Le suore “del secondo piano”: Il libro di Ritanna Armeni sul salvataggio degli ebrei a Roma

La copertina del libro

La scrittrice e giornalista italiana, racconta nel >>> romanzo: “Il secondo piano”(prezzo scontato 5% euro 16,05 su amazon), edito da Ponte alle Grazie, la storia di alcune religiose francescane che, con coraggio e determinazione, riuscirono a salvare donne, uomini e bambini nella Roma occupata dai tedeschi. “Una storia sorprendente, queste suore hanno messo a rischio la loro vita per salvare quella di chi professava un’altra religione”, afferma l’autrice
Andrea De Angelis – Città del Vaticano

“L’accoglienza dei perseguitati è, per noi che ci siamo consacrate, l’unica strada da percorrere”. Questa riflessione, giunta dopo una cinquantina di pagine del romanzo, ne è forse l’essenza. Raccontare le storie di quelle suore che a Roma accolsero e protessero – con coraggio e determinazione, intelligenza e creatività – persone di religione ebraica perseguitate dai tedeschi è il messaggio centrale che arriva dalla lettura de “Il secondo piano”, il libro di Ritanna Armeni pubblicato da Ponte alle Grazie nella collana Scrittori, edito nel 2023 e ambientato nella Roma occupata. Un’opera frutto del desiderio di far emergere la bontà d’animo, la capacità di rendere priorità ogni singola vita umana delle religiose che nei conventi e negli istituti romani contribuirono a rendere meno nero il biennio 1943-44.

Migliaia di ebrei salvati nei conventi
Sono passati quasi 80 anni da quei mesi orribili, in cui l’odio e il sangue riempirono la quotidianità della capitale italiana. Sullo sfondo, però, ecco emergere storie di resistenza e speranza, di amore per il prossimo, di famiglie e nuovi nuclei, come quello formatosi in un convento francescano di periferia, tra i profumi del giardino e le finestre chiuse. Quelle del secondo piano, dove vivevano nascosti gli ebrei. “Per me è stato un racconto sorprendente, mi ha dato la possibilità di entrare nell’animo di queste religiose scoprendo una storia a me sconosciuta, quella dei conventi a prevalenza femminile che in quei mesi salvarono tanti ebrei”, sottolinea Armeni, ospite del programma Doppio Click (clicca qui per ascoltare il podcast). L’autrice ricorda come la comunità ebraica romana fosse allora formata da quasi 10mila persone, di cui quasi la metà trovò rifugio proprio nei conventi. “Ho scritto questo libro – prosegue – perché nelle mie ricerche ho scoperto che si aprirono circa 250 conventi agli ebrei, di cui la gran parte femminili. Realtà dove vi sono, e ancor più allora, regole rigide”. Tutto ciò avvenne in un contesto diverso da oggi. “Gli ebrei ottant’anni fa non erano considerati dai cattolici i fratelli maggiori, ma queste suore furono capaci di mettere a rischio la loro vita per salvare quelle di uomini, donne e bambini di un’altra religione. Questo è un fatto davvero sorprendente”, evidenzia Armeni.

Una porta aperta e tante da aprire
Nel convento che ancora oggi si trova nel quartiere Trieste della capitale, i primi ebrei arrivarono bussando alla porta, come si faceva un tempo, quando i campanelli suonavano senza preavviso. A suor Lina, giovane religiosa del convento, “parvero in posa come per una foto di famiglia, di quelle – si legge nelle prime pagine del libro – che si scattano per gli anniversari importanti”. Tra loro “un uomo anziano, la lunga barba più bianca che grigia a coprirgli il volto”, e poi “una donna, anche lei non più giovane” e “un ragazzo con l’espressione di leggera spavalderia sul viso”. Accanto “una coppia più giovane, poi una ragazzina impaurita, lunghe trecce scure e un borsone”. Infine “un bambino, l’unico che non guardava verso l’alto e si stringeva all’uomo”. Saranno loro a sconvolgere, ricomponendola con nuove forme la vita delle suore del convento. Altre persone in cerca di aiuto arriveranno, così come alla porta busserà Remo, il sacrestano che simpatizzava per i tedeschi, un uomo più fragile che cattivo – come specifica l’autrice stessa nel corso dell’intervista -, che non riesce a concepire il cambiamento fascista: Busseranno gli stessi soldati, la cui infermeria si trova proprio al piano terra del convento, portando non pochi problemi alle religiose. A bussare è anche padre Giacomo, il cappellano, chiamato a rincuorare le suore dinanzi ai loro sacrosanti timori.

Sono tantissime le suore che in quei mesi così difficili hanno rischiato pur di salvare vite, proteggendo giovani e anziani, uomini e donne, talvolta interi nuclei familiari. Tra loro le suore di clausura di Santa Susanna, incoraggiate anche dai sacerdoti. Emerge così nelle pagine la storia di don Libero che, nel convincere la badessa, le disse che per non contravvenire ai suoi doveri “non avrebbe aperto la porta, sarò io a infrangere la clausura, lei deve solo togliere il catenaccio”. Così don Libero aprì quella porta e un’altra famiglia ebrea trovò rifugio. Le suore francescane, compresa la madre superiora, sono tormentate dal pensiero di peccare e si domandano quale fosse la linea indicata dalla Santa Sede. È padre Giacomo a ricordare loro come, riferendosi proprio all’episodio delle suore di clausura, al vicariato dissero a don Libero che “aveva fatto bene”. Nel romanzo si cita anche una pagina de L’Osservatore Romano del 25 ottobre 1943, circa “l’operosa carità universalmente paterna del sommo Pontefice, la quale non si arresta davanti ad alcun confine né di nazionalità, né di religione, né di stirpe”. “Né di stirpe, madre, c’è scritto né di stirpe”, ripeteva padre Giacomo mostrando la copia del quotidiano della Santa Sede a madre Ignazia. Per la superiora quell’articolo era importante, “le aveva fatto capire che anche ai vertici della Chiesa c’era consapevolezza di quanto fossero aumentate le sofferenze di tanti”.

La serenità dei numeri
In un contesto di terrore, nascondimento, incertezza anche le piccole cose possono fare la differenza. Come la marmellata, che suor Lina spalmava sul pane (spesso sulla sua razione, messa da parte dal pranzo) per la merenda del piccolo Lele. “Sono quasi morta di vergogna. Ogni giorno – scrive nel suo diario la giovane religiosa – mettevo la mia fetta di pane da parte, credevo di passare inosservata. Ma oggi alla fine del pranzo madre Ignazia mi si è avvicinata con la sua porzione, e poi suor Emilia con la sua”. Dinanzi alla follia umana, alla brutalità della guerra e della persecuzione il sollievo si può trovare anche nella razionalità dei numeri, in grado di restituire un po’ di quiete. Al piccolo Ruben, infatti, piaceva contare. “Contava tutto. Quante volte nella settimana avevano mangiato la minestra. Quanti bicchieri c’erano sulla tavola, le finestre nella stanza. La serenità dei numeri”. Il personaggio preferito dall’autrice è la superiore, madre Ignazia. “Una francescana, tedesca, molto rigorosa, attenta che le sorelle facciano fino in fondo il loro dovere. Nel suo diario – dice Armeni – racconta come non possa far altro che aprirsi alla carità”. La scrittrice ospite negli studi di Radio Vaticana – Vatican News si sofferma infine sul linguaggio scelto nello scrivere questo libro. “Ho dovuto utilizzare davanti alla violenza, al terrore, alla morte altre parole nel parlare di quel dramma, parole come carità, accoglienza, fede. Parole con le quali queste suore hanno dato una risposta alla storia, e – conclude – lo hanno fatto con i loro comportamenti”.

vatican news

Storia e memoria. La lezione che viene oggi da Auschwitz

Oltre cento studenti al "Viaggio della Memoria" organizzato dal ministero dell’Istruzione in collaborazione con le Comunità ebraiche. I ragazzi che hanno raggiunto la Polonia sono stati scelti con le loro scuole per aver realizzato i migliori progetti didattici sul tema della Shoah

Oltre cento studenti al “Viaggio della Memoria” organizzato dal ministero dell’Istruzione in collaborazione con le Comunità ebraiche. I ragazzi che hanno raggiunto la Polonia sono stati scelti con le loro scuole per aver realizzato i migliori progetti didattici sul tema della Shoah

Sono oltre cento gli studenti partiti domenica da Roma verso la Polonia per l’annuale Viaggio della Memoria organizzato dal ministero dell’Istruzione con la collaborazione dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, per commemorare le vittime della Shoah. I ragazzi hanno ascoltato le testimonianze di chi ha vissuto la tragedia dell’Olocausto, hanno visitato i luoghi dove i fatti sono avvenuti, si sono interrogati su quello che è stato, affinché non accada mai più. Una ‘due giorni’ emozionante guidata dalle sorelle Andra e Tatiana Bucci, sopravvissute ad Auschwitz e testimoni dell’Olocausto e dallo storico Marcello Pezzetti.

È una mattina gelida. Andra Bucci cammina a passi lenti lungo i binari sporcati dalle neve. L’immenso campo di Birkenau fa ancora paura. A sinistra c’è il filo spinato. A destra, le baracche costruite dai prigionieri di guerra sovietici sono ancora in piedi. C’è silenzio. Andra chiude gli occhi e torna indietro di settantacinque anni. L’arresto nella casa di Trieste. I primi giorni di prigionia nella Risiera di San Saba. La deportazione. Il viaggio interminabile verso la Polonia. «Quattro giorni senza mangiare. Il bagno era un secchio. Qualcuno alzava una coperta per regalarci una punta di privacy». Poi l’arrivo a Birkenau. Andra fermo lo sguardo su un carro bestiame immobile sulle rotaie. «Arrivammo su uno proprio così. Saltai giù dal vagone senza guardare. Un salto alto, troppo alto per una bambina di quattro anni… Ogni tanto chiudo gli occhi e sono qui. Mi restano immagini ‘spezzate’. La gente si cercava, si chiamava. Lo faceva a voce alta, quasi strillando. C’erano i cani che abbaiavano e i tedeschi con le divise di pelle…». Era il 4-4-44, il quattro aprile del 1944. Con Andra c’era la mamma e Tatiana, la sorellina due anni più grande. Laggiù nascosto dalla nebbia c’è un caseggiato di mattoncini. «Ci fecero spogliare. Ci tagliarono i capelli. Ci diedero tre vestitini. Poi ci scoprirono il braccio destro e ci tatuarono un numero. 76483… Quel giorno ci separarono dalla mamma. Quando la rividi, qualche settimana dopo, aveva già cambiato aspetto. Rapata. La faccia scavata. Mi faceva quasi paura». Andra torna alle ‘sue’ cinque cifre. Le ripete quasi meccanicamente: 76483. «Non ho mai pensato di toglierle. Di cancellarle. Di nasconderle. Quel numero fa parte di me. È mio. Ogni tanto lo tocco. È il segno che ce l’ho fatta…».

232mila bambini sono entrati ad Auschwitz Birkenau, ma solo cinquanta sono sopravvissuti. E se Andra e Tatiana ora sono qui a raccontare è perché le scambiarono per gemelline: ‘merce rara’ per gli esperimenti del dottor Mengele. Per cinquant’anni la storia delle due sorelle Bucci è rimasta solo la loro storia. Poi, nel 1994, hanno deciso di fare, fino in fondo, i conti con l’Orrore e di raccontarla allo storico Marcello Pezzetti. L’anno dopo tornarono a varcare il filo spinato di questo campo che non ha mai restituito nove persone della loro famiglia. Da allora sono tornate a Birkenau ventinove volte. Spesso con gruppi di studenti. Siamo a Cracovia. In un salone di un hotel alla periferia della città. Anche questa volta Andra è tra i giovani. Per riflettere sugli Orrori di ieri e per capire se il passato è davvero passato.

Una ragazza di Varese le si avvicina e accorcia le distanze dandole del tu: Andra dove va il mondo? «Il mondo va dalla parte sbagliata. C’è egoismo. Disprezzo. Tante volte c’è odio. Tutto gira attorno ai soldi. Tutti vogliono risultati subito. La politica spesso sbanda e i giovani…». Si ferma. Sorride malinconica. «Voi non potete deludere». Oggi Andra vive in America. Guarda i nipoti crescere. Con la fiducia che possano saper sempre coniugare parole come tolleranza e mettere da parte parole come sopraffazione. E poi guarda il mondo. Con passione e con pena. Quando si sveglia legge sull’iPad i giornali italiani. «Non è mai una bella lettura», confessa sottovoce. E poi pensa alla sua nuova vita. E alle sue responsabilità. «Io che ho vissuto quella pagina orribile, non posso sopportare, non posso stare in silenzio…».

Marcello Pezzetti è al suo fianco. Ora tocca a lui legare Ieri e Oggi. «…Non possiamo sopportare che tanti migranti muoiano in mare perché scappano dal loro Inferno».

Andra Bucci, sopravvissuta con la sorella Tatiana, e testimone dell'Olocausto con lo storico Marcello Pezzetti

Andra Bucci, sopravvissuta con la sorella Tatiana, e testimone dell’Olocausto con lo storico Marcello Pezzetti

Lo storico si ferma su quella parola. Quasi a voler traccia una riga che unisce Presente e Passato. «Hanno il diritto di venire e noi abbiamo il dovere di non impedirglielo. Non possiamo cavarcela con un ignobile scaricabarile. Quello che sta succedendo si affronta con comprensione, non con superficialità».

Proviamo a capire. E a farlo ci aiuta Carlotta Picco. Sedici anni. Un volto impertinente. Viene da Chiavari. Frequenta l’istituto Giovanni Caboto. Hanno vinto loro il premio pensato da Miur e Comunità ebraiche. L’idea era mettere sotto la lente di ingrandimento i discorsi di Liliana Segre, senatrice a vita e testimone dei campi di concentramento. Di analizzare parole come Reclusione, cenere, giusti. Parole ‘nuove’ per un ragazzo di sedici anni. Carlotta sembra però più grande. «C’è sempre la tentazione di trovare un ‘nemico’. Oggi sono loro. I migranti. Sì, sono loro i nuovi perseguitati. È così, oggi i campi di concentramento sono in Libia. E poi la politica… Perché non è riuscita a coniugare accoglienza e integrazione? Perché non è riuscita a spiegare che i migranti sono una risorsa e invece ha creato le condizioni perché venissero percepiti come un problema?».

Poco lontano Marcello Pezzetti riflette a voce alta sull’equazione ebrei-migranti. I perseguitati di ieri e quelli di oggi? Lo storico tira fuori un racconto privato per spiegare. «Ho passato anni dell’infanzia a Torino. Mamma mi portava a vedere le case con orribili cartelli sulle entrate: ‘qui non si affitta ai meridionali’. Poi mi portava alla stazione di Porta Nuova. Guardavamo questa umanità che arrivava dal Sud. Ricordo le valigie legate con la corda. Mamma mi diceva: ‘Marcello, questi nessuno li vuole, ma hanno fatto grande Torino’. Aveva ragione.Tutti i genitori dovrebbero insegnare una cosa semplice: mai rifiutare, mai respingere, mai emarginare. È questo l’antitodo ai muri di Trump, ai fili spinati di Orban, ai rigurgiti di xenofobia che scuotono il mondo…». Da Birkenau ad Auschwitz sono una manciata di chilometri. La prima immagine è un cancello e una scritta. Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi. Un messaggio beffardo, di scherno: qui tutti erano pezzi da usare, da esaurire, da gettare. Non è una visita. È più un pellegrinaggio. Gli studenti camminano silenziosi. Spesso con gli occhi bassi. Marcello Pezzetti racconta ancora orrori. «Nelle camere a gas per eliminare gli ebrei veniva usato l’acido cianitrico, quello che si usa per disinfestare i vestiti ed eliminare i pidocchi ». «Per i tedeschi gli ebrei erano cadaveri in vacanza. Gli uomini pesavano mediamente 42 chili e le donne 29». Lo storico usa un linguaggio crudo. Gli studenti si guardano in silenzio. Qualcuno entra nel blocco 11. Nella cella numero 18 tanti rosari sono appesi a tre grandi ceri. Era la cella di padre Massimiliano Kolbe, il prete santo polacco che decise di dare la sua vita per salvare quella di un compagno di prigionia. Venne rinchiuso con altri condannati senza cibo. Non chiedeva nulla. Non si lamentava. Restava appoggiato alla parete e pregava. Tanti uomini cominciarono a morire. Dopo due settimane erano vivi solamente in quattro. Tra questi padre Kolbe. Nel campo si parlava di miracolo. Era troppo per i tedeschi. Padre Massimiliano venne ucciso con una iniezione di acido fenico al braccio sinistro. E mentre moriva recitava l’Ave Maria. Era il 14 agosto del 1941.

da Avvenire

Berlino. Mattarella sull’Olocausto: non accada mai più

Mattarella sull'Olocausto: non accada mai più

I giovani siano custodi della memoria, perché non accada mai più. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella inizia la sua visita in Germania proprio dal memoriale dell’Olocausto di Berlino, un luogo simbolo in cui il Capo dello Stato ha lasciato un messaggio: «Lo scorrere del tempo affida sempre più a questi luoghi il cruciale compito di custodire la memoria della barbarie, monito permanente affinché ciò che è accaduto non debba mai più ripetersi. Confido che le coscienze delle nuove generazioni possano trarre dalla visita a questomemoriale nuova e convinta ispirazione per un futuro migliore e libero da tali mostruose atrocità».

Poi Mattarella, prima di incontrare il suo omologo tedesco, Frank-Walter Steinmeier, la cancelliera Angela Merkel e il presidente del Parlamento Federale tedesco, Wolfgang Schäuble, vede la comunità italiana in Germania in ambasciata. Qui in capo dello Stato sottolinea che «l’amicizia tra Italia e Germania è molto grande» e che «il rapporto fra Germania e Italia è rassicurato in massima misura dalla vostra presenza in Germania». Gli italiani che vivono e lavorano in Germania infatti, ha ricordato, non svolgono soltanto un’attività personale, «ma un’attività di rappresentanza del nostro Paese, di avamposto del legame di amicizia che c’è fra Germania e Italia».

L’Italia «è un partner molto importante per la Germania», «i contatti con Giuseppe Conte sono molto stretti», e «le sfide attuali si possono affrontare soltanto insieme», ha detto il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, rispondendo a una domanda sull’incontro di oggi fra Angela Merkel e Sergio Mattarella. Capo dello stato che nel frattempo ha visto il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, il quale al termine del colloquio ha sottolineato che «la coesione nelle rispettive società e a livello europeo deve tornare a essere una priorità, lo faremo presente perché sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono».

Mattarella, inoltre, rispondendo ad una domanda dei giornalisti è tornato sul senso dello stare insieme in Europa. «L’Unione Europea non è un comitato d’affari – ha sottolineato – ma una comunità di valori sulla quale si costruisce la convivenza dei popoli europei e la coesione sociale è importante nella vita comunitaria». Bisogna quindi dialogare con le persone che la pensano diversamente, ha aggiunto, «questa è la chiave dell’Unione Europea. Bisogna confrontarsi, dialogare e trovare insieme soluzioni condivise». Le parole del presidente Juncker hanno stimolato delle riflessione che è giusto fare. «Tutto questo richiama a una riflessione accurata», ha sottolineato infine il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al termine del colloquio con il presidente tedesco rispondendo a una domanda dei giornalisti sul mea culpa sull’austerità.

avvenire

Settimana di preghiera per l’unità cristiani 18–25 gennaio 2019 a Reggio Emilia

Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla – Commissione per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso

Settimana
di preghiera
per l’unità cristiani
18–25 gennaio 2019

“Cercate di essere veramente giusti” (Dt 16,18)

Giovedı̀ 17 gennaio 2019 ore 20.30 (Parr. Buon Pastore RE)
Giornata del dialogo cristiano ebraico
“Il Libro di Ester” introdotto da don Filippo Mainini
Musiche e danze ebraiche proposte da Paolo Versari

Sabato 19 gennaio ore 19.00 (chiesa del Cristo a RE)
Celebrazione dei VESPRI ortodossi
presieduta da P. Mihail Ciocirlan

Domenica 20 gennaio ore 16.30 (cripta Cattedrale a RE)
Celebrazione ecumenica del VESPRO
Partecipano:
don Giovanni Rossi, vicario Episcopale
P. Mykhaylo Khromyanchuk, della comunità greco-cattolica
P. Mihail Ciocirlan della comunità cristiana ortodossa rumena
P. Armya della comunità copta egiziana
P. Yuriy Dmytro della comunità ortodossa di san Zenone

Giro d’Italia che omaggia il campione italiano, esce un saggio in Francia sugli ebrei salvati da Gino Bartali il “Giusto”

Gino Bartali (1914-2000): durante l’occupazione nazista salvò centinaia di ebrei

Gino Bartali (1914-2000): durante l’occupazione nazista salvò centinaia di ebrei

Anticipiamo qui sopra stralci della prefazione dello scrittore francese Marek Halter – molto conosciuto anche in Italia per il suo appassionato lavoro di riscoperta e valorizzazione dell’identità ebraica – al libro appena uscito in Francia Un vélo contre la barbarie nazie. L’incroyable destin du champion Gino Bartali (Armand Colin, pagine 220, euro 17,90). Un volume scritto dal giornalista italiano Alberto Toscano che ricostruisce le gesta silenziose di Bartali per salvare gli ebrei anche a costo di essere fucilato. Un testo che – scrive Halter nella prefazione – «si legge come un’avventura» e racconta di come la bicicletta «sia riuscita a diventare il mezzo per un campione, uno sportivo adorato dagli italiani, di compiere un simile gesto di umanità».

Lo scrittore francese Marek Halter

Lo scrittore francese Marek Halter

Il Bene mi ha affascinato da sempre. Perché in un mondo in cui ciascuno è ripiegato su sé stesso, in cui l’impulso della morte prevale sull’impulso della vita, perché, quando il Male agiva a volto scoperto, all’epoca del nazismo, alcuni uomini, alcune donne, hanno rischiato la loro vita per salvarne altre? Perché? Perché loro e non gli altri? Perché noi, che ci battiamo per un po’ più di solidarietà tra gli uomini, per un po’ più di giustizia, abbiamo bisogno di riferimenti, di esempi, di piccole luci nelle tenebre. È il motivo per cui, più di vent’anni fa, sono partito alla ricerca di quei Giusti che, per permettere la sopravvivenza del mondo, il Talmud limita a trentasei e Pascal a quattromila. In Italia, dove agli inizi degli anni ’30 vivevano circa quarantasettemila ebrei, circa settemila furono deportati durante la Seconda Guerra mondiale. E gli altri? Furono risparmiati o salvati, nonostante il fascismo al potere. Da chi? In che modo? A Firenze, città di Leonardo da Vinci, Dante e Michelangelo, il grande storico dell’arte americano, specialista del rinascimento italiano, Bernard Berenson, ricercato dalla Gestapo, scrisse dalla sua Villa I Tatti dove viveva rinchiuso: «Persino un domenicano ebraista ha dovuto fuggire dal suo monastero per timore di essere arrestato e si è rifugiato qui con me». Berenson riferì inoltre che il cardinale di Firenze, Elia Dalla Costa, si dichiarò colpevole al posto di un sacerdote che il regime accusava di aver nascosto un ebreo. Fu seguendo la storia di quest’uomo sorprendente e buono, che si rifiutò di aprire le finestre del suo presbiterio il giorno della visita di Hitler a Firenze, che ho scoperto il nome del suo amico Gino Bartali. Cosa ci faceva questo campione del mondo di ciclismo, lo sportivo più amato d’Italia, nell’elenco dei sacerdoti che rischiarono la loro vita per salvarne altre? Ho cercato di contattarlo per chiederglielo. Senza riuscirci. Mi è stato detto che Gino Bartali non aveva niente da raccontare perché non aveva fatto niente di speciale. A parte pedalare e vincere corse ciclistiche. Il mio amico Alberto Toscano ha avuto miglior fortuna di me. Senz’altro è stato più perseverante. Il caso degli sportivi che si sono opposti al fascismo lo appassiona. L’atleta afroamericano Jesse Owens, ad esempio, che lanciò una sfida a Hitler, promotore della “razza superiore”, quella bianca ovviamente, vincendo le Olimpiadi di Berlino nel 1936. O ancora quelli che agirono da veri credenti e veri sportivi, come Gino Bartali, prendendo alla lettera le parole di Cristo «Bussate e vi sarà aperto». “Gino il Pio” sfruttando la sua bicicletta e la sua popolarità per far arrivare documenti falsi in diverse regioni italiane, ha di fatto aperto le porte della vita a quasi ottocento ebrei italiani.

da Avvenire

L’ebraismo dalla A alla Z

Teologo e docente nei licei Paul Petzel, giornalista e traduttore, nonché membro del comitato di redazione della rivistaStimmen der Zeit Norbert Reck, i due studiosi hanno commissionato a persone molto esperte del mondo giudaico – rabbini e studiosi della materia – lo studio di cinquanta parole chiave dell’ebraismo (a ognuna sono riservate due o tre pagine del testo). Il risultato del loro lavoro è stato discusso, rivisto, modificato, rifatto dagli stessi autori, dai redattori o da altri esperti. Il frutto finale raccolto nel volume va quindi attribuito a una molteplicità di “mani” che ne hanno arricchito enormemente il contenuto.

Lo studio di ogni voce (ad es. alleanza, circoncisione, croce, ebreo-giudeo, Gesù di Nazaret, grazia, ira di Dio, “Ma io vi dico” – Le antitesi, perdono, regole alimentari, Torah, vendetta, YHWH ecc.) viene articolato in una breve esposizione preliminare, a cui segue la discussione e l’indicazione di prospettive. Conclude l’articolo una stringata bibliografia, quasi tutta in lingua tedesca (vengono però indicate le opere tradotte in italiano). Alle pp. 137-138 sono elencati i nomi dei trentatré collaboratori, unitamente alla sede istituzionale di attività.

Il sottotitolo indica chiaramente lo scopo di questo volume. Delicato in tedesco (Da Abba a Ira di Dio. Illuminare gli errori – Comprendere il Giudaismo), è stato volutamente indurito in italiano, data l’importanza di una retta comprensione della religione ebraica e della pericolosità delle “pre-comprensioni” errate o incomplete esistenti nel mondo mediatico e culturale in genere, per non parlare degli stereotipi presenti a tutti i livelli della società, spesso digiuna della materia importante di cui si parla. Un libro utile, di veloce consultazione, sodo nei contenuti.

Paul Petzel – Norbert Reck (a cura), L’ebraismo dalla A alla Z. Parole chiave per rimuovere errori e luoghi comuni. Edizione italiana a cura di Gianluca Montaldi (Religione e religioni s.n.), EDB, Bologna 2018, pp. 144, € 15,00. 9788810604731

in Settimana News

Giornata della Memoria 2016: dalla Shoah un seme di speranza

Alberto Mieli è uno degli ultimi deportati romani nei campi di sterminio nazisti ancora in vita. È un bisnonno che ama la sua famiglia e ne è teneramente riamato. Con il trascorrere del tempo è riuscito a superare il comprensibile rifiuto di parlare degli indicibili orrori vissuti negli anni della sua giovinezza, e ha capito che raccontare il suo passato diventava una medicina per la sua anima e un dono prezioso per gli altri, in particolare per le nuove generazioni, che hanno tanto bisogno di “memoria” per costruire il futuro.

Aiutato dalla buona penna dell’affezionata nipote Ester ci conduce così con semplicità attraverso i ricordi della sua vita, dall’infanzia serena, all’esclusione dalla scuola perché ebreo, al graduale peggioramento delle condizioni di vita della sua famiglia e al deteriorarsi dei rapporti sociali in conseguenza delle leggi ‘razziste’ del fascismo.Eravamo ebrei, questa era la nostra unica colpa. La concretezza delle esperienze della vita quotidiana aiuta – forse meglio di studi dotti e documentati – a capire quale terribile ingiustizia e offesa alla dignità delle persone si stesse consumando in Italia e in Europa con l’ascesa delle ideologie razziste e totalitarie. Un crescendo che alla fine esplode nell’abominio delle deportazioni e dei campi di sterminio, dove la dignità delle persone veniva distrutta sistematicamente e brutalmente ancor prima della distruzione della loro vita fisica. Anche questo viene raccontato con le circostanze e gli episodi della vita quotidiana nei campi e con i sentimenti che li accompagnano.

Come è stato possibile tutto ciò? Ma il racconto suscita spontaneamente anche un’altra domanda. Come è stato possibile che un giovane sia riuscito a sopravvivere a una vicenda così terribile e densa di orrori disumani? Alle torture e alle sofferenze fisiche, ma anche a quelle morali e spirituali? E come è possibile che ci presenti oggi una memoria che è allo stesso tempo terribile nel suo semplice realismo, ma anche del tutto priva di sentimenti di odio e di vendetta? Anche il racconto finale della vicenda di due giovani olandesi incontrati nel campo di sterminio, che dopo la guerra identificano un criminale nazista e lo denunciano alla giustizia, ma rinunciano a vendicarsi sui suoi figli, è come un’appendice e un’integrazione al racconto personale di Mieli, che si iscrive bene in questa logica delle ricerca della ricostruzione di un mondo umano, non più dominato dall’odio.

Certamente, come dice il titolo stesso – “Eravamo ebrei…” – le leggi razziste, la persecuzione e lo sterminio degli ebrei sono un filo conduttore essenziale del racconto; ma esso abbraccia con piena umana comprensione e compassione anche i compagni di sofferenza che ebrei non sono, come i giovani ungheresi fuggitivi che vengono impiccati o il prete cattolico belga che viene immobilizzato in forma di crocifisso e ucciso con la stessa croce di legno che si era costruito per pregare… Insomma è l’umanità comune che viene calpestata, uccisa e distrutta dalla follia dell’odio. In questo senso il racconto di Mieli mi pare straordinario – posso dire “miracoloso”? – e mi pare un dono preziosissimo di sapienza e di speranza per il nostro tempo.

E certamente Alberto Mieli è un privilegiato per aver potuto percorrere tutto l’arco di una lunga vita in cui ha vissuto la prima esperienza della gioia, poi l’addensarsi delle nubi dell’odio, fino alla tragedia dell’imperversare più assurdo del male, ma poi soprattutto per aver potuto ancora vivere il ritorno alla vita e all’amore. Così la memoria dell’orrore dell’antisemitismo, dell’odio razziale, delle innumerevoli vittime della Shoah, della violazione totale della dignità delle persone, entra profondamente nel nostro cuore, come monito da non dimenticare proprio per aiutarci a continuare a costruire insieme un mondo di rispetto reciproco, di dialogo, di rispetto e di pace.

Auschwitz raccontato dalla nipote. Il libro di Alberto Mieli ed Ester Mieli, ‘Eravamo ebrei. Questa era la nostra unica colpa’ (Marsilio, pagine 126, euro 15,50) è la biografia di Alberto scritta da sua nipote Ester. Alberto, oggi novantenne, è uno dei pochi ebrei italiani deportati dai nazisti a essere ancora in vita. A 16 anni venne portato ad Auschwitz. Un libro testimonianza ricco di racconti inediti, che ha la prefazione di padre Federico Lombardi (che pubblichiamo per intero) e la postfazione del rabbino capo Riccardo Di Segni. È stato presentato ieri sera al museo Maxxi di Roma con gli interventi, oltre che del rabbino Di Segni, dell’ex ministro Mara Carfagna, di Roberto Giachetti e Riccardo Pacifici.

Avvenire