Quale idea di Dio trasmettono i credenti a coloro che non credono?

«Secondo me Dio dovrebbe tenersi al disopra delle meschinità. Non dovrebbe mostrare potenza, ma perdono. E non dovrebbe ispirare obbedienza, ma adorazione». Quale idea di Dio trasmettono i credenti a coloro che non credono? È una domanda che dovremmo farci perché è importante non solo essere credenti ma anche essere credibili. E credibili del fatto che adoriamo un Dio che è, sì, onnipotente, ma non di un’onnipotenza che annichilisce l’individuo, quanto che lo fortifica.

Così come dovremmo essere credibili del fatto che adoriamo un Dio che libera, non al quale dobbiamo ubbidire come un cagnolino al padrone. Benedetto XVI ha tenuto splendide catechesi sulla parola

adorazione, richiamando la radice etimologica latina di questo termine, che evoca la vicinanza alla bocca, organo umano con cui esprimiamo all’altro o all’altra il nostro amore.

Ecco, le parole citate all’inizio appartengono a Eric-Emmanuel Schmitt, tratte dal romanzo La donna allo specchio (e/o). E ci richiamano la nostra vocazione di credenti: con il nostro aderire al cristianesimo diamo l’idea che Dio sia un meschino mercante di benefici terrestri? O non piuttosto un Padre buono sempre pronto ad accoglierci nel suo abbraccio benedicente, come illustrato magnificamente dal famoso quadro di Rembrandt? Anche di Dio siamo responsabili.

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La fede è rischio, prova, confronto con il dubbio, esperienza di ricerca

La fede – lo abbiamo già visto – non è una certezza granitica, come mettere i soldi in banca in un conto corrente sigillato. Essa è rischio, prova, confronto con il dubbio, esperienza di ricerca. Anche Giobbe, l’innocente sofferente, ha avuto i suoi momenti di grande instabilità di fede, ma ha sempre mantenuto aperta e viva la relazione con il suo Creatore. Henry Bauchau, scrittore belga di lingua francese, ci dice qualcosa del genere nel suo romanzo Il compagno di scalata (e/o) mentre il protagonista vive la sofferenza della malattia della giovane nuora: «In quel momento pensavo che contasse solo l’amore di Dio, e che gli altri amori, maschili o femminili, fossero solo passeggeri, peregrini. Le cose sono andate diversamente. L’amore di Dio ha illuminato la mia vita con segnali brillanti e intermittenti. Le intermittenze di Dio, ecco la mia reale esperienza. Sono stato irradiato, talvolta illuminato, ma solo l’amore umano mi ha riscaldato».

Bauchau con questa affermazione ci insegna due cose: la prima, che la fede resta un dono gratuito e libero di Dio, una possibilità accordataci di poter guardare la vita con un terzo occhio divino; la seconda, che in queste «intermittenze» si manifesta la decisione dell’uomo di aderire a questa proposta divina.

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LA VITA NUOVA CHE DEVE VENIRE

Avvenire

La discussione di queste settimane attorno al Natale è tutta ruotata attorno alla possibilità di tenere aperti gli impianti sciistici e salvare la stagione turistica. Il tema è diventato così esplosivo da sollevare persino qualche tensione diplomatica tra i Paesi aperturisti – come Svizzera e Austria – e quelli rigoristi – Italia, Francia, Germania. I problemi economici di intere comunità montane che vivono perlopiù di questa attività non devono essere sottovalutati. Come nel caso della ristorazione, è quindi doveroso sottolineare la necessità di interventi proporzionati da parte dei governi per salvaguardare attività che sono a rischio di venire decimate. Non è giusto che il costo della pandemia sia scaricato sulle spalle dei più esposti. E tuttavia, questa vicenda suggerisce molto di più circa la natura più profonda delle nostre società. In questi mesi si è ripetutamente detto che la pandemia è un rivelatore che ci permette di capire meglio quello che siamo. E in effetti, proprio il dibattito sul Natale conferma un tale effetto. Forse prima era più difficile accorgercene. Ma in questi mesi abbiamo visto che il nostro modello di vita non ammette nessun ‘altrove’. Né spaziale – il mondo interconnesso è stato investito in pochi mesi dal virus, senza possibilità di scampo – né temporale – non c’è più un momento ‘esterno’ al circuito economico.

Passo dopo passo, l’attività commerciale ha ‘invaso’ la domenica così come la fascia serale. Il nostro tempo libero è affollato di attività a pagamento: palestre, cinema, musei, viaggi.

Così che il lavorare non riguarda più solo le 8 ore della classica giornata feriale, ma si estende alla quasi totalità delle nostre attività che si reggono solo a condizione di avere un corrispettivo economico. E lo stesso vale per il calendario annua-le, ormai riempito di ‘festività’ commerciali: le ferie estive al mare e quelle invernali sugli sci; San Valentino, Carnevale, Pasqua, i saldi di fine stagione (rigorosamente invernali ed estivi), Halloween, la festa del papà, quella della mamma, il Black Friday, le festività natalizie etc.

Non che la cosa sia di per sé un male. Lavorare nella cultura o nel turismo è meglio che stare in una fonderia o in una miniera. Ma non vanno nemmeno sottovalutati gli effetti collaterali. Sta di fatto che, mentre stiamo (lentamente) cominciando a capire che la questione della sostenibilità va presa sul serio – pena esporci alle conseguenze disastrose del riscaldamento globale – ci si continua a proporre e riproporre un modello che non lascia respiro, che corre sempre più velocemente e che non ammette pausa. Un modello 24 ore su 24, sette giorni su sette.

Nei giorni scorsi – e, meno male, non solo da queste pagine – qualche voce ha cercato di dire che, data la situazione, dobbiamo prepararci a un Natale diverso. Un po’ più povero. Con meno amici, meno familiari, meno regali. Ma forse anche con meno frenesia e con più raccoglimento, più riflessione. Più spiritualità e, forse, più ospitalità. Il che non sarebbe una cattiva idea tenuto conto che siamo alla fine di un anno tremendo che non si potrà cancellare con un’alzata di spalle. Come ha più volte detto papa Francesco, «peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi». L’antica saggezza biblica – risalente a 3.000 anni fa – insiste sull’importanza di un’interruzione del tempo che permetta di staccarsi dalle attività quotidiane per guardare il mondo da un punto di vista diverso. Un bene inestimabile per l’anima che diventa così più capace di rigenerare quella saggezza e quella creatività senza le quali si finisce nel vortice di una ripetitività sfibrante. Questo vale anche – anzi, soprattutto – per la società contemporanea.

Il Natale ci parla di un mondo che si fa nuovo a partire dalla fragilità di un Bambino. Racconto concreto che ci sollecita a reimparare ciò di cui abbiamo più bisogno: tornare a saper sperare, coltivando la ‘memoria del futuro’, risorsa indispensabile per affrontare creativamente le preoccupazioni che ci affliggono.

La pandemia ha già causato molti danni economici e sociali. E nonostante l’arrivo del vaccini, il 2021 sarà un anno difficile. Il Natale povero che ci apprestiamo a vivere può essere, allora, una occasione per rientrare un po’ di più in noi stessi, capendo che la soluzione ai tanti problemi che ci affliggono non passa da un attivismo affannoso, da una accelerazione insensata. Dal ritorno frettoloso a fare quello che facevamo prima. Se c’è una cosa che il terzo choc globale ci aiuta a vedere è che l’illusione di un mondo a crescita illimitata e del godimento individualizzato non si regge.

La nostra capacità di uscire positivamente dalla crisi della pandemia ha dunque strettamente a che fare con la nostra disponibilità ad ascoltare l’annuncio di Betlemme: il nostro destino sta in una promessa di amore che intravvediamo e che ancora si deve compiere nella sua pienezza. Ecco dunque, il dono che, per credenti e non credenti, può portarci il Natale: essere tempo di rigenerazione, rito collettivo di riapertura della speranza, tempo di meraviglia per accogliere e poi accompagnare la vita nuova che deve venire.

Mauro Magatti

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Maggio con Maria. Riflessioni e incontri in gruppo e in comunità

Trentuno semplici riflessioni su “valori” e “atteggiamenti” in Maria, con l’obiettivo di ribaltarli sul nostro vissuto cristiano. Ogni capitolo comprende riflessioni differenziate per diversi tipi di destinatari (assemblee, gruppi impegnati, adolescenti e giovani), interrogativi per concretizzare la meditazione nell’impegno, preghiere.

Bravo Manuel – Maggio con Maria. Riflessioni e incontri in gruppo e in comunità

Maggio con Maria. Riflessioni e incontri in gruppo e in comunità

Titolo

Maggio con Maria. Riflessioni e incontri in gruppo e in comunità

Autore

Bravo Manuel

Prezzo

Sconto 15%

€ 6,59

(Prezzo di copertina € 7,75 Risparmio € 1,16)

Dati

2000, 144 p.

Traduttore

Pace G.

Il dono gratuito di sé, la sola cura dell'avaro

ROMA, lunedì, 26 luglio 2010 (ZENIT.org).- Imparare a donare ciò che si è ricevuto è l’unico modo per sfuggire alla solitudine e all’ansia di possesso che caratterizzano l’avarizia.

E’ questo in breve l’insegnamento al cuore dell’articolo a firma di padre Giovanni Cucci, S.I., docente incaricato di Filosofia e Psicologia presso la Pontificia Università Gregoriana, dal titolo “L’avarizia, il tentativo illusorio di possedere la vita”, apparso sulla rivista “La Civiltà Cattolica” del 3 luglio scorso.

Nel saggio il gesuita mette a nudo gli aspetti essenzialmente spirituali di questo vizio, che porta a caricare il denaro e le cose in genere di “un valore simbolico spropositato” trasformandole così in “un sinonimo di stima, pace, sicurezza, potere”.

L’avarizia si identifica quindi con “la brama e l’avidità di possesso che indurisce il cuore e conduce alla presunzione di autosufficienza, di bastare a se stessi e di non aver bisogno di nulla”.

Da qui l’aspetto religioso dell’avarizia, sottolinea padre Cucci, “perché il denaro fornisce l’illusione di essere onnipotenti: il denaro per sua natura consente un’autosufficienza che nessun altro oggetto potrebbe fornire. Per Péguy esso è l’unica alternativa veramente atea a Dio, perché dà l’illusione di poter ottenere tutto, poiché ogni realtà può essere trasformata in denaro, che a sua volta consente di entrare in possesso di ogni cosa”.

Anche Marx, analizzando la mentalità capitalista, ne aveva sottolineato “il carattere di consacrazione di tutto il proprio essere a una realtà considerata come assoluta, superiore a ogni altra”.

“L’avarizia – spiega lo scrittore de ‘La Civiltà Cattolica’ –, poiché non riguarda un bisogno del corpo, né tende a un piacere ad esso proprio, ricerca una soddisfazione di tipo affettivo ma insieme impalpabile, legata all’immaginazione”.

In questo modo si configura “come una forma mondana di consacrazione a un idolo, qualcosa cui si è disposti a offrire tutta la propria vita, sacrificando per esso anzitutto la propria libertà e dignità”.

Infatti, il denaro ben lungi dal rassicurare, quando diventa fine a se stesso genera sempre nuove paure, ansie e insicurezze: “quella di perdere ciò che si è guadagnato, la paura che un rivale si aggiudichi quell’affare bramato, che si venga superati nella scala sociale, rendendo vana la fatica di una vita”.

Un altro sentimento tipico dell’avaro è la tristezza, legata alla delusione di non poter mai trovare pienamente quello che brama, ma di sentirsi sempre indigente. Da qui lo “strano masochismo” che caratterizza questo vizio, “in quanto ciò che si ritiene essere l’unica fonte di felicità, rende in realtà angosciati, fino a rovinarsi la vita”.

Inoltre c’è un legame stretto anche tra avarizia e solitudine: “l’avaro si trova a suo agio soltanto in compagnia delle cose, l’unica realtà di cui può fidarsi”, anzi l’avaro se ne è fatto plasmare a tal punto da assumerne “la medesima fissità impersonale”.

Ecco allora che la migliore cura per il vizio dell’avarizia diventa la pratica di usare “ciò che si è ricevuto perché altri possano vivere bene”.

“Tale predisposizione – spiega padre Cucci – fa infatti scattare qualcosa nel cuore di chi lo attua, il desiderio di spendere bene la propria vita, e rende la persona capace di sacrifici anche notevoli, perché il cuore è diventato sensibile alle sofferenze e ai bisogni altrui”.

Paradossalmente, scrive padre Cucci, forse “al fondo dell’avarizia c’è questo sforzo sovrumano di volersi guadagnare l’esistenza, meritarsi di vivere, una forma malata di stima di sé”.

Al contrario, però, “è nell’incontro con l’altro, nella relazione, che l’uomo ritrova la verità di se stesso”.

“Senza la gratuità – afferma il gesuita – nulla sarebbe possibile, e a maggior ragione non sarebbe possibile alcun guadagno, alcuna ricchezza; d’altra parte nessuno potrà mai pareggiare i conti, ma deve piuttosto spendersi per impegnare a sua volta ciò che ha ricevuto gratuitamente”.

“La vera ricchezza, che realmente ci appartiene, è quella che si riceve offrendo il meglio che si ha, divenendo partecipi della generosità sovrabbondante di Dio – conclude poi –. Soltanto donando è possibile uscire dalla solitudine infernale in cui si è rinchiuso l’avaro”.