodale o, meglio, la riforma della chiesa in vista di una riscoperta del suo imprescindibile essere-sinodale, è ormai da più parti riconosciuto, instradato, istruito e avvalorato. Svariati interventi mettono in luce il carattere biblico-teologico della necessità di questa riforma, i suoi risvolti pastorali nelle parrocchie e nelle diocesi, nella considerazione delle diverse ministerialità laicali e specialmente delle donne, nella riformulazione (anche canonica) dei rapporti tra i diversi soggetti dell’unico popolo ecclesiale (pontefice, vescovi, presbiteri e laici). Voci autorevoli e impegnate, quindi, stanno cercando di comporre questo complesso mosaico, per dare nuova forma e vitalità alla chiesa nel suo annuncio evangelico.

Questa riflessione, come una veloce pennellata in questo più grande quadro, desidera mettere l’accento su un ulteriore “soggetto ecclesiale”, spesso dimenticato e che invece richiederebbe a sua volta un radicale ripensamento, a sua volta invero decisivo per il volto sinodale della chiesa: il laicato della teologia. Con questa espressione intendo volontariamente riprendere e invertire i termini che (a partire dal Vaticano II) indicano un preciso ambito di ricerca che ha iniziato a ricevere maggiore attenzione. Non si tratta, quindi, di una «teologia del laicato» bensì di valorizzare il «laicato della teologia», uomini e donne impegnati in un serio percorso di studi (riconosciuto anche a livello statale) in Facoltà, Università o Studi teologici per approfondire la scienza teologica e mettersi al servizio della comunità ecclesiale.

L’impressione è che si sia instaurato un gap, difficile da colmare, tra il clero (formato o meno) visto come la “mente” che “sa” e può insegnare, e il laicato (formato o meno) visto come il “braccio” che con buona volontà si mette a disposizione e sempre deve imparare. Inutile nascondersi come questo divario (tralasciando la questione “storica” per cui i laici, fondamentalmente, si sono avvicinati alla teologia praticamente dal 1965 in avanti) dipenda in primis dallo stesso percorso di studi, talvolta visto come proibitivo per chi non ha la possibilità di dedicarsi totalmente allo studio e alla ricerca, vale a dire per chiunque abbia la necessità quanto prima di lavorare per costruirsi un futuro (una casa, un matrimonio, una famiglia…). Detto altrimenti, un percorso “a misura di celibato”. Un percorso che a sua volta (lo accenniamo soltanto) sembra offrire soltanto degli sbocchi altrettanto “a misura di celibato”. In questo senso, sono rarissime le figure stipendiate di laici o di laiche al servizio di una comunità parrocchiale o diocesana, e spesso si preferisce ricorrere ai presbiteri (già “stipendiati”) per insegnare nelle Facoltà, nei Seminari o anche solo per tenere qualche corso di formazione. Insomma, theologia (simul carmina) non dat panem (o almeno, non al laicato).

Unitamente a questo primo aspetto, si affianca la questione ben più radicale della considerazione che il laicato della teologia ha nella compagine ecclesiale. Molto spesso il sacramento dell’ordine vale più di un baccellierato, una licenza o persino un dottorato in teologia. La figura del “prete” tende comunque a essere vista (talvolta da parte degli stessi laici!) come sempre più indicata per formare catechisti, educatori, insegnanti, fidanzati o giovani sposi (!), per guidare momenti di preghiera, commentare la parola di Dio ecc. Il teologo o la teologa laici, invece, a meno che non siano esplicitamente “raccomandati” (magari da un prete), sembrano essere considerati come dei “bravi oratori”, magari anche capaci di scrivere, ma che in fondo portano una propria opinione, un parere spassionato, da prendere per quello che è e per quello che può valere.

Il messaggio, invece, dovrebbe essere proprio questo: la fede da sempre ha e richiede, specialmente nell’odierno contesto socio-culturale, una propria intelligenza, vale a dire la possibilità di leggersi e di comprendersi in profondità alla luce della rivelazione. La teologia è la scienza che studia, approfondisce e indaga, in dialogo con la propria epoca e la propria storia, la fede cristiana (e non solo) in tutti i suoi aspetti. E questo vale per i vescovi, i presbiteri e i laici. Fare teologia non significa scambiarsi idee e opinioni, più o meno valide, più o meno argomentate, per una comune crescita e maturazione. Tutto questo è nobile e importante, ma non è «fare teologia» e non è «formare» in maniera seria. «Fare teologia» e «formarsi» significa leggere, studiare, approfondire e imparare, proprio come avviene (o quasi) per qualsiasi altro mestiere. Per quanto oggi il dilagare della rete e dell’informazione digitale sembra rendere tutti medici, virologi, sociologi, insegnanti ecc., ben sappiamo (o dovremmo sapere) che la realtà è ben altra, e che questa “confusione” tendenzialmente genera esclusivamente ulteriore ignoranza e disinformazione. La speranza è che questo non accada anche all’interno della chiesa di Dio, dove tutti parlano ma pochi (forse) sanno di cosa parlano.

L’intento non è quello di definire una élite teologica bensì, in un vero spirito sinodale, di riconoscere un ministero oggi più che mai indispensabile se si vuole realmente formare una coscienza critica ecclesiale, un popolo di Dio maturo, credibile, con un’autentica fede intelligente, capace di dialogare e di formarsi, davvero pronto «a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15).

vinonuovo.it

Il tema del Sinodo era: “Testimoni e annunciatori della misericordia di Dio”, declinato in cinque ambiti: la comunità cristiana, la famiglia, i presbiteri, i giovani e i poveri

di: Gabriele Ferrari – settimana news

Apertura del Sinodo diocesano

Da ventidue anni abito nella casa saveriana di Tavernerio (Como) e, concluso il periodo di insegnamento nel Seminario nazionale del Burundi, sono ora impegnato nella vita della diocesi di Como. Il Vescovo mi ha nominato delegato episcopale per la vita consacrata e, come tale,  faccio parte del Consiglio episcopale. Vivo quindi da vicino la vita di questa Chiesa. A partire dal 2017 il Vescovo mi ha chiesto di partecipare alla progettazione del XI Sinodo diocesano di cui sono poi diventato membro effettivo. In questa veste, ma a titolo del tutto personale, offro un primo sguardo incompleto e provvisorio, del Sinodo da poco tempo concluso.

Il XI Sinodo diocesano della Chiesa di Como, indetto il 31 agosto 2017 ed inaugurato dopo la fase preparatoria e la consultazione del popolo di Dio, il 12 gennaio 2020, è giunto alla sua conclusione il 4 giugno 2022.

Il tema del Sinodo era: “Testimoni e annunciatori della misericordia di Dio”, declinato in cinque ambiti: la comunità cristiana, la famiglia, i presbiteri, i giovani e i poveri. Ben presto ci si è resi conto di aver messo troppa carne al fuoco.

Per questo il 26 settembre del 2020 (3a sessione sinodale) i sinodali hanno votato una mozione presentata dalla presidenza del Sinodo che concentrava l’attenzione su un unico tema: “Misericordia e comunità cristiana”. Tuttavia, come era facile prevedere, anche gli altri quattro ambiti, in modo surrettizio, sono rientrati nell’unico tema sinodale.

Il numero dei sinodali, gli eletti dalla base, i membri di diritto e quelli nominati dal Vescovo, era 288, di essi 199 erano uomini e 89 le donne, 174 i laici, 88 i presbiteri, 4 i diaconi permanenti, 21 i consacrati e le consacrate e un seminarista. La loro età media era 53 anni; i giovani tra i 20 e i 30 erano 22. Il Sinodo si è concluso lo scorso 4 giugno 2022, vigilia di Pentecoste, in Cattedrale, dopo quasi cinque anni dall’indizione e dopo 12 sessioni sinodali plenarie, due delle quali on line a causa della pandemia.

Il Documento finale, approvato dal Sinodo nella 12° sessione (21 maggio 2022), è composto di 136 proposizioni ed è stato presentato al Vescovo Oscar nel corso della celebrazione eucaristica conclusiva, il 4 giugno 2022. Esso sarà promulgato con apposito documento dal Vescovo Oscar, appena saranno conclusi gli impegni legati alla sua nomina a cardinale, annunciata dal Papa lo scorso 29 maggio.

Ripensando al cammino percorso, si possono già fare alcune prime considerazioni.

  • Il Sinodo è stato un tempo di grazia che ha fatto crescere la coscienza ecclesiale del popolo di Dio, nell’ascolto comunitario della Parola, nel bisogno di essere insieme. La consultazione previa della comunità diocesana è stata ben partecipata e coinvolgente, anche se non è riuscita a produrre una riflessione profetica, aperta non solo al mondo di oggi ma anche al futuro. Sarà un compito per il post-sinodo proiettare le proposte del Sinodo nel futuro della pastorale diocesana.
  • È stato tuttavia un esercizio di autocoscienza, prezioso ma impegnativo per mancanza di abitudine alla ricerca comune e all’ascolto reciproco. I sinodali divisi in oltre venti circoli territoriali, hanno via via affrontato gli argomenti che l’Instrumentum laboris proponeva e, sempre illuminati dalla Parola di Dio e dalle puntuali indicazioni del Vescovo Oscar, sono riusciti a superare la fatica del ricercare punti di equilibrio fra le molte opinioni, e la stanchezza prodotta anche dalla pandemia che ha accompagnato i lavori sinodali.
  • La fatica fatta nella elaborazione del documento finale e, prima ancora, nella conduzione dei lavori dell’assemblea, delle commissioni prima e dei gruppi territoriali di riflessione, è stata ampiamente ripagata anche se non tutti gli obiettivi sono stati pienamente raggiunti. Credo che si possa dire che è cresciuta coscienza di Chiesa, il senso di corresponsabilità e di comunione superando i limiti oggettivi della struttura geografica della Chiesa di Como molto estesa e composita che si estende su tre diverse province.
Che cosa ci ha insegnato il lavoro sinodale?

La prima “scoperta” (se così la si può chiamare) è stata la grande varietà di ambienti, di approcci pastorali e di persone e quindi di pareri e opinioni che caratterizza la diocesi di Como. Di qui il bisogno di “convenire”, di ascoltarsi e di dialogare per approfondire la comunione nella corresponsabilità, comunione che non è un’uniformità che livella, ma un comune sentire e volere, in una parola, la sinodalità della Chiesa.

È quindi emerso il bisogno di ascolto delle molte voci, prima di pretendere di armonizzarle in una sinfonia pastorale. Dalla lettura dei risultati della consultazione preliminare fino alle proposte di modifica nel corso dei lavori sinodali è emerso il bisogno di cercare ancora insieme e di discernere quello che riguarda il futuro della nostra Chiesa, per non rimanere vittime della passività, della dispersione e del clericalismo.

Di fatto il lavoro sinodale ci ha avvicinato mostrando – a chi la voleva vedere – l’azione discreta e silenziosa dello Spirito che ha trasformato il Sinodo in una “conversazione spirituale” tra i sinodali e tra di loro e il primo Interlocutore, lo Spirito, emersa anche nella votazione finale del Documento.

Un altro insegnamento emerso dai lavori sinodali è il bisogno che il Sinodo avrebbe avuto di un più puntuale e continuo discernimento. Questo è forse ciò che più è mancato nel lavoro sinodale. D’altro canto, il discernimento è un compito impegnativo perché richiede tempo e pazienza e perché non è un’operazione spontanea. Malgrado l’intervento di un gesuita esperto in materia, non abbiamo saputo mettere in pratica quello che egli ci ha insegnato: la teoria era per sé chiara, ma non lo è stata altrettanto la sua applicazione pratica.

Pur sapendo che lo Spirito parla attraverso i piccoli e i semplici, abbiamo anche compreso che Egli parla e istruisce la Chiesa attraverso competenze che non sono date a tutti. Soprattutto su temi complessi non si deve correre il rischio, verificatosi puntualmente anche nel nostro Sinodo, di pronunciarsi sulla base di sensazioni o emozioni o rappresentazioni non fondate o verificate nella realtà.

La più importante scoperta fatta durante il Sinodo è che esso è stato un evento di grazia, il cui metodo (la “sinodalità”) deve rimanere come un “modulo” per la vita delle comunità cristiane. Il Sinodo quindi non si è concluso il 4 giugno u.s. in Cattedrale. “Una conclusione, cioè un nuovo inizio” è stato il tema dell’omelia del Vescovo alla fine del Sinodo. Lo stile sinodale deve rimanere come stile e metodo della Chiesa di Como da mettere in atto ai diversi livelli di comunità, locale, vicariale e diocesana. La “sinodalità” come la comunione e la missione è lo spirito e il metodo della Chiesa nell’evangelizzazione.

Elementi di criticità emersi nel corso del Sinodo

Un primo elemento di criticità è stato il numero eccessivo dei sinodali. Una assemblea di quasi trecento persone è difficile da guidare in modo che ciascuno se ne senta davvero parte attiva. Questo spiega – almeno in parte – il diradarsi della partecipazione e una certa stanchezza o disaffezione che è progressivamente emersa fino a giungere ai 183 votanti nell’ultima assemblea. Anche la molteplicità dei temi e la metodologia cambiata in corso d’opera hanno distolto certi sinodali dal perseverare nel cammino.

Un altro elemento oggettivo di criticità, difficilmente rimediabile, è la composizione geografica e culturale della diocesi di Como che si estende su tre province, Como, Sondrio e Varese con sensibilità umane e pastorali molto diverse tra loro. Pensare a scelte uguali o omogenee è fuori della realtà. Del resto, anche a prescindere dalle differenze geo-culturali, le attese erano troppo disparate: chi dal Sinodo attendeva un codice di norme per tutti, chi soltanto una legge quadro, chi nessuna delle due ipotesi, ma solo una generica spinta profetica che aprisse gli orizzonti della nostra Chiesa.

Il risultato finale – presente però dall’inizio – ha rivelato una comunità cristiana abbastanza introversa, che rischia di dimenticare che la Chiesa esiste per gli “altri” (“Andate in tutto il mondo”) e non anzitutto per il benessere dei fedeli. Anche a Como ci sono molti non cristiani, molti cristiani indifferenti oltre a molti genuini cercatori di Dio che però rimangono al margine della nostra pastorale. A parecchie riprese il Vescovo ha richiamato il Sinodo a essere profetico, concreto e missionario, attento a chi non varca le soglie delle nostre chiese, a diventare una “chiesa in uscita”, come suggerisce Papa Francesco.

Una sorpresa e un frutto insperato

Il protrarsi del tempo del Sinodo, dovuto soprattutto alla pandemia, ha sicuramente complicato il lavoro sinodale e ha contribuito a diluire l’attenzione dei sinodali. Ma questo non è stato solo un elemento di criticità che si è aggiunto.

È stato anche un provvidenziale appello a cercare di comprendere ciò che Dio voleva dire alla Chiesa di Como, l’occasione per concentrarci sull’essenziale della fede, rendendoci conto della crisi già in atto nella Chiesa già prima della pandemia. Ci ha anche costretti a individuare vie nuove per la missione. “Nella fine è l’inizio” è stato uno slogan di questo tempo.

E il Sinodo potrebbe esserne la prova anche se cambiare è sempre impegnativo e la strada conosciuta è sempre un richiamo che pericolosamente attira più che la proposta di una nuova via.

Riflettendo sulla misericordia di Dio abbiamo scoperto che non è ciò che Dio fa, ma chi è Dio e ci siamo convinti che la misericordia deve essere, come detto dal Papa, “l’architrave che sorregge la vita della Chiesa”, anche della Chiesa di Como, chiamata ad essere una Chiesa che non giudica ma accoglie, che non esclude ma include, che non conta sui suoi mezzi e strutture ma una Chiesa povera e semplice che conta solo sulla misericordia ricevuta e offerta.

Ci siamo accorti di essere lontani da questo traguardo. Il vescovo Oscar l’aveva detto nella messa crismale del 2020: “Siamo sicuri che ne uscirà una nuova immagine di Chiesa più povera, più umile, meno dotata di strutture, ma forse più accogliente, non giudicante, amica degli uomini e in cammino con loro a immagine di Gesù”.

Lo stesso concetto è stato ripreso dal Vescovo nell’omelia della celebrazione conclusiva del Sinodo: “La Chiesa è infatti chiamata a diventare un segno vivo, una presenza semplice, ma trasparente della misericordia di Dio, della sua tenerezza e del suo amore di Padre”. Riuscirà la Chiesa di Como a diventare una chiesa più popolare e solidale e soprattutto una chiesa sinodale, come la desidera papa Francesco e come essa è e deve essere?

Il Sinodo della Chiesa di Como, pur precedente nella sua indizione, si sta intrecciando con il cammino sinodale della Chiesa italiana che, pungolata da Papa Francesco, ha finalmente messo in moto un proprio cammino sinodale e nello stesso tempo, non può ignorare il sinodo che il Papa ha proposto alla Chiesa universale che prevede addirittura due anni di sinodo.

Il Sinodo comasco si inserisce quindi in questo auspicato processo di rinnovamento e di “conversione pastorale e missionaria” della Chiesa di cui sentiamo il bisogno in questo tempo di transizione verso il “cambiamento d’epoca” che stiamo faticosamente vivendo.

Settimana News

Cammino sinodale: appunti in corso d’opera

chiesa italiana

di: Brunetto Salvarani in Settimana News

A neppure un anno dall’avvio del Cammino sinodale in Italia, senza nessuna pretesa di completezza, ecco alcuni appunti sparsi, raccolti da un osservatorio quanto mai periferico, e non certo privilegiato.

«L’avvenimento ecclesiale più importante e strategico dopo il Concilio Vaticano II», lo definisce Piero Coda. Papa Francesco, che tanto ha insistito con la Chiesa italiana perché lo mettesse in agenda, lo considera decisivo per la vita e per la missione dei cristiani: «proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio».

Un impegno, quello connesso al Cammino sinodale, va detto onestamente, da far tremare i polsi, pur limitandoci al versante organizzativo: ma anche, e vorrei dire soprattutto, un’occasione preziosa, da cogliere e sfruttare appieno, che avrà bisogno da parte di tutti noi di grande pazienza, grande capacità di ascolto e grande umiltà. Imparare ad agire sinodalmente, da parte di laici, presbiteri, vescovi, non è per nulla facile. Soprattutto per la disabitudine di tutte le componenti, al riguardo.

Il Cammino sinodale, una non-notizia?
Per orientarci, tra le mani abbiamo però, dal 2013, una bussola non ancora sperimentata a fondo, il testo di Evangelii gaudium, che il papa ha scritto come mappa di una Chiesa capace di uscita. Eppure, a prima vista il Sinodo parrebbe una non-notizia: di Sinodo i media non hanno parlato, neppure tangenzialmente. Perché? Azzardo: non è che l’obiettivo non sia stato ancora chiarito a fondo? Varrebbe la pena di rifletterci…

La posta in gioco, peraltro, è davvero alta. Anche perché, almeno per ragioni anagrafiche, del prossimo cammino sinodale potrà sentirsi partecipe per l’ultima volta in un’esperienza ecclesiale di rilievo una generazione ancora in grado di fare riferimento al concilio Vaticano II con qualche cognizione di causa, avendone udito i racconti dai diretti protagonisti e respirato un po’ dell’atmosfera unica di quell’assise iniziata ormai quasi sei decenni fa. Una generazione che – forse – può essere ancora in grado di scaldarsi il cuore su temi (come le riforme ecclesiali) che alla stragrande maggioranza dei nostri giovani probabilmente appaiono a metà fra l’astruso e l’insensato: eppure, ovvio, il coinvolgimento di questi ultimi in qualche modo nel processo sinodale resta vitale.

Ma c’è di più, ovviamente, a complicare il quadro. Lo sappiamo, è stato sufficiente un minuscolo virus a inceppare la macchina, mettendo in luce inconsistenze e squilibri che erano già in atto, a tutti i livelli della nostra vita, personale, familiare e sociale.[1] E la macchina ecclesiale non ha certo fatto eccezione.

Nel primo lockdown il granellino di sabbia detto Covid 19 ha interrotto la catena di trasmissione: ferme le celebrazioni, sospesi i catechismi, rinviate a data da destinarsi le somministrazioni dei sacramenti. Colpiti al cuore dell’anno liturgico, il triduo pasquale. Abbiamo provato la resistenza, e tentato la ripresa, rischiando peraltro la resa.

Certo, appena c’è stato uno spiraglio le parrocchie hanno recuperato le prime comunioni e le cresime arretrate, ripristinando la pastorale sacramentale: poco altro. Ma è difficile vedere oggi i ragazzi e i giovani alle nostre celebrazioni.

Il virus si sta incaricando anche di questo, di fare da spazzino. Se è vero che un terzo non è più tornato a messa (a dispetto della fame di eucaristia proclamata da una certa retorica ecclesiale), significa che questa interruzione sta facendo verità: l’adesione alla fede per tradizione ha i giorni contati. Papa Francesco sostiene che «peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla».

È dunque, sebbene a caro prezzo, un tempo di grazia, la fine di un mondo e, forse, se prendiamo sul serio questo tempo segnato dal Cammino sinodale, l’inaugurazione di una stagione nuova. Non tanto di una strategia nuova, ma di un nuovo cristianesimo e di una nuova Chiesa, niente di meno. Di una Chiesa messa alla prova non sulla tenuta delle sue strutture e dei suoi programmi, ma sulla sua capacità generativa. Sulla sua capacità di assumere in termini nuovi il compito che costituisce la sua identità: evangelizzare, rendere disponibile a tutti il vangelo del Regno di Dio.

Anche qui, seppure molto timidamente, siamo stati sorpresi. La Chiesa si è spostata nelle case e noi non l’avremmo mai fatto per nostra iniziativa. Non conta in quante, conta che sia avvenuto. Conta che in alcune case si sia allestito, durante il triduo pasquale, un tavolo con la parola di Dio aperta, un lume acceso, un pane spezzato, un calice di vino, un mazzo di fori. Conta che sia avvenuta una celebrazione domestica presieduta da una ministerialità familiare, laica, spesso femminile, che i riti abbiano ripreso posto nella vita e abbiano cominciato a sentirne il sapore.

Ecco quanto non dovremmo più fare: sequestrare nuovamente le celebrazioni e tornare a chiuderle nelle nostre chiese, rendendole di nuovo esclusiva clericale, a dispetto del linguaggio della celebrazione comunitaria.

Prendersi cura di quanto è appena sbocciato, significa incoraggiare piccoli riti personali e familiari, riti di fede alla misura del tempo, dello spazio e del luogo di una famiglia normale. Da questa ritualità familiare riattivata potrà forse un giorno nascere il coraggio di fare quello che non faremo mai da soli: riaprire il dossier delle nostre intoccabili forme celebrative, perché i riti tornino a ospitare la vita e solo così liberino la loro potenza nel darle una forma nuova, redenta e salvata.

Su questo punto è significativa la testimonianza di don Ivo Seghedoni, prete di Modena e mio collega all’Istituto di scienze religiose dell’Emilia, ma anche parroco di una grande parrocchia della città.

Don Ivo, camminando pensoso nella sua chiesa vuota una delle domeniche mattina del lockdown, annotava: «Non si trattava di girare pensierosi dentro una chiesa vuota, quanto piuttosto di rendersi conto che la Chiesa era da un’altra parte. Stavamo cercando tra i morti. Ciò che era vivo non era lì: non lo poteva essere, perché lì la sua presenza era preclusa, ma c’era. Era altrove. Era dentro le case dove le famiglie vivevano la preghiera domestica.

E lo facevano attivando una serie di azioni pastorali che, in chiesa, non sarebbero state possibili. Lo facevano creando uno spazio adatto dentro l’ambiente feriale, prendendosi un tempo contrattato tra i vari membri di casa secondo un orario scelto con libertà e non imposto dal negozio parrocchiale… offrendo ai giovani una testimonianza di una fede che non è fatta di osservanze stabilite, ma piuttosto di una scelta semplice, calda e bella, spoglia di rigidità e di abitudini… Abbiamo assaporato i primi timidi segni della nascita di una Chiesa radunata nelle case e raccolta insieme dagli strumenti che ora abbiamo a disposizione, sentendo il sapore buono di un pane che non ha la ricchezza e la solennità di quello benedetto nelle nostre curatissime eucarestie domenicali, ma che ha la fragranza e la schiettezza di quello condiviso in famiglia. Diverso, ma anch’esso nutriente e sufficiente a continuare il cammino».

Don Ivo conclude offrendo un’interpretazione positiva di quell’affermazione che forse un po’ ci spaventa: la fine della civiltà parrocchiale. Questa fine non lascia il vuoto, ma è già in fioritura «l’aurora di una Chiesa che lascia lo spazio sacro», «una Chiesa che non va in chiesa. O che non fa dell’andare in chiesa il suo distintivo. Il volto e la forma di una Chiesa che vive nelle case, di una Chiesa che si apre ad una nuova missionarietà».[2]

Alcune questioni (ineludibili)
A questo punto intendo sottolineare alcune questioni che mi paiono ineludibili, sempre a mo’ di appunti, a cominciare – ma qui do solo il titolo, occorrerebbe molto tempo per riflettervi – dal ruolo della donna nella nostra Chiesa sempre assai maschilista: siamo in un ritardo tremendo, bisogna fare qualcosa, altrimenti, dopo la fuga delle quarantenni constatata da don Armando Matteo,[3] avremo semplicemente la fuga delle donne tout-court, con riflessi che temo drammatici. Mi fermo qui, e non per carità di patria.

Seconda sottolineatura. Non capita spesso che si discuta pubblicamente, com’è successo nelle ultime settimane, di questioni ecumeniche. Lo si fa, naturalmente, sull’onda della catastrofe ucraina: con prese di posizione più o meno autorevoli, articoli di giornale e interventi in rete, in genere per denunciarne la profonda crisi. Talvolta, persino la conclamata inutilità se non la dannosità, visti gli esiti attuali.

Su Repubblica qualche settimana fa è comparso un titolo definitivo (“La fine dell’ecumenismo”, a firma di Alberto Melloni, secondo cui a uscirne letteralmente in macerie sarebbe «quel desiderio di unità visibile che aveva percorso il cristianesimo da fine Ottocento»); ma non mancano tonalità ironiche o sarcastiche, ad esempio, quando ci si sofferma a tratteggiare le trasparenti contraddizioni delle posizioni sostenute dal patriarca di Mosca, Kirill, con l’ideologia etnico-religiosa del Russkii mir (mondo russo).

La cosa, a ben vedere, è singolare, se pensiamo al fatto che l’ecumenismo è considerato solitamente il parente povero delle discipline teologiche, com’è facile verificare analizzando i programmi di facoltà e istituti di scienze religiose. Ma anche all’investimento rarefatto al riguardo, da parte di Chiese locali e diocesi, salvo poche felici eccezioni.

Lo evidenzio, si badi, non per accusare chicchessia di lesa maestà nei confronti del (faticoso) dialogo fra le Chiese cristiane, ma per corroborare una tesi altra. Dovremmo semmai ripartire proprio dagli eventi di questi mesi, dal mancato incontro fra Kirill e papa Francesco a Gerusalemme, previsto per giugno e annullato per ovvi motivi, ma anche e soprattutto dalle ragioni della clamorosa frattura tra le Chiese sorelle di Mosca e Costantinopoli, la Terza Roma e il Patriarcato ecumenico, che ha causato il dramma intraecclesiale in corso, il quale aggiunge ulteriore caos alla tragedia della guerra, ha il sapore amaro dello scisma interno e le cui radici vengono da lontano: per riflettere sulla necessità – agli occhi degli addetti ai lavori, sempre più evidente – di un nuovo, più intenso e diverso slancio ecumenico.

Per intendere la portata della questione, è necessario rimarcare che si tratta di un tema cruciale per l’identità stessa della Chiesa. L’unità dei credenti in Cristo non è solo una delle fondamentali notes Ecclesiae nel primo credo cristiano stilato al concilio di Nicea nell’anno 325 («Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica»), infatti, ma anche il requisito decisivo in vista di una testimonianza credibile del vangelo nel tempo attuale che registra l’es-culturazione del cristianesimo dagli scenari culturali europei (C. Theobald).

Come possiamo essere fratelli tutti – sulla linea dell’enciclica del 2020 di papa Francesco – se non ci sentiamo e non viviamo, noi cristiani delle varie confessioni, da fratelli e sorelle, pur essendo fondati sullo stesso battesimo e sullo stesso credo, nonché fiduciosi nella stessa parola di Gesù contenuta nelle stesse Scritture?

Ecco perché l’ecumenismo dovrebbe finalmente uscire dagli scaffali degli specialisti per entrare stabilmente negli ordini del giorno dei consigli parrocchiali, dei movimenti ecclesiali, dell’attuale Cammino sinodale, di quella che si chiama(va) la pastorale ordinaria. Vasto programma, certo, ma anche indilazionabile.

Terza spigolatura, che riguarda il nostro linguaggio ecclesialese. Mi limito a un’annotazione, apparentemente marginale. Da tempo, infatti, ritengo fondamentale, in campo cattolico, abituarsi a utilizzare la parola presbitero, in relazione alla riflessione al riguardo tracciata dal concilio Vaticano II.

In particolare, la stessa Lumen gentium se ne occupa nel capitolo 3, agli articoli 28 e 29. Qui il prete, nel testo originale latino, viene di solito chiamato presbyter (da cui deriva l’italiano prete), e solo in casi eccezionali, dove il contesto lo richieda, sacerdos.

Da questo punto di vista, con ogni evidenza, il concilio intende rendere onore al dato neotestamentario, che evita intenzionalmente la designazione del ministro della Chiesa come sacerdote.

In precedenza, del resto, lo stesso documento, al capitolo 2, dopo una fondazione trinitaria dell’idea di popolo di Dio (articolo 9), nell’articolo 10 ne sviluppa la particolarità come sacerdozio regale, spiegando in proposito in modo sorprendente – si tratta della prima volta ufficiale da parte del magistero cattolico – il sacerdozio di tutti i battezzati. La formula corretta suona: il sacerdozio comune dei fedeli, derivato dall’unico sommo sacerdote, Cristo (come spiega abbondantemente, del resto, la Lettera agli Ebrei).

Il termine Archiereus (sommo sacerdote) è riferito a Gesù Cristo nella stessa Lettera, in cui si afferma che il Figlio di Dio non ha voluto prendere forma dagli angeli, ma è stato «preso fra gli uomini, e costituito per il bene degli uomini» (5,1) per essere come uno di loro e poter capire, dall’interno della condivisione radicale, anche il loro patire.

A sua volta, il qualificativo sacerdotale o regno di sacerdoti è riferito a tutto il popolo cristiano in 1Pt 2,5 e 2,9, con citazioni esplicite e implicite di testi del Primo Testamento. Nelle Lettere paoline si riconosce una diversità di carismi/doni all’interno della comunità, e tra di essi c’è anche il governare (1Cor 12,27-31).

Parimenti, nel configurarsi del linguaggio neotestamentario, si vanno delineando tre tipi di figure, di cui nessuna ha caratteristiche sacerdotali: diaconi (servi), presbiteri (anziani), episcopi (che vegliano, sorvegliano). Ecco perché in ambito cattolico, a conti fatti, si dovrebbe ricorrere alla parola prete o presbitero in quanto più precisa, circostanziata e neotestamentaria rispetto a sacerdote.

Ultima nota. È impressionante la reticenza con cui, nel mondo cattolico, si riflette sulla situazione dell’ora di religione cattolica (tecnicamente, IRC) nelle scuole italiane. Meglio, potremmo dire non si riflette, per più di un motivo: paura di perdere un privilegio acquisito da tempo, scarsa volontà di aprire un contenzioso con lo Stato, sottovalutazione del calo progressivo di quanti aderiscono all’IRC, e potremmo continuare.

Una questione che, peraltro, s’intreccia con altre delle quali, pure, ben poco (e male) si ragiona: dal dramma cronico dell’analfabetismo religioso all’amara constatazione di quanto pesi sulla fragile identità cattolica dei nostri connazionali l’assenza della conoscenza della Bibbia nei circuiti culturali, e non solo in quelli. Fino al relativo interesse con cui pensiamo al ruolo della scuola, conclusasi la stagione gloriosa dell’associazionismo cattolico di impegno pedagogico e didattico, di cui fanno fede la moria delle riviste specializzate e dell’editoria storica non meno che delle figure di riferimento. Quella scuola che, del resto, permane l’unico ambito sociale in cui sono destinati a transitare prima o poi tutti gli italiani, in veste di discenti, docenti o genitori…

Per cogliere la necessità di uno sguardo nuovo sulla religione a scuola, basterebbe partire da un dato oggettivo: la revisione del Concordato fra Santa Sede e Repubblica italiana del 1984, quella che ha sancito l’attuale situazione dell’IRC, fu pensata e firmata in un contesto storico e culturale abissalmente distante da quello odierno, in cui – per dire – erano ancora in piedi il Muro di Berlino e le Twin Towers a New York, la secolarizzazione sembrava aver trionfato sul bisogno di sacro e con essa la sensazione che più modernità equivalesse a meno religione.

Ora, al crollo simbolico e reale di quei muri si accompagna ciò che chiamiamo post-secolarizzazione, e la convinzione diffusa che con le religioni (al plurale) non si possa non fare i conti sul piano sociale e culturale, in un quadro di religiosità fluide, porose, post-moderne.

A partire proprio da quel plurale, le religioni, che rappresenta lo scenario con cui è necessario confrontarsi per quanti intendano cogliere gli attuali segni dei tempi. Materia incandescente e delicatissima, ovvio, soprattutto in stagioni, quali la nostra, ricca di identitarismi e di sordità reciproche fra nuovi clericalismi e laicismi impenitenti, molto più che di dialogo e di ospitalità.

Proprio per questo, peraltro, l’ambito scolastico sarebbe chiamato a un supplemento di responsabilità, pena il divenire lo spazio principe per strumentalizzazioni e banalizzazioni varie. Pensiamo, ad esempio, ad annose querelle che si ripresentano stancamente ogni anno, come presepe sì – presepe no e velo sì – velo no…

L’inatteso pluralismo che ci sta attraversando è infatti destinato a mettere a dura prova la tradizionale ignoranza italiana in campo religioso, invitando l’universo della scuola e della formazione permanente a un impegno più serio e approfondito.

Sarà impossibile, in ogni caso, continuare a considerare il fatto religioso come un elemento puramente individualistico o folkloristico, privo d’influssi culturali, economici e sociali.

Come ogni novità, un panorama simile potrà provocare paure e indurre a chiusure intellettuali, e lo sta facendo, ma altresì stimolare ad un autentico salto di qualità, se sarà vissuta con la necessaria laicità (poiché la laicità aperta è il presupposto di ogni sano pluralismo).

Ecco dunque, in Italia e in Europa, in negativo, i preoccupanti indizi di un risorgente antisemitismo, di un’islamofobia e di un antiziganismo montanti, di un’intolleranza crescente nei confronti dell’immigrazione dalle nazioni più povere, e così via. Ma anche segni di speranza e buone pratiche…

Di fronte a tale scenario, in costante trasformazione, il sistema ipotizzato all’epoca dal Concordato Craxi-Casaroli appare oggi giocoforza inadeguato, complice di fatto non solo dell’odierno già ricordato stato di analfabetismo religioso ma anche dell’ignoranza quasi assoluta della Bibbia, Grande codice dell’immaginario occidentale.

Cose sotto gli occhi di tutti, volendo essere intellettualmente onesti: del resto, visto che mi capita spesso di avere a che fare con docenti di IRC non di rado preparati, dotati di professionalità e disponibili al confronto con il cambiamento, ma anche consapevoli del disagio che essi stessi vivono quotidianamente, credo si tratti di una questione di sistema, non di persone né di programmi. Inevitabilmente, la loro è una materia dimezzata… ben al di là delle statistiche.

Inoltre, il prima possibile, sarebbe importante sanare quell’increscioso vuoto culturale o insulto pedagogico, come è stato definito, creato dalla pressoché totale assenza di una qualche materia alternativa, che, per esclusiva competenza statale, dovrebbe comunque essere assicurata, nel curricolo degli alunni che non si avvalgono dell’offerta confessionale.

Compete al sistema scolastico il ruolo di alfabetizzare la totalità degli alunni sulle grandi aree dell’esperienza umana, compresa l’area dell’universale esperienza simbolico-religiosa, alla cui lettura critica si dedicano, con serietà di metodi e plausibilità di risultati, non poche scienze storiche, filologiche, ermeneutiche, teologiche.

Mi pare evidente, in tale prospettiva, che l’aspetto della confessionalità dell’insegnamento religioso in Italia risulti anacronistico, a cominciare dalla stessa sua dizione, Insegnamento della religione cattolica, come se quella cattolica fosse una religione e non una confessione cristiana accanto alle altre.

Così come il meccanismo attuale di scelta dei docenti, che registra il protagonismo dei vescovi ma sovente mette a disagio chi è coinvolto (per più di un motivo, essendo una gabbia insieme dorata e precaria).

Sarebbe un segnale importante se la Conferenza episcopale accettasse di ridiscuterlo con le autorità competenti, in un dibattito franco e aperto: ne guadagnerebbero i docenti di IRC, condannati a percepirsi necessariamente di serie B rispetto agli altri a dispetto dell’avvenuta messa in ruolo di diversi fra loro, ma anche gli studenti.

Per non parlare del regime di facoltatività dell’insegnamento religioso, che fa acqua da ogni parte e non fa giustizia del legittimo diritto degli studenti italiani di ricevere dalla scuola, tutti nessuno escluso, una seria competenza sul Fattore R, elemento decisivo per capire le dinamiche storiche del mondo ma anche la condizione geopolitica odierna.

Possiamo discuterne, finalmente, chissà, a margine dell’attuale Sinodo?

Per una metanoia ecclesiale
Tornare a pensare. Va detto, con doverosa parresìa, che, nel contesto del Cammino sinodale, sembrerebbe necessario mandare segnali al fine di superare le forme storiche del pensiero ereditate dal passato, se intendiamo stare (e risultare credibili) in tempi di pluralismo religioso.

In questo “cambiamento d’epoca” (molto più che “epoca di cambiamenti”, come ama rimarcare papa Francesco[4]) abbiamo dunque bisogno di un nuovo pensiero, dotato di immaginazione e fantasia[5] e capace di andare oltre il modo ereditato di pensare: anche sul versante teologico. Un credere ospitale non è solo il futuro del dialogo interreligioso: è il suo oggi.

Una teologia che guardi esclusivamente alla propria comunità religiosa, alle proprie necessità e – sia concesso – al proprio tornaconto si è trasformata in quel giorno un relitto della storia, un ferrovecchio inservibile, e un autogoal insopportabile. Anche perché, alla scuola di Raimon Panikkar, nel frattempo abbiamo appreso quanto sia necessario riconoscere non tanto le sfide, bensì le interpellanze poste dal fenomeno della multireligiosità in atto: stiamo, cioè, abbandonando la classica arena del conflitto tra modernità e religione, in cui valevano le regole delle sfide tra contendenti, decidendo piuttosto di abitare l’agorà di tutti, in cui le interpellanze di uno dovrebbero interessare anche l’altro, e chiamare tutti alle responsabilità.[6]

In questo orizzonte, qui appena accennato, alle nostre latitudini (e nonostante la presenza e l’azione di un papa come Francesco) non sembra ancora darsi spazio per una reale teologia pubblica.

E dovremmo domandarcene il motivo; o meglio, i motivi. Che sono tanti. Fra gli altri, mancanza di coraggio. Paura. Carenza di stimoli. Fatica e disabitudine a lavorare in rete. Un vizio di forma che viene da lontano: una sostanziale, perdurante clericalizzazione da funzionari di Dio (E. Drewermann) che tuttora affligge la teologia che viene fatta, studiata e insegnata nelle Facoltà teologiche e negli Istituti di Scienze Religiose, con rare e benemerite eccezioni.

Eppure, lo spazio potrebbe esserci, e personalmente sono convinto si dia: oggi più di ieri. Stando all’analisi (convincente) del teologo francese Christian Duquoc, i teologi si troverebbero di fronte a un dilemma cruciale: essi non sono credibili se non hanno il coraggio di pensare da se stessi; ma essi non sono teologi se non grazie alla loro dipendenza dalla fede e alla loro fedeltà alla tradizione.[7]

La cultura moderna, e ancor più quella postmoderna, pone loro, dunque, una sfida inedita, che per troppo tempo è stata ignorata o ritenuta illusoria: ora è necessario onorarla, se i teologi stessi desiderano aver parte al dibattito pubblico in una democrazia di opinioni (diverse e plurali). La marginalizzazione, l’autoghettizzazione e l’esilio non sono necessariamente il destino ineluttabile della teologia.

Del resto, Veritatis gaudium, la Costituzione apostolica circa le università e le facoltà ecclesiastiche di papa Francesco, resa pubblica il 29 gennaio 2018, va in questa direzione, quando ammette che «la teologia e la cultura d’ispirazione cristiana sono state all’altezza della loro missione quando hanno saputo vivere rischiosamente e con fedeltà sulla frontiera».[8]

Su tale linea, sarebbe necessaria una teologia che pretenda appunto di essere pubblica, che intenda stare pienamente nella storia, intercettare i segni dei tempi (Mt 16,3) di roncalliana memoria, un’esortazione che attraversa come un filo rosso l’insieme dei lavori conciliari, e dialogare senza paura con essi. Tanto per «rendere ragione della speranza che è in noi» (1Pt 3,15), quanto per favorire la crescita e la maturazione di una Chiesa che, purtroppo, ha pressoché smesso di pensare collettivamente, di interrogarsi, di suggerire piste di ricerca. Di una Chiesa in cui traspare quotidianamente un enorme bisogno di operare per la crescita di un popolo di Dio più maturo, consapevole, preparato. Che oggi non c’è, né se ne intravvede la nascita, forse appena qualche timido vagito.

Sarebbe utile interrogarsi sulle ragioni di tale situazione, collegabile con l’afonia di un’opinione pubblica ecclesiale (ma questo porterebbe troppo oltre i limiti della nostra riflessione). Ci si può limitare, perciò, a sottolineare come la crisi e la scomparsa di gloriose riviste storiche, il tonfo drammatico dell’editoria religiosa (e segnatamente quella cattolica),[9] le oggettive difficoltà di tanti movimenti e associazioni, l’assenza di riflessione da parte di troppi istituti religiosi e missionari, l’arrancare di non poche facoltà teologiche, appaiono delle con-cause di uno scenario complessivamente mortificante, rispetto al quale si potrebbe utilmente riandare a un Giorgio Gaber d’annata: «E pensare che c’era il pensiero” (disco live, a suo modo profetico, del 1994).[10] E recuperare il già citato, e troppo presto dimenticato, discorso fiorentino di papa Francesco del 10 novembre 2015, quando – nel quadro del quinto Convegno della Chiesa italiana – sostenne che «davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative».

Occorre coraggio. Un coraggio che, anche in una stagione segnata da maggiore libertà teologica rispetto a qualche tempo fa, ancora non si scorge.

Tornare a immaginare. Sarà necessario, al riguardo, attrezzarsi con una teologia inquieta, consapevole di essere incompleta eppure capace di immaginazione: queste le tre parole chiave consegnate da papa Francesco alla redazione de La Civiltà Cattolica il 9 febbraio 2017, in vista di un servizio capace di «possedere lo sguardo di Cristo sul mondo, di trasmetterlo e testimoniarlo». Perché «la sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita. Ma bisogna penetrare l’ambiguità, bisogna entrarci, come ha fatto il Signore Gesù assumendo la nostra carne. Il pensiero rigido non è divino perché Gesù ha assunto la nostra carne che non è rigida se non nel momento della morte».[11]

Tornando a immaginare… come spiega magistralmente Timothy Radcliffe in Accendere l’immaginazione,[12] per il quale «il cristianesimo farà ardere il cuore delle persone, come avvenne ai discepoli di Emmaus, solo se vi vedranno non un codice morale bensì un vibrante stile di vita». Perché «la vita spirituale non è un gradevole modo di recuperare la calma al termine di una giornata sovraccarica, l’equivalente religioso di un aperitivo. È immergersi nell’inebriante atmosfera di Dio».

Tornare ad ascoltare. Papa Francesco, nell’Evangelii gaudium, rivolge ai lettori un invito diretto: «Abbiamo bisogno di esercitarci nell’arte di ascoltare, che è più di sentire. La prima cosa, nella comunicazione con l’altro, è la capacità del cuore che rende possibile la prossimità, senza la quale non esiste un vero incontro spirituale». L’ascolto «ci aiuta a individuare il gesto e la parola opportuna che ci smuove dalla tranquilla condizione di spettatori». E «solo a partire da questo ascolto rispettoso e capace di compatire si possono trovare le vie per un’autentica crescita, si può risvegliare il desiderio dell’ideale cristiano, l’ansia di rispondere pienamente all’amore di Dio e l’anelito di sviluppare il meglio di quanto Dio ha seminato nella propria vita» (n. 171).

Per il dialogo, l’esercizio dell’ascolto è davvero essenziale: ma ascoltare è far tacere le voci dentro di sé, è mettere tra parentesi ciò che si sa dell’altro… e di se stessi, creando in sé uno spazio vuoto, un desiderio e un’attesa dell’altro.

In effetti, se mi metto veramente all’ascolto del mio interlocutore, se lo prendo sul serio e cerco realmente di mettermi al suo posto e di vedere il mondo come lui lo vede, la mia prospettiva cambia e posso integrare realtà più numerose e più variegate nella mia visione delle cose, che in tal modo si affina.

Il dialogo – e il Cammino sinodale, di conseguenza – non può che prendere le mosse da una lettura em-patica e non pregiudiziale dell’altro: cosa che non capita troppo spesso. Purtroppo. Non siamo abituati ad ascoltarlo, l’altro.

Non siamo più abituati ad ascoltare in generale, per la verità, per la marea di rumori, brusii, avvertimenti sonori nei quali siamo quotidianamente immersi. Non siamo abituati ad ascoltare né Dio, né gli uomini, né la voce della terra; e nemmeno noi stessi, alla fine.

Certo, non ascoltare la voce di Dio è particolarmente grave, in un prospetto di dialogo interreligioso. Che non è mai unilaterale, né solo bilaterale (= io-tu), ma è tridimensionale. Dio, il divino, l’Assoluto è il terzo e decisivo partner del dialogo: è il Maestro interiore di ogni interlocutore, e l’approdo definitivo cui mira ogni ricerca religiosa autentica.

A dar retta alla parola biblica, ascoltare significa riconoscere che la voce dell’altro – invece – non è un rumore fra i tanti, ma la rivelazione di un io. La più profonda verità della Bibbia, probabilmente, è appunto che l’altro esiste, è di fronte a noi, e ci chiede di essere riconosciuto come persona, irripetibile nella sua storia unica e nelle sue potenzialità di amare: perché egli è perduto per noi, e noi per lui, se fra noi manca la parola, il dialogo o l’ascolto vicendevole.

Finalino
Mi torna in mente, per (non) concludere, la considerazione di un vescovo francese di vent’anni fa, Albert Rouet, autore del bestseller La chance di un cristianesimo fragile,[13] fatta a un giornalista che chiedeva cosa la Chiesa dovrebbe fare per poter essere meglio accolta nell’attuale congiuntura culturale, con cui indicava con franchezza evangelica il suo sogno: «Rispondo alla domanda con un’utopia. Vorrei una Chiesa che osa mostrare la sua fragilità. A volte la Chiesa dà l’impressione di non aver bisogno di nulla e che gli uomini non abbiano nulla da darle. Desidererei una Chiesa che si metta al livello dell’uomo senza nascondere che è fragile, che non sa tutto e che anch’essa si pone degli interrogativi».[14]

Del resto, i modelli e i codici comportamentali ai quali ci si poteva conformare con tranquillità e che potevano essere scelti come punti di riferimento fino a pochi anni fa per la costruzione di un’identità ecclesiale da conseguirsi una volta per tutte, non esistono più.

Caducità, friabilità, provvisorietà sono i nomi della fragilità anche dei soggetti collettivi (la coppia, la famiglia, le organizzazioni, i partiti politici, le istituzioni in genere, comprese le Chiese e le comunità religiose).

Interruzione, incoerenza, sorpresa sono le normali condizioni della nostra vita. Con cui l’imminente processo sinodale sarà chiamato a scontrarsi, bagnandosi di realtà.

Abitare la fragilità, come ci siamo abituati a ripetere durante la pandemia, significa soprattutto accettare la sfida insita in questo tempo di permanente transizione eletta a orizzonte vitale; capire e amare questa condizione con le potenzialità e le risorse nuove che porta con sé, accettando che sia finita un’epoca e che la nostra condizione sia pressoché irriconoscibile rispetto alle forme ereditate dal passato, persino recente. Senza alcuna certezza da vantare.

La crisi pandemica, del resto, come accennavo, non ha fatto altro che accelerare dinamiche già evidenti (dalla penuria di presbiteri alla crisi degli istituti religiosi, dalla situazione mortificante di tante parrocchie alla frustrazione di chi si occupa della trasmissione generazionale della fede), che vanno ben al di là di una pura e impietosa lettura delle cifre.

Potrebbe altresì rivelarsi un kairòs, un tempo di straordinarie e sorprendenti opportunità, se ci crederemo e ci investiremo energia e passione. Se prevarrà la realtà. «La realtà è superiore all’idea» è uno dei principi che – com’è noto – guidano il pensiero di papa Francesco. Il quale ne parla, per la prima volta, nell’Evangelii gaudium, al numero 231, mentre affronta gli obiettivi, a lui particolarmente cari, del bene comune e della pace sociale, inserendolo fra i criteri per un discernimento di scelte capaci di favorire un’ordinata vita sociale ed ecclesiale: «La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà». L’invito, perciò, è a vigilare attentamente su quelle forme di idealismo che – pur talvolta generose e mosse da buone intenzioni, ma non per questo innocue – rischiano di mortificare il reale. Che deve penetrare nel tessuto del processo sinodale!

Anche perché, come si legge nella Mishnà, trattato Pirkè Avot in un detto attribuito a rabbi Tarfòn: «La giornata è corta e il lavoro è tanto; gli operai sono pigri, il compenso è abbondante e il padrone di casa incalza. Ma non è tuo il compito di completare l’opera, né sei libero di esentartene».[15]

Se c’è un tempo per ogni cosa, questo è il tempo per non esentarsi dal tentare l’opera e dal sentirsene partecipi. Se non ora, quando?

[1] Cf. D. OLIVERO (a cura), Non è una parentesi, Effatà, Cantalupa 2020.

[2] I. SEGHEDONI, “Una Chiesa che non cerca tra i morti”, in Non è una parentesi, cit., p.139.

[3] A. MATTEO, La fuga delle quarantenni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012.

[4] Discorso di papa Francesco al quinto Convegno ecclesiale nazionale su In Gesù Cristo il nuovo umanesimo (Firenze-Santa Maria del Fiore, 10 novembre 2015).

[5] Cf., ad esempio, M. VAN TREEK, “Immaginazione e fantasia: il contributo della Bibbia e la Chiesa del futuro”, in Concilium n. 4 (2018), pp.88-99.

[6] R. PANIKKAR, L’incontro indispensabile: il dialogo delle religioni, Jaca Book, Milano 2001.

[7] C. DUQUOC, La teologia in esilio, Queriniana, Brescia 2004 (ed.or. 2002).

[8] PAPA FRANCESCO, Veritatis gaudium, n. 5 (in Il Regno – Documenti, n. 5 [2018], p. 144).

[9] Cf. P.L. CABRI – G. MONTALDI, “Teologia pubblica ed editoria”, in Concilium n.4 (2018), pp.151-157.

[10] Si veda, al riguardo, il contributo di V. MANCUSO, Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017.

[11] PAPA FRANCESCO, “Discorso alla comunità de ‘La Civiltà Cattolica’”, 9/2/2017.

[12] T. RADCLIFFE, Accendere l’immaginazione, EMI, Verona 2021.

[13] A. ROUET, La chance d’un christianisme fragile, Bayard, Paris 2001.

[14] Sono i temi del volume da me curato La fragilità di Dio. Contrappunti teologici sul terremoto, EDB, Bologna 2013.

[15] Pirkè Avot 2,18-19.

Nei prossimi mesi diversi gruppi di giovani parteciperanno, in qualche modo, a iniziative ecclesiali: è il momento opportuno di dare loro la parola in una sorta di versione estiva del Sinodo (oltre l’evanescenza del Sinodo 2018)

C’è una felice coincidenza nel calendario: da una parte le lezioni stanno per finire, restituendo a molti ragazzi un necessario tempo libero, che in diversi casi verrà presto occupato da molteplici attività estive — tra le quali, in molte parti d’Italia, anche alcune forme di volontariato di ispirazione ecclesiale. Dall’altra i risultati resi pubblici dei primi lavori sinodali, che manifestano una sana preoccupazione che diventa anche una lamentatio: nell’ordinario delle comunità cristiane i giovani sono i grandi assenti. Di per sé, il fenomeno non è certo nuovo: negli ultimi decenni se ne parla con frequenza via via maggiore. Addirittura è stato convocato un Sinodo a tema giovanile (2018) che a quanto pare non ha prodotto molto, se ancora si brancola nel buio, almeno in molte parti dell’Occidente (allarghiamo un po’ lo sguardo oltre il nostro orticello) tra fatiche enormi a capire cosa vivono i ragazzi e le ragazze di oggi, mancanza di visione degli adulti, proposte vetuste che allontanano più che avvicinare, gabbie ideologiche novecentesche che con ostinazione vengono calate, miopia nell’interpellare chi lavora quotidianamente con i giovani.

Dunque, da una parte un’emorragia quasi senza pausa, che lascia interdetti, delusi, affranti fino ad arrivare al pessimismo più nero, magari non cogliendo i semi buoni che ci sono e le figure che rimangono e ci provano, dall’altra il tempo estivo che, in qualche modo, vede una parte dei ragazzi mettersi in gioco, darsi da fare, trovare ancora qualche approdo latamente ecclesiale.

Come fare in modo che la coincidenza faccia scattare la scintilla di un nuovo cammino? Le ricette si sprecano, come le parole d‘ordine, i modelli, gli studi. Ma poi, a settembre, tutto come prima, o quasi. Riprende la routine quotidiana, che macina energie, tempo, idee… schiacciando molto spesso giovani e adulti. E i primi, lo sappiamo, troppe volte si allontanano in un movimento a fisarmonica su cui vogliamo sentirci innocenti. E su cui, alla fine, rinunciamo a educare e a farci educare.

Sarebbe bello se in quest’estate sinodale, nei mesi che arrivano, ogni comunità provasse seriamente e semplicemente a togliersi preconcetti e idee e solo osservare, solo ascoltare. Non per avere conferma di quello che già sappiamo, ma per farci letteralmente ‘convertire’ da qualcosa che i giovani possono dire agli adulti. Dovremo però dare loro spazio e tempo, fiducia e libertà. Senza la pretesa di sapere già tutto: oggi non funziona più così (ammesso che prima funzionasse). È un’estate sinodale che deve, proprio nei prossimi mesi, aprirsi ad adolescenti e giovani, che nella stragrande maggioranza non sanno nemmeno cosa sia un sinodo e cosa sta accadendo nella Chiesa in Italia. È il momento per farli davvero entrare nel cantiere. È faticoso, indubbiamente. Ma se non leggiamo nei tre mesi a venire un kairos e lo abitiamo, se non abbiamo il coraggio di mettere da parte tutto quello che è servito alle generazioni precedenti ma che oggi non funziona più, allora rimarremo a crogiolarci nelle nostre lamentele, nei nostri idealismi poco misurati e poco concreti, o nell’esaltazione acritica dei giovani, sorella un po’ più simpatica della critica feroce. È un cammino che va fatto insieme. Se almeno provassimo, in ogni gruppo, parrocchia, associazione a mettere in gioco un paio di serate per chiedere: ma tu cosa pensi e cosa sogni sulla Chiesa?

Se avessimo il coraggio di vivere una sorta di anno zero della pastorale giovanile, oltre l’evanescenza del Sinodo 2018, per provare a maturare insieme, tutti, una visione di Chiesa del futuro, dove risuoni una Parola per vite da XXI secolo…

vinonuovo.it

Affinché la Parola circoli: comunità e sinodalità

di: Marcello Neri – Settimana News

sinodalità

Due anni di pandemia hanno toccato e cambiato il vissuto delle comunità cristiane. Anche per noi della parrocchia del Cuore immacolato di Maria, alla periferia nord di Bologna, non è stato altrimenti. La realtà, si sa, talvolta è rapace – toglie affetti cari e riferimenti assodati che tengono insieme legami personali e comunità umane.

Una prova comune di questi tempi, che ci permette di comprendere lo spaesamento e l’insicurezza di molti accanto a noi. Ed è in passaggi come questi che il riferimento alle Scritture si fa ancora più prezioso.

Prezioso perché esigente e, al tempo stesso, capace di far sentire la prossimità effettiva di Dio ai vissuti umani, al desiderio di costruire una forma di comunità che non catturi per sé la Parola annunciata, ma le offra come un appoggio affinché essa possa circolare nei territori della vita odierna. Dapprima, la morte di don Tarcisio, il nostro parroco, ci ha chiesto di applicare da noi quella leadership diffusa nella comunità che era stato il suo modo di esercitare il ministero della guida all’interno di essa.

Per un anno abbiamo navigato a vista, tra elaborazione del lutto, memoria che si fa stile e abbozzo di un dopo dai contorni ancora incerti. Se abbiamo attraversato questo tempo, è perché ognuno di noi ha potuto appoggiarsi e fare conto sugli altri.

Gli Atti e il discernimento di una comunità cristiana

Poi, uno dopo l’altro: il richiamo di papa Francesco a un processo sinodale della Chiesa italiana, il Sinodo dei vescovi sulla sinodalità e l’ingresso di don Alberto, il nuovo parroco. Raccogliendo quanto emerso dalla verifica dell’anno prima, da un lato, e volendo dare spazio nella lectio divina anche a queste dimensioni più ampie dell’essere comunità cristiana, dall’altro, ci siamo orientati per una lettura continua degli Atti degli Apostoli.

Lo abbiamo fatto perché sentivamo l’esigenza di confrontarci con la Scrittura laddove essa custodisce la memoria di comunità nascenti, che devono inventarsi il loro modo di essere coniugando insieme la tradizione da cui provengono e l’inedito che esse stesse rappresentano.

Non si nasce mai dal nulla, ma sempre da una storia. Ma ogni nascita rappresenta, per quella storia, una cesura che apre verso un futuro possibile che, senza di essa, non sarebbe nemmeno sorto all’orizzonte. Non si nasce mai da soli, ma dentro un tessuto di legami che ci introducono alla vita nel mondo e ci consegnano la prima sapienza necessaria a renderlo umanamente abitabile.

Anche la Parola irrompe così nella storia umana, ed è sempre in cerca di compagni e compagne che la rilancino oltre le mura di una dimora che può essere sì confortevole, ma che proprio in questo rischia di ridurla a cimelio di una comunità settaria.

Lo Spirito, la testimonianza, le donne

C’è una forza dell’esperienza cristiana, plasmata dalla Parola che chiede di essere annunciata per poter essere custodita, che apre nella comunità nascente una breccia al suo interno rendendola costitutivamente ospitale di ciò che sta fuori di lei. Nella narrazione di Atti, questa forza di apertura ospitale è individuata nel dono dello Spirito a tutta la comunità riunita nel suo luogo proprio, familiare – soggetto di questo dono è la comunità nella sua interezza: gli apostoli e le donne che sono con loro (cf. At 2,1). La scena degli inizi, ispirata dall’investimento dello Spirito, abilita la comunità in quanto tale alla testimonianza di quel Gesù risuscitato da Dio (cf. At 2,32).

Il ruolo di Pietro, nel suo primo discorso alla folla, è quello del portavoce dell’esperienza comunitaria davanti a coloro che non ne fanno (ancora) parte. L’ascoltatore di Atti sa bene qual è la gerarchia lucana della testimonianza della risurrezione (cf. Lc 24): sono le donne per prime che riescono a cogliere nella mancanza (del corpo di Gesù) l’indice sufficiente del suo vivere altrimenti, nonostante la morte in croce – perché sono capaci di ricordare le parole di lui quando era ancora con loro (cf. Lc 24,8).

Gli apostoli immemori, invece, non sono in grado di accedere alla testimonianza nel modo delle donne: Pietro si assume il compito di verificare la loro parola, rigettata in toto dal gruppo apostolico, e ne esce al massimo con uno stupore incapace di ogni confessione (cf. Lc 24,12). Dopo i due di Emmaus: mentre la loro esperienza continua a essere oggetto di discussione, e la confessione del Risorto non è ancora comunitaria, “Gesù stette in mezzo a loro” (Lc 24,36).

È proprio la Parola condivisa che genera la presenza del Signore in una comunità che continua a essere incredula, proprio perché incapace di fare memoria delle parole che Gesù condivise con loro. Quando Pietro, dopo Pentecoste, si alza con gli undici, la comunità che ascolta Atti sa bene che si tratta dell’ultimo arrivato alla testimonianza confessante della risurrezione di Gesù. E sa altrettanto bene che l’accesso alla fede pasquale del gruppo apostolico non fa altro che confermare la credibilità (e quindi l’autorità) della parola delle donne che esso non era stato capace di ascoltare.

sinodalitàInsomma, nelle scene della genesi della prima comunità di Gerusalemme accanto all’autorità apostolica, come in controluce, si profila una seconda autorità testimoniale: appunto, quella delle donne che erano con loro (e con Gesù, fino alla testimonianza della sua risurrezione – criterio comunitario per l’appartenenza al gruppo apostolico secondo At 1,21-22).

Questa autorità testimoniale delle donne, che fa da sfondo a quella apostolica, è come evanescente, ma non di meno presente, nei primi capitoli di Atti.

E lo è a motivo della strategia narrativa che li organizza. La narrazione lucana della genesi della comunità di Gerusalemme è infatti centrata, da un lato, su quale sia la legittima autorità all’interno di Israele; e su questa base, dall’altro, sulla seconda offerta al popolo di Israele di riconoscimento del Messia promesso che è Gesù.

La latenza dell’autorità testimoniale delle donne, che non risalta nel momento stesso in cui è affermata, è dovuta in parte anche a questa preoccupazione narrativa che organizza l’inizio di Atti come genesi della prima comunità discepolare a Gerusalemme (di cui anche le donne fanno parte).

Rimane fermo però che l’evento che abilita alla testimonianza è un fatto comunitario, e solo a partire da qui iniziano pian piano a delinearsi dei ruoli all’interno della comunità stessa. Ma il ruolo è secondario rispetto a ciò che lo Spirito genera nella comunità – appunto, una circolazione della Parola che non ha bisogno di alcuna uniformità culturale per poter essere colta nella operosità del suo messaggio (cf. At 2,7-11).

Non solo il ruolo è secondario, ma in prima battuta non è neanche destinato alla comunità nascente, ma al suo esterno. Se è sì Pietro che parla alla folla dopo Pentecoste, egli lo fa però insieme agli altri apostoli e a rappresentanza di tutta la comunità. Qui non esercita alcun potere su di essa, ma la rappresenta al fine di poter rendere intelligibile alla folla il senso dell’esperienza comunitaria in cui anch’essa è stata coinvolta.

Dalla rappresentanza alla constatazione

Il ministero della rappresentanza, che si fa portavoce della destinazione testimoniale di tutta la comunità, non parla per sé ma a nome di quella stessa comunità – e non lo fa per se stessa, ma per declinare ad altri il senso di questa abilitazione comune alla testimonianza che deve essere resa al Risorto – prima a Gerusalemme, poi in Giudea e Samaria, e infine fino a tutti i confini della terra (cf. At 1,8).

La parola del Risorto detta agli apostoli va oltre di loro e coinvolge, nel dono dello Spirito, tutti coloro che entrano a far parte della comunità nascente. Né il gruppo apostolico né la comunità possono trattenere per loro lo Spirito, nel momento stesso in cui esso è sigillo dell’appartenenza testimoniale alla comunità del Risorto. Pietro dovrà imparare sulla propria pelle cosa significa un ministero di rappresentanza che non può avanzare alcuna pretesa di proprietà su una Parola che desidera circolare liberamente ovunque, anche dove Pietro non vorrebbe che essa circolasse (cf. At 10).

E così il ministero della rappresentanza comunitaria e testimoniale di un operare del Dio di Gesù nel tempo della sua mancanza si converte a essere semplice ministero della constatazione di una libertà dello Spirito che nessuna appartenenza può trattenere gelosamente per sé: “Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?” (At 10,47).

L’operosità efficace di Dio, che attraversa l’esercizio testimoniale di questo ministero della rappresentanza, può diventare per esso una fascinazione pericolosa quando messo di fronte alla potenza della sua ombra (cf. At 5,15): ed è proprio nell’eccedenza ingovernabile della Parola che Pietro è chiamato a riconoscere la differenza fra la testimonianza, che pur deve essere resa, e l’efficacia operosa dei gesti di Dio che si rende presente in essa – “anche io sono solo un uomo” (At 10,26), dovrà pur sempre confessare apertamente davanti a Cornelio.

Genesi di una comunità aperta

Come abbiamo accennato, quando Luca tratteggia i contorni della prima comunità di Gerusalemme è preoccupato di mostrare dove risiede la legittima autorità per il popolo di Israele. Ma egli sa bene che tra gli ascoltatori di questa parte iniziale di Atti oramai non vi sono più solo ebrei, ma anche pagani. Nel momento in cui cerca di chiarire le cose per i primi, quindi, non può dimenticare che anche i secondi sono in attesa di un riconoscimento della loro legittima appartenenza alla comunità del Risorto.

In un qualche modo, dunque, egli è chiamato a mettere in scena un doppio registro del discorso: disseminando indici di alterità, e alterazione, all’interno di una configurazione inziale (per la dinamica testuale interna degli Atti) della comunità nascente (oramai mista per ciò che concerne gli ascoltatori di Atti) ancora concentrata su una partita interna al popolo di Israele.

Fin dalla prima aggregazione, come esito dell’evento comunitario di Pentecoste, la nascente comunità di Gerusalemme, ancora osservante delle pratiche religiose di Israele, si caratterizza per un cosmopolitismo inusuale: i primi ascoltatori della Parola sono infatti ebrei della diaspora, che possono percepirla nella loro lingua materna. La lingua non è solo una tecnica del linguaggio, ma un mondo e un modo di abitare il mondo.

La recezione della Parola non chiede quindi alcun sradicamento da questo universo familiare, intorno al quale si plasma l’abitabilità del mondo e le sue relazioni fondamentali: l’edificazione della nascente comunità credente va di pari passo e a braccetto con essa – pur nella sua esteriorità culturale rispetto all’ambiente in cui quella Parola risuona per mezzo del gruppo apostolico e delle donne che erano con loro.

È così che un fatto riguardante “giudei osservanti” (At 2,5) diventa significativo anche per i gentili che fanno parte della comunità del Risorto. Il mantenimento della differenza non pregiudica la coesione della nuova collettività che si va lentamente edificando. Né l’unità richiede una omologazione culturale che decontestualizza i vissuti effettivi dalla storia che li ha plasmati. Così, poco più avanti, quando Luca tratteggia il profilo della prima comunità individua nei beni collettivi e nella messa in comune del proprio uno dei suoi tratti maggiori.

Figura questa ideale per la politica della città greca, e quindi orizzonte comune alla koinè di allora, che viene innestata ad arte nella configurazione della prima comunità di Gerusalemme. Uno stile pratico di vita che risulta immediatamente comprensibile anche da parte di coloro che non ne fanno parte e che possono, in tal modo, apprezzare lo stimolo pubblico che essa rappresenta per la più ampia collettività umana.

Troviamo un’altra di queste inserzioni nei due episodi di chiamata in correo davanti al sinedrio (prima Pietro e Giovanni, poi tutto il gruppo degli apostoli). Quello che colpisce anche i membri del sinedrio è la parresia (franchezza/libertà di parola) mostrata da Pietro e Giovanni (cf. At 4,13)  anche qui, il modo di essere che caratterizza la fede testimoniale nel Risorto è descritto ricorrendo a un termine comune della tradizione filosofica cinica.

Luca fonde insieme l’immagine profetica dell’esercizio apostolico della fede e un’immagine filosofica del modo di affrontare le dialettiche e le tensioni che possono sorgere nella piazza del vivere umano – dove la seconda può funzionare anche da decodificatore della prima per coloro che non erano culturalmente in grado di comprendere tutta la sua portata e il suo significato nell’orizzonte della tradizione biblica di Israele.

E poco più avanti, quando questa parresia diventa confessione testimoniale esplicita davanti al sinedrio, che marca la distanza fra le istituzioni religiose di Israele e la fedeltà messianica dei testimoni del Risorto, Pietro (e poi nella seconda scena gli apostoli tutti insieme) afferma il dovere religioso di obbedienza a Dio con parole che richiamano quelle pronunciate da Socrate davanti ai giudici ateniesi (cf. At 4,19 e At 5,29). La confessione del Risorto viene così inscritta nella tradizione dell’opposizione religiosa, in nome di Dio, al potere dei tiranni e dei despoti, rendendo intelligibile ben al di là di Israele dove si trova la giustizia desiderata da Dio.

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Il collettivo

Grazie all’agire pubblico degli apostoli aumentano sempre più coloro che, come “credenti al Signore” (At 5,14), vengono aggregati alla comunità nascente – uomini e donne. Abbiamo visto come l’indice profetico di quell’agire è orientato alla conferma dell’autorità apostolica all’interno di Israele, che si impone nella sua legittimità davanti a quella delle istituzioni tradizionali del popolo eletto. La fine del precedente regime di autorevolezza religiosa è necessaria per la possibilità di includere Israele stesso nella comunità messianica del Risorto.

Confermando così che la promessa di Dio fatta ai padri di Israele rimane tuttora valida e operante. Luca è attento a costruire agganci narrativi che consentano agli ascoltatori di cogliere come l’agire profetico di Gesù si renda ora presente nei gesti e nelle parole degli apostoli, a garanzia di un’offerta messianica dell’Alleanza che è più forte delle potenze del mondo e della religione.

E il riconoscimento dell’autorità degli apostoli da parte della nascente comunità si lega esattamente all’individuazione di questo transito della profezia messianica di Gesù, del suo farsi presente nonostante la dipartita di lui (cf. At 2,43). È proprio questo riconoscimento interno alla comunità che dà valore alla pretesa degli apostoli, nel confronto con le istituzioni religiose di Israele, di essere i legittimi rappresentanti del Dio della promessa e dell’Alleanza davanti a tutto il popolo eletto.

Se guardiamo ai due brevi sommari iniziali che descrivono la comunità del Risorto, ci accorgiamo che il peso della narrazione di Atti ricade sulla condivisione dei beni e sull’avere tutto in comune. Immagine di quel collettivo a cui aspirava l’ideale dell’amicizia come forza politica nell’edificazione della polis greca. Insomma, come abbiamo già accennato, il tratto distintivo del vissuto comune del collettivo che nasce con la Pentecoste dice immediatamente qualcosa di significativo per tutta la koinè del tempo: “per un momento, la primitiva comunità di Gerusalemme realizza gli ideali più alti dell’ellenismo e del giudaismo per ciò che concerne la vita comune” (L.T. Johnson).

La funzione apostolica all’interno della prima comunità si lega esattamente alla custodia del collettivo comunitario: “Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno” (At 4,34-35).

Insomma, tutto sembra ruotare intorno a pratiche collettive – e anche Pietro, come portavoce della comunità, non è mai solo quando prende la parola. Ed è interessante notare che se nel primo discorso davanti al sinedrio, dove compare insieme a Giovanni, è solo lui a parlare, nel secondo è tutto il collettivo apostolico che fa proprio il discorso socratico delle doverosa obbedienza a Dio come resistenza e opposizione al potere costituito.

Una conferma della centralità del collettivo, con le sue pratiche di messa in comune e condivisione, la troviamo anche nel drammatico racconto del sotterfugio architettato da Anania e Saffira – che cercano di dare una parvenza di condivisione, ma rimangono attaccati al possesso privato. Imbrogliare, quando ne va del collettivo, sancisce la morte dell’appartenenza comunitaria di chi se ne rende colpevole (cf. At 5,1-11).

Di contro, l’onestà nella partecipazione collettiva dei beni, come esemplarmente fa Barnaba (cf. At 4,36-37), diventa poi garanzia della sua parola di fronte alla comunità di Gerusalemme quando diventerà compagno di Paolo nella missione ai gentili – garanzia a favore di Paolo e di una circolazione della Parola che ha oramai varcato i confini del giudaismo dell’epoca.

La salvaguardia del collettivo non è cosa facile, e ben presto anche la comunità nascente conosce tensioni significative in merito (tra cosmopolitismo dell’appartenenza e radicamento nella tradizione ebraica) nell’episodio dell’assistenza delle vedove di lingua greca (cf. At 6,1). Questa crisi del collettivo non viene però risolta ex auctoritate dagli apostoli; al contrario, la loro autorità interna si esercita esattamente nella forma di una convocazione del collettivo stesso a cui viene conferito un potere deliberativo sulla questione (cf. At 6,2).

Ma qui ci dobbiamo confrontare con un paradosso di cui generalmente non si coglie a dovere la portata. Siamo abituati a leggere la cosiddetta istituzione dei sette come origine di un ministero diaconale nella comunità cristiana. In realtà si tratta di una lettura impropria, perché “vi è una discrepanza fra ciò che la storia sembra dire e ciò che accade effettivamente nella narrazione” (L.T. Johnson).

La storia sembra dire della necessità di risolvere un problema pratico che minaccia la coesione del collettivo, ma la narrazione dice ben altra cosa: perché né Stefano né Filippo (i due dei sette di cui si racconta qualcosa in Atti) eserciteranno un ministero di servizio e assistenza quotidiana all’interno della comunità nascente. Quello che è qui in gioco è niente di meno che la continuità dell’autorità profetica di un ministero apostolico a partire dalla comunità cristiana.

Stefano è una figura chiave nello snodo della circolazione della Parola tra Gerusalemme e la diaspora, mentre Filippo porterà la Parola in Samaria (cf. At 8,5) e la annuncerà all’etiope (cf. At 8,29). È con loro che la Parola inizia a conoscere quegli allargamenti promessi e ingiunti dalla parola del Risorto.

In questo punto di svolta, così delicato e decisivo per il futuro della Parola e della comunità su cui essa si appoggia, l’individuazione delle persone adatte a ricevere un ministero profetico è affidata al collettivo comunitario – il conferimento spetterà poi agli apostoli con l’imposizione delle mani. Ma il conferimento non fa altro che confermare coloro che la comunità, in un atto deliberativo e altrettanto profetico, porta davanti agli apostoli.

Partita come una crisi del collettivo, la narrazione arriva a delineare il quadro di una crisi del ministero profetico degli apostoli stessi: un momento in cui si decide di esso guardando al futuro e a quegli ampliamenti richiesti affinché la Parola possa circolare. Crisi che non si risolve mediante un atto apostolico, ma al contrario attraverso un atto del collettivo credente che permette al ministero profetico degli apostoli di andare oltre loro stessi.

Comunità e sinodalità

Sono innumerevoli gli spunti che una comunità cristiana come la nostra parrocchia, ma anche la Chiesa più ampiamente, può cogliere nel suo lavoro di discernimento su come andare oltre la propria storia senza scordarsi di essa, anzi rimanendole fedele proprio perché cerca di attualizzarla in contesti che la trasformano e la alterano.

Ne riprendo solo alcuni che mi sembrano essere più urgenti in questo momento in cui ogni comunità e ogni Chiesa locale sono chiamate a mettere in atto processi sinodali, dai quali potranno emergere gli assi portanti di una sinodalità quale forma fondamentale e normativa della Chiesa cattolica.

Non si può che partire dagli inizi, da quell’evento dello Spirito che apre la prima comunità dei discepoli e delle discepole del Signore verso un futuro che forse neanche lei osava immaginare. Perché questo evento dichiara che la comunità è soggetto proprio e portante di quello che deve essere l’assemblea dei credenti al Signore e dei ministeri al suo interno.

Senza riconoscimento di questo principio normativo, che si attua non solo in pratiche collettive (che rimangono fondamentali) ma anche nella loro organizzazione istituzionale, la sinodalità rimarrà solo una parola cosmetica il cui fine è quello di rendere un po’ più sopportabile un modo sostanzialmente classista (e maschilista) di concepire la Chiesa cattolica.

Pensare la comunità come soggetto proprio della circolazione di una Parola che va sempre oltre di essa, è così la sorprende con quegli ampliamenti che le impediscono di arroccarsi in una mera difesa di sé, comporta un ribaltamento del nostro modo di pensare e vivere i rapporti interni nella Chiesa – abbandonando definitivamente quella ingegneria pastorale che sacrifica il vissuto effettivo delle comunità in nome di una apparente preservazione canonica e giuridica del ministero ordinato.

Per preservarlo in questa forma, ossia per non metterne in discussione il potere che gli è stato storicamente conferito, rischiamo di ottenere de facto un ministero ordinato senza comunità reale di riferimento, snaturandone così la sua funzione che proprio a quella lo destina.

È a mio avviso più semplice coinvolgere alcuni rappresentanti del popolo di Dio nella nomina del vescovo che dare rilievo istituzionale a questo essere-soggetto primo della comunità credente. Ma senza risolvere la seconda questione anche la prima si ridurrebbe a un’operazione di cosmesi senza nessun reale impatto sulle procedure e politiche decisionali nella Chiesa cattolica.

E mi rimane il sospetto che i tanti laici che aspirano a prendere la parola in sede di nomina del vescovo pensino ancora la Chiesa come una istituzione verticistica, dove una volta conquistato l’apice ne consegue per cascata una trasformazione delle relazioni di base. Un simile modo di pensare nega a mio avviso in radice quella soggettualità propria che pertiene alla comunità cristiana in quanto tale.

Non si tratta solo di mettersi in ascolto delle comunità, come atto di grazia regale concesso da un potere ecclesiastico che ne potrebbe anche fare a meno, ma di istituire quell’autorità deliberativa che spetta alla comunità in quanto soggetto proprio del dono dello Spirito e appoggio costitutivo della circolazione della Parola. L’evidente sfiducia del potere ecclesiastico nei confronti della comunità cristiana, per cui un piccolo cerchio di eletti (siano essi chierici o meno) sa meglio di essa ciò che è evangelicamente bene per lei, si rivela essere in realtà una sfiducia dichiarata nei confronti dello Spirito (e del suo discernimento) – ricordo, a margine, che Gesù è particolarmente severo nei confronti dei peccati contro lo Spirito.

Il sentire credente della comunità, peraltro arginato dogmaticamente da ogni lato per renderlo innocuo e inoperoso rispetto al potere ecclesiastico costituito, non può rimanere il pio auspicio di un pontefice un po’ strambo, ma deve diventare un vero e proprio istituto che plasma la Chiesa nella sua configurazione istituzionale – e lo può diventare solo mediante pratiche che ne attivino la sua efficacia per la Chiesa tutta.

Un simile istituto non è un mero luogo di conferma del sentire del ministero ordinato e apostolico nella Chiesa, ma la sua fonte ispiratrice che mette davanti a quel ministero quelle che sono le esigenze evangeliche della comunità. L’episodio dell’istituzione dei sette è esemplare in merito. È la comunità a sentire la necessità dell’invenzione di un ministero di servizio quotidiano e, seguendo la strategia narrativa lucana, è alla fin fine sempre la comunità (e non i dodici) a sentire l’esigenza di garantire continuità al ministero profetico degli apostoli. E alla comunità gli apostoli si rimettono, riconoscendo che quell’esigenza è normativa anche per loro – ed è per questo che la convocazione della comunità coincide con un’autorità deliberativa che spetta a lei in un tornante decisivo per la sua configurazione futura.

sinodalità

Senza l’istituzione della soggettività propria della comunità, con le competenze che questo comporta, non è possibile mettere mano efficacemente alla questione della strutturazione gerarchica e dell’esercizio del potere nella Chiesa. I concetti hanno una storia, ed è un’illusione pensare di continuare a usarli senza che essi trascinino con sé quella storia e il modo di organizzare il vivere umano o il quadro di una comunità credente che essa ha configurato per secoli.

Qualcosa del genere accade quando il Vaticano II, soprattutto nella sua versione espressa dal Codice di diritto canonico del 1983, continua a usare il termine di costituzione gerarchica per indicare natura e strutturazione fondamentale della Chiesa cattolica.

Se da un lato il concetto di costituzione gerarchica ha il merito di essere immediatamente intellegibile, dall’altro esso è ben lontano dall’immaginario neotestamentario di un ministero di rappresentanza/presidenza della comunità cristiana. Per quanto imbastito dentro l’abbozzo di una ecclesiologia del popolo di Dio e di comunione, il concetto di costituzione gerarchica della Chiesa continua a operare al suo interno portandosi dietro tutte le incrostazioni che la storia ha lasciato su di esso: tanto da sembrare più una figura giuridica, derivata dalla dialettica con la modernità al tempo dell’assolutismo politico, che una propriamente teologica.

In fin dei conti, ci scostiamo ancora poco dalla visione di Bellarmino della societas perfecta inequalis – che, però, tendeva a garantire l’autonomia della Chiesa davanti alla pretesa egemonica del potere politico, nel momento stesso in cui si modulava specularmente su di esso, più che a pensare teologicamente la costituzione della Chiesa cattolica e l’esercizio del potere al suo interno. E se allora non scandalizzava affatto l’omologia speculare fra potere ecclesiastico e potere politico, anzi diventava addirittura il principio dell’architettura giuridica della Chiesa stessa, oggi non dovrebbe apparire operazione in radice eretica una modulazione della configurazione della Chiesa che attinge anche al modo in cui viene gestito il potere nel sistema democratico.

Per quanto possa apparire sorprendente, è oramai evidente che non basta il richiamo al Vangelo e alle Scritture per assorbire debitamente queste incrostazioni storiche a riguardo della costituzione della Chiesa cattolica. La loro normatività sembra funzionare poco (e male) in questo settore decisivo dell’ecclesiologia cattolica – e di fatto vale tuttalpiù come pia esortazione morale, che non riesce però a incidere nell’organizzazione complessiva del corpo istituzionale della Chiesa.

Credo che sia giunto il momento in cui teologia e diritto devono riprendere in mano la questione della stesura di una carta costituzionale (lex fundamentalis) della Chiesa cattolica – cassata negli anni che vanno dal Concilio al Codice di diritto canonico in nome dell’affermazione militante del Vangelo come legge fondamentale della Chiesa. Funzione, questa, che né le Scritture del Nuovo Testamento né il Vangelo possono ottemperare, perché non è nella loro natura.

Se l’ostacolo per una rifondazione evangelica della Chiesa, a cui dovrebbe approdare il Sinodo dei vescovi sulla sinodalità, è di carattere giuridico, allora è a questo livello che è necessario intervenire, sulla scorta di una teologia avveduta della questione, per rimuoverlo e creare spazi di effettiva sinodalità anche nella Chiesa cattolica.

Da questo dipende anche la possibilità di una riformulazione dell’esercizio del potere nella Chiesa, alla quale bisogna però mettere mano con urgenza almeno con degli aggiustamenti provvisori e non ancora stabilizzati. Ed è in questo ambito che molto può dare il riconoscimento dell’autorità delle donne all’interno della comunità credente.

Non solo per il fatto della differenza di genere, che avrebbe comunque il pregio di iniziare a corrodere la compattezza maschilista delle decisioni ecclesiali e delle procedure mediante le quali si arriva a esse; ma soprattutto perché rappresentano una parte di comunità cristiana messa ai margini, se non al bando, dal potere ecclesiastico – continuando a confessare la loro fede e a sentirsi parte della Chiesa nonostante questo. Quella delle donne è una (forse per molto tempo la più esemplare a cui si affianca oggi quella dei sopravvissuti e delle sopravvissute agli abusi sessuali nella Chiesa) delle molte autorità marginali che dovrebbero essere convocate al ripensamento delle pratiche e procedure di potere nella vita della Chiesa cattolica.

Senza questa convocazione, che dia spazio alle loro autorità, ogni approccio ecclesiastico volto a ridisegnare il modo di esercitare e gestire il potere nella Chiesa non ha nessuna possibilità di riuscita – e non sarebbe altro che una cortina fumogena creata ad arte per nascondere il fatto che non si vuole cambiare nulla.

In merito, credo che possiamo tutti e tutte apprendere qualcosa dalla cura faticosa che Luca mette nella strategia narrativa degli Atti per evitare ogni tentazione sostitutiva (ossia, di fare della nascente comunità cristiana il sostituto di Israele). Non si tratta infatti di sostituire un potere maschile, dichiarato oramai corroso e corrotto, con uno femminile ritenuto ipoteticamente scevro da ogni possibile deriva nel suo esercizio – come se ci fosse una sorta immunità di genere rispetto alla perversione del potere.

Si tratta piuttosto di convocare le autorità della fede emarginate ed escluse (e quindi violentate) dalla gestione ecclesiastica del potere a giudicare il suo esercizio come punto di innesto per iniziare a elaborare insieme nuove pratiche di potere nella comunità dei molti fratelli e sorelle nel Signore. Pratiche che stanno sotto il giudizio e la verifica di chi il potere lo ha subito per secoli e può quindi dire qualcosa di significativo sugli effetti e conseguenze della sua perversione.

Detta in altre parole, dobbiamo impegnarci a trovare forme di esercizio collettivo del potere ecclesiastico, che non siano modulate sulla e limitate dalla costituzione giuridico-gerarchica della Chiesa cattolica. Sulla base di queste pratiche collettive germinali potrà innestarsi il lavoro della teologia e del diritto per imbastire una non più prorogabile carta costituzionale della Chiesa cattolica, intrisa dei valori fondamentali del Vangelo, che tratteggi le coordinate fondamentali delle pratiche di potere nella Chiesa cattolica, contenendole al tempo stesso entro limiti che nessun soggetto ecclesiale può valicare.

Mettere mano a questo processo costituente, a partire dalle Chiese locali e dalle comunità cristiane sparse per il mondo, in modo di arrivare a una legge fondamentale capace di ospitare le diverse declinazioni della cattolicità della Chiesa, ossia garantendo significativi spazi di giurisdizione a ogni singola Chiesa locale, rappresenterebbe una pratica sinodale di cui abbiamo tutti urgentemente bisogno – anche fuori dalla Chiesa cattolica.

5 lezioni da non dimenticare quando parliamo di Sinodo e sinodalità

Sinodo

1. Dalla riforma del Sinodo (dei vescovi) alla sinodalità

Quando, nell’ottobre 2014, nacque il blog L’Indice del Sinodo (ora confluito come rubrica in Re-blog.it) per accompagnare il primo dei due Sinodi indetti da papa Francesco sulla famiglia, scrivevamo che «parlare di questo Sinodo» significava «ridare vigore e futuro alla stagione del Concilio». Infatti, con quell’evento non solo s’apriva la stagione del ripensamento dello strumento «Sinodo dei vescovi» a un reale confronto e a una maggiore partecipazione di tutto il corpo ecclesiale, ancorché confinata in alcuni momenti; ma anche si riprendeva un’istanza (la sinodalità, appunto) sviluppate dal Concilio e poi mai ripresa in forma compiuta o rielaborata concretamente nella vita delle Chiese locali.
Occorre essere consapevoli – scrive papa Francesco al n. 5 di Episcopalis communio, «che lo Spirito è elargito a ogni battezzato» e che si deve dare ascolto alla «voce di Cristo che parla attraverso l’intero popolo di Dio, rendendolo “infallibile in credendo” (esort. ap. Evangelii gaudium, n. 119)».

2. Su Sinodo e sinodalità si è sviluppata un’ampia letteratura (da leggere)

Dal punto di vista del magistero, i testi-base sono:

  • 1 ottobre 2018: istruzione sulla celebrazione delle assemblee sinodali e sull’attività della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi (norme applicative di Episcopalis communio).
  • 18 settembre 2018: costituzione apostolica Episcopalis communio sul Sinodo dei vescovi.
  • 17 ottobre 2015: il discorso di papa Francesco alla Commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi.
  • 29 settembre 2006: promulgazione della versione aggiornata da Benedetto XVI dell’Ordo Synodi episcoporum.
  • 1967 promulgazione dell’Ordo Synodi episcoporum.
  • 15 settembre 1965: motu proprio Apostolica sollicitudo con il quale Paolo VI istituisce il Sinodo del vescovi.

Per quanto riguarda l’approfondimento e la riflessione teologica Il Regno ha pubblicato: di Severino Dianich «Chiesa, carismi e sinodalità: attraversati dalla storia» (Regno-att. 16,2019,493); di Rafael Luciani e Serena Noceti «L’Italia verso il Sinodo. Imparare un’ecclesialità sinodale» (Regno-att. 8,2021,257); di Hervé Legrand «La sinodalità non s’improvvisa» (Regno-att. 8,2021,265).

3. La sinodalità «dal basso» è stata spinta specialmente dallo scandalo della pedofilia

Nel febbraio 2020 si è aperta in Germania la I Assemblea del Cammino sinodale, con 4 forum (donna nella Chiesa, morale sessuale, il potere, la figura del sacerdote; cf. Regno-doc. 5,2020,158) che riflettono su altrettanti aspetti chiamati in causa dallo scandalo della pedofilia, così come sono stati messi in luce dalle inchieste diocesane e nazionali.
In Australia, dopo due anni di preparazione, nell’ottobre 2020 si è aperto un concilio plenario, il secondo dopo quello del 1937, come tentativo della Chiesa locale di dare risposta all’enorme crisi di sfiducia apertasi dopo le rivelazioni delle violenze sessuali sui minori e il lungo processo aperto dalle audizioni della Royal Commission (cf. Regno-doc. 15,2021,485). Stesse motivazioni che hanno portato anche la Chiesa irlandese a indire un Sinodo nel 2021.
A latere – nel senso che sono esperienze nate dalle Chiese locali non direttamente sulla spinta degli scandali – ci sono poi l’esperienza dell’Assemblea ecclesiale dell’America Latina e dei Caraibi (Città del Messico, 21-28 novembre 2021; cf. Regno-att. 22,2021,683) e l’Assemblea dei laici in Spagna (14-16 febbraio 2020; cf. Regno-att. 6,2020,143).

4. Domanda: siamo capaci di dialogare? Ovvero, come gestiamo il disaccordo?

Già nell’ottobre del 2014 papa Francesco a inizio Sinodo invocava tre doni: quello dell’ascolto; quello della disponibilità al confronto sincero (poi precisato nell’invito a «parlare con parresia» e ad «ascoltare con umiltà»); quello dello sguardo fisso su Gesù, il solo atteggiamento che consenta di «tradurre il lavoro sinodale in indicazioni e percorsi per la pastorale della persona e della famiglia».
Poi, anche memore degli scambi non sempre fraterni che avvenivano dentro e fuori dal Sinodo, nel discorso in occasione 50° anniversario del Sinodo dei vescovi Francesco chiedeva di dare attenzione «al sensus fidei del popolo di Dio», ma anche di saperlo «distinguere dai flussi spesso mutevoli dell’opinione pubblica».
Sarebbe bene rileggere «La lezione del Vaticano II. Diversità e disaccordo nella Chiesa» di Joseph A. Komonchak (Regno-att. 4,2021,121): infatti, qui è sotteso un punto cruciale sul quale oggi si pongono le maggiori resistenze quando il papa chiede di vivere la sinodalità e quando le Chiese locali s’accingono a praticarla: il rapporto tra comunione e diversità.
In effetti lo stesso Francesco, in un appunto presentato da La Civiltà cattolica (5 settembre 2020), afferma che vi è il rischio che negli attuali sinodi il «cattivo spirito» condizioni «il discernimento, favorendo posizioni ideologiche (da una parte e dall’altra), favorendo estenuanti conflitti fra settori e, quel che è peggio, indebolendo la libertà di spirito così importante per un cammino sinodale».
Così, se da un lato sulle discussioni più spinose del Sinodo per l’Amazzonia (come l’ordinazione dei viri probati), il papa ha detto che non c’era stato «nessun discernimento», giustificando così l’aver avocato a sé la responsabilità di rimandare ogni decisione, rimane aperto il campo sul che fare quanto alle decisioni scaturite nei sinodi delle Chiese locali.
E qui torna in campo la questione della Chiesa tedesca.

5. Un fantasma s’aggira per il Sinodo. Ovvero: la sinodalità non è scontata

Ormai pare sia diventato il bersaglio preferito di chi della sinodalità proprio non vuol sentire parlare: il Cammino sinodale tedesco viene additato come esempio di totale cedimento allo spirito del mondo. Così le accuse del presidente dell’episcopato cattolico polacco e della Conferenza dei vescovi dei paesi nordici, di cui abbiamo parlato qui; ma anche – l’11 aprile – la lettera aperta (fraterna, s’intende!) di 74 prelati prevalentemente statunitensi e africani (con il curioso caso dei vescovi della Tanzania al completo) che accusano i testi prodotti dal Cammino sinodale d’essere influenzati «dall’analisi sociologica e dalle ideologie politiche contemporanee, inclusa quella del “gender” [sic]».
I documenti su cui i partecipanti hanno discusso e che poi sono stati votati – dicono in particolare i 74 presuli – «guardano alla Chiesa e alla sua missione attraverso le lenti del mondo piuttosto che attraverso le lenti delle verità rivelate nella Scrittura e nell’autorevole Tradizione della Chiesa». Interessante notare che le argomentazioni sono le medesime portate dai critici del Rapporto finale della Commissione indipendente francese (CIASE) sulla pedofilia (cf. Regno-att. 4,2022,79).
Mons. Bätzing ha dunque nuovamente risposto – il 14 aprile sul sito della Conferenza episcopale tedesca – ribadendo che la decisione d’intraprendere il Cammino sinodale è stata dettata dalla necessità d’affrontare le cause sistemiche degli abusi e del loro insabbiamento (cf. sopra, lezione n. 3), come «tentativo di rinnovare da parte nostra un annuncio credibile della buona novella». E domanda ai confratelli in che modo essi hanno pensato di rispondere a questo problema, in particolare all’abuso di potere, che da un lato è il pilastro sul quale s’innestano tutte le altre violenze e dall’altro è lungi da essere un problema ormai risolto.
«La partecipazione dei fedeli alle decisioni a tutti i livelli dell’azione ecclesiale (…) non danneggerà in nessun modo l’autorità del ministero gerarchico, ma credo anzi gli darà una nuova fondata accettazione presso il popolo di Dio».
Bätzing ha ammesso che ci sono state opinioni molto diverse su questioni come la benedizione delle coppie dello stesso sesso o l’ordinazione di donne diacono o sacerdoti; ma mentre le decisioni sinodali che riguardano la Chiesa tedesca saranno approvate ed entreranno in vigore, quelle che riguardano la Chiesa universale saranno considerate e offerte come proposte per la discussione comune.

Il disagio giovanile e gli insegnanti da coinvolgere (anche al Sinodo)

Chi lavora con bambini, adolescenti e giovani sa quanto i due anni di pandemia abbiamo provato non pochi di loro, andando spesso a fare da detonatore di situazioni di fragilità, di marginalità e di precarietà esistenziale, situazioni che sono emerse con una frequenza notevole negli ultimi mesi ­—così dicono tutte le indagini condotte sul tema.

A ciò si somma anche l’ansia generata dalla guerra in Ucraina: altre notizie hanno pesato su un generale stato di debolezza, unendosi poi alle consuete fatiche della crescita, soprattutto laddove i ragazzi sono diventati un terminale sempre più esposto all’individualismo contemporaneo, alle dinamiche disumanizzanti della rete (qui si aprirebbe un altro capitolo sugli effetti negativi che gli smartphone e i social ormai hanno sui bambini  — che non dovrebbero certo usarli — e sui ragazzi): fenomeni che frantumano i legami tra i pari e vedono troppo spesso l’eclisse di adulti in grado di accompagnare, filtrare, rasserenare, intervenire. È dunque da salutare con approvazione ogni iniziativa che vede un prendersi carico di tale disagio diffuso: penso, ad esempio, alla Cordata per una Missione possibile, che la diocesi di Milano ha promosso facendo rete con 15 realtà a vario titolo interessate e titolate per un’azione sinergica ed efficace nel campo educativo.

Rimane, tuttavia, il sentore che ogni qual volta si parli di disagio giovanile non ci sia la giusta valorizzazione della figura dell’insegnante, che è il professionista che ogni mattina ha a che fare con studenti di varie età, varie provenienze, in un contesto didattico e relazionale. Sembra, cioè, sempre fuori fuoco il dibattito sul tema giovanile, quando ad ogni piè sospinto, di fronte a un tema di attualità, si invoca l’intervento onnicomprensivo della scuola, senza però poi dare spazio e ascolto all’insegnante, che dovrebbe essere considerato accanto ad altri professionisti, e non certo dimenticato. Così è bene che nella su citata iniziativa milanese sia previsto anche un coinvolgimento della Pastorale scolastica, che è auspicabile sia sempre più centrale nell’intervento sul disagio giovanile (soprattutto quando questo sarebbe da prevenire, da lenire, da individuare, da descrivere). Ed è per questo che mi ha un poco sorpreso, nel numero di Jesus di marzo, che dava conto della Cordata ambrosiana, non trovare nelle varie brevi interviste una parola di un insegnante, insieme ad altri professionisti (forse con l’eccezione di un giovane sacerdote milanese, interpellato però in quando prete che lavora con i giovani e non come insegnante di religione).

Abbiamo già speso qualche parola sulla ‘scomparsa degli insegnanti’ nel dibattito pubblico. C’è purtroppo da dire che anche la Chiesa fatica ancora a cogliere il loro ruolo preziosissimo, andando anche al di là dell’insegnante di religione ­— su cui ancora gravano incomprensioni, come messo in luce da Sergio Ventura —. Insomma, abbiamo centinaia di migliaia di insegnanti, di vario ordine e grado (e anche di varia preparazione e passione, non c’è dubbio). Molti sono frequentatori abituali delle comunità cristiane. Sarà il caso, anche in questo cammino sinodale, di dare loro spazio, per capire un po’ meglio cosa si muove nelle vite di bambini, adolescenti, giovani, non solo nel trattare del disagio, ma anche per cercare di avere qualche sguardo sul futuro più ancorato alla realtà. Nell’ordinario, non solo nello straordinario di eventi e attività belle, ma rare.

vinonuovo.it