Musica / Massimo Ranieri: devo a Dio il mio successo


Fonte: famigliacristiana.it
Finalmente incontriamo per Credere Giovanni Calone, in arte Massimo Ranieri. L’occasione è di quelle belle: l’uscita del suo nuovo album, Tutti i sogni ancora in volo (Warner Music). Un album di dodici brani inediti scritti da nomi importanti della musica italiana e da giovani promesse, fortemente voluto da Massimo Ranieri dopo oltre vent’anni di musica napoletana. È l’album di un altro “nuovo inizio”, con quel titolo che richiama la strofa di una delle sue canzoni più amate, Perdere l’amore, nonché il suo ultimo libro, pubblicato da Rizzoli lo scorso anno. Perché, dice, «il sogno di continuare a vivere la vita non mi abbandona: non smetto di sognare, e ringrazio Dio per questo e per tutta la mia vita meravigliosa. Sogno di sognare sempre».

LA CADUTA “PROVVIDENZIALE”
Lo scorso 6 maggio, un grave incidente lo mette fuori gioco per un lungo periodo: durante uno dei suoi spettacoli al Teatro Diana di Napoli, l’artista cade dal palco, perdendo l’equilibrio: si rompe quattro costole, l’omero e un polso. «C’è il video della caduta, ma non voglio vederlo: mi sembrerebbe di rivivere tutto il dolore provato. So soltanto io quante notti sono stato in poltrona perché non riuscivo a dormire: non trovavo la posizione. Mi faceva male dappertutto. E la ripresa è stata lunga. È stato un momento buio: ho capito poi che era una manna dal cielo. Era stato il buon Dio a tirarmi per la giacca, per avvertirmi, come mi avesse detto: “Non ti vuoi fermare, capatosta? Mo’ ti fermo io”. E aveva ragione, dovevo fermarmi, perché ero davvero molto stanco. Mi ha ricordato un po’ mia mamma che quando andavo a Napoli diceva: “Guaglio’, devi riposarti un poco figlio mio, sei stanco”, e io le dicevo: “Appena finisco queste serate…”, ma non le davo mai ascolto. Ecco, è arrivato Lui». Riprende l’artista: «È stato per me un periodo di riflessione: quei 50 giorni fermo e la lunga riabilitazione li ho vissuti come un giusto riposo − anche se forzato e doloroso − che mi ha fatto capire tante cose: innanzitutto che anche se me ne sento 30, ho già compiuto 71 anni e il fisico, certe volte, non risponde più come prima. Bisogna farci i conti: devo tener presente che non posso pretendere troppo da me stesso come quando ero un ragazzo».

TENERE STRETTO IL BUONO

«E poi ho compreso quanto sia importante accorgersi delle cose che ti capitano, tenere strette quelle buone e lasciarsi alle spalle le zavorre, ciò che conta poco. Non dico che comincio a fare i conti, ma inizio ad acchiappare le cose a cui prima non avrei fatto caso, a dire “questa mi serve” oppure “questa non mi serve”. Sempre con il sogno di continuare a vivere e di dare la giusta importanza alla vita. Quella caduta, che poteva davvero finire peggio, è stata la pacca di Dio sulla mia spalla. Nessuno però riuscirà a togliermi le mie corsette sul Lungotevere, quelle no!», ride. Giovanni Calone “il buon Dio” lo nomina spesso e lo ringrazia, e non è un modo di dire, un intercalare, ma è un riferirsi a un amico, a Qualcuno che ha sempre sentito vicino, fin dai primi anni della sua esistenza. Nato a Napoli, nel rione Pallonetto di Santa Lucia, il 3 maggio 1951 in una famiglia tanto povera quanto unita, Giovanni è il quinto degli otto figli di Giuseppina Amabile e Umberto Calone. Abitavano tutti in un’unica stanza al quinto piano, il ballatoio era la cucina e c’era una solidarietà tra vicini che Massimo non ha più trovato e che rimpiange.

L’INCONTRO CON DE SICA
Della sua famiglia Massimo parla con amore e tanta gratitudine, ricorda la pasta e patate così odiata che la madre metteva insieme con fatica, della fame in agguato, dei primi lavori a sette anni come garzone di una vineria, poi fattorino, ragazzo di bottega, commesso, barista e intrattenitore nelle cerimonie. E, anche, dell’incontro con Vittorio De Sica che, ascoltandolo cantare in italiano, lo rimprovera: «Figlio mio, ma come, tu che sei napoletano, e con la voce che ti ritrovi… Dovresti cantare Napoli!». Il resto è storia: della musica, del teatro, del cinema e della televisione, perché da allora Massimo Ranieri non si è più fermato. «In ogni cosa c’è sempre Dio, che mi ha dato un grande dono, un talento che non va sciupato: è come aver ricevuto una chiamata, la più importante. Non sprecare i miei doni è il mio modo di ringraziarlo, è la mia risposta di responsabilità. Perché ha scelto me tra milioni di persone. Dietro a ogni successo, io sento l’intervento di Dio: e vale per tutti. Qualsiasi sia la propria vocazione».

L’ESEMPIO DEI GIOVANI

Una fede, quella di Massimo, che non lo abbandona e che gli arriva dai genitori: «La fede è tutto. Ti dà coraggio, ti fa sentire più forte. Non ti fa dimenticare gli altri. Chi ha fede crede sempre nel prossimo e cerca di aiutare il più debole, chi in quel momento ha più bisogno. Nella vita ci sono momenti belli e brutti: la fede ti aiuta ad affrontarli. Quando vivi dei momenti belli bisognerebbe accorgersene: è lì che vince la fede e ti mette le ali. Ma anche nelle difficoltà ti indica la possibilità di giornate con il sole e non con le nuvole». Così, per tornare al titolo dell’album, per Massimo Ranieri i sogni sono ancora in volo, tutti lì ad aspettarlo: «Sto lanciando il disco ma sto già pensando al prossimo progetto: è un sogno che ho da sempre. Riuscire a fare un concerto accompagnato da una grande orchestra di 120 elementi: sono 47 anni che ho questo desiderio!», e batte il pugno sul tavolo, ridendo, «Ho la testa dura!». «Mia madre ci ha messo nove mesi per mettermi al mondo, mio padre è quello che mi ha creato come cantante, ha creduto in me, mi ha permesso di diventare l’uomo che sono, ha continuato a sognare con me: ma io dico sempre grazie Patatè (Patatèrno: Padreterno in napoletano, ndr) che mi hai messo al mondo. Grazie a Dio ancora mi diverto e non mi annoio mai, magari sono stanco, ma la mia fede è questa: mi hai messo al mondo e mi stai facendo fare un viaggio meraviglioso e incredibile, e nessun sogno poteva regalarmelo».

CANTANTE, ATTORE E SHOWMAN
Cantante, attore, conduttore televisivo, showman e regista teatrale italiano. La carriera di Massimo Ranieri è lunga e ricca di successi. Nel 1964, a soli 13 anni, con lo pseudonimo di Gianni Rock incide il suo primo disco e sbarca a New York in tournée come spalla di Sergio Bruni. Nel 1969 vince al Cantagiro con Rose rosse. Nel 1988 vince il Festival di Sanremo con il brano Perdere l’amore. Ha pubblicato 31 album e 36 singoli, raggiungendo anche “picchi record” di vendite, segno dell’amore che il pubblico nutre per lui: con quattordici milioni di dischi è tra gli artisti italiani che hanno venduto di più nel mondo. Ha avuto alcuni amori importanti ma non si è mai sposato. Ha una figlia, Cristiana, che lo ha reso nonno.

CHI É
Età 71 anni
Professione Artista a tutto tondo
Famiglia Proviene da una famiglia umile e credente
Fede Sincera, ereditata dai genitori

Dio è sempre con noi, come ci ricorda la figura di Giuseppe

di SILVIA CALABRÒ – vinonuovo.it
«La vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele». Dio è sempre con noi

Un uomo giusto, ebreo, della casa di Davide viene travolto da uno dei problemi più grossi dell’epoca: la sua promessa sposa è incinta. La legge dell’epoca era alquanto impietosa di fronte a tale situazione disonorevole.
Il disonore, oltre a cadere su Giuseppe, che poteva rivendicare il ripudio e l’accusa pubblica con la condanna di Maria, ricadeva anche sulla stessa famiglia di Maria, che vedeva un patto sciolto e una figlia non più adatta al matrimonio… Sono problemi grossi da affrontare e diciamo che la nascita del figlio di Dio non è avvenuta proprio in un contesto troppo sereno. Preoccupazioni, problemi familiari e sociali, il buon nome di persone che vengono messe a rischio… cosa fare?
Tutto questo farebbe perdere il sonno anche a noi e spesso sappiamo quanto il peso di scelte e preoccupazioni invadano con prepotenza la nostra vita, senza che noi ne siamo colpevoli.
Così il povero Giuseppe, travolto da una situazione più grande di lui, si trova a dover scegliere fra due situazioni. Decide, per il bene che riponeva in Maria, di ripudiarla in segreto: questo era l’unica soluzione che permetteva il male minore… più di così non poteva fare.

Ma proprio nel pieno dei suoi pensieri, Dio interviene mostrando a Giuseppe una terza via: portare avanti il matrimonio con la sua sposa. Certo non una soluzione facile da prendere e da portare avanti, ma l’invito a ‘non temere’ nasce da un senso più grande della sua vicenda personale. I problemi si supereranno, anche con fatica, ma Maria potrà portare a termine la sua missione con l’aiuto di questo uomo che la accoglierà e si prenderà cura di lei e del bambino.

Che storia! Molto simile a tante altre che si intrecciano nella nostra storia di oggi.
Anche quest’anno si celebra il Mistero dell’Incarnazione. Qualcosa che non nasce dal nulla, ma che entra nella storia complessa degli uomini di allora e di oggi. Proprio così, Dio scende fino a noi perché così noi possiamo sentirlo tanto vicino da non temere il mondo e i problemi che ci circondano. Dio giunge con la voce di un angelo a chiederci di non temere, di accogliere anche questa realtà strana e di viverla, proprio come Giuseppe, e di fidarci che anche quest’anno che per noi giungerà di nuovo un bambino, che porta in sé la salvezza per tutti. Egli è l’Emanuele, cioè quel Dio che si fa dono per noi. Questo è il segno che Dio sta dando a tutti, sia dall’altro dei cieli che dagli inferi. Un segno. Tutta la creazione e tutti gli uomini posso accogliere questo segno profetico di una vergine che darà vita a un figlio per noi. Spesso, però, siamo così ripiegati nei nostri problemi da non ricordare un elemento fondamentale della redenzione: la volontà di Dio di essere con noi. Come il re Acca, abbiamo paura di tentare Dio con un segno; ma Egli stesso aspetta una nostra richiesta di aiuto. Giuseppe ascolta quella voce che parla dentro di sé, mentre Acaz non farà altro che rifiutare la parola data dal profeta.

La nostra vita spesso è complessa e difficile, ma non dimentichiamo che Dio e con noi e non contro di noi.

Teologia / È possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente?


di: Francesco Cosentino – Settimana News
«È possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza? Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale». Le edizioni San Paolo hanno pubblicato il saggio di teologia della rivelazione di Francesco Cosentino, teologo e docente di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana: Dio ai confini. La Rivelazione di Dio nel tempo dell’irrilevanza cristiana. Anticipiamo di seguito l’Introduzione del volume.
In un colloquio sul futuro del mondo e della Chiesa, avvenuto a Roma nel 1982, a Karl Rahner fu chiesto quali fossero secondo lui i problemi teologici più urgenti; il teologo tedesco rispose senza esitazione che, alla fin fine, erano quelli di sempre: «I problemi teologici più antichi, che sono, in fondo, anche i più attuali: Com’è possibile un’autentica esperienza di Dio? Come posso conoscere veramente che Dio si è rivelato, in Gesù Cristo, in modo assoluto e definitivo?».

L’eco di quelle domande ritorna anche oggi: ha ancora senso parlare di Dio nel nostro tempo? La questione appare tutt’altro che scontata, mentre ereditiamo la compagine storica del Novecento che, attraversata da catastrofi e da epocali cambiamenti, ha «liquidato» la domanda su Dio o, tutt’al più, l’ha relegata ai contorni della vita e di una religiosità privata. Dio è ormai ai confini della vita, ai margini della storia.

Si tratta di una sfida che chiede alla riflessione teologica di uscire dall’angolo, prendendo coscienza del fatto che «il cristianesimo è ormai in una posizione minoritaria: mentre ha la pretesa di rappresentare ancora tutti, in verità tende a farsi una setta, di cui nessuno capisce più il linguaggio e la gestualità» (Elmar Salmann).

Teologia della rivelazione
Spontaneamente si tende a pensare che un simile esercizio teologico abbia a che fare con elaborate e astratte interrogazioni intellettuali, mentre invece il parlare di Dio non è mai dissociato dal suo dirsi/darsi nell’esperienza come realtà che abbraccia la totalità dell’esistenza umana e luogo che le conferisce senso e interpretazione. Tanto più che, specialmente nel nostro contesto, si può affermare che a essere venuta meno non è una qualche dimostrazione sull’esistenza di Dio quanto piuttosto la sensibilità interiore per la relazione con ciò che ci supera: «Nella questione su Dio non è mai la prova che manca. Si tratta di gusto. Ha perduto, almeno in apparenza, il gusto di Dio: ecco la diagnosi più triste e allarmante sulla nostra epoca» (Henri De Lubac).

La teologia della rivelazione è sempre strettamente legata a quell’esperienza che denominiamo fede, in un esercizio che tenta di offrire uno sguardo differente sulla vita e sulla storia, a partire da quella eccedente sorpresa del Dio rivelatosi in Gesù Cristo: Dio si manifesta come Dio solo nel suo donarsi e affidarsi al tempo e all’uomo, nel suo dimorare presso le case degli uomini in quanto Egli stesso Dio pienamente e profondamente umano.

In tal senso, ogni riflessione teologica è una teologia fondamentale pratica, che lega esperienza di Dio ed esperienza dell’uomo, e che Rahner ha saputo incarnare con queste parole: «In fondo noi vogliamo soltanto riflettere su questa semplice domanda: «Che cos’è un cristiano e perché oggi possiamo vivere questo essere cristiani con onestà intellettuale?». Mentre viviamo un’ora «caratterizzata dall’oscuramento della luce celeste, dall’eclissi di Dio» (Martin Buber), è anzitutto la possibilità stessa del parlare di Dio all’uomo contemporaneo che va nuovamente affrontata.

La parola «Dio», infatti, mentre ci rimanda alla trascendenza ineffabile del Mistero divino, è anche la parola scolpita nel cuore dell’umano e della sua vicenda, e dunque parola che ci supera: evento che mentre indica la strada apre interrogativi, che offre la pace solo al prezzo di un ribaltamento delle umane sicurezze e che invita al superamento di sé e all’ospitalità di un’alterità sorprendente.

Nella complessa compagine postmoderna è ancora questo il compito della teologia contemporanea: «Far sì che Dio sia nuovamente udito come Dio: frantumando la coscienza storica moderna, smascherando le presunzioni della razionalità moderna, esigendo attenzione per tutti quelli che sono stati dimenticati o emarginati dal progetto moderno» (David Tracy). Si tratta anzitutto di superare gli angusti confini di una metafisica che incasella Dio nelle categorie dogmatiste dell’essere, per approdare verso la specificità del Dio cristiano che, in quanto amore e relazione, si configura come un «eccesso trasgressivo», un dono che supera e sorprende.

Questo è ciò che rende Dio «più che necessario» e lo riscatta dall’emarginazione cui è stato da tempo condannato: non si tratta di un monolite arroccato nell’alto dei cieli e nello splendore della sua divinità, ma di un Dio-Amore che discende in mezzo a noi e della nostra sorte si prende cura. Evento cristiano per eccellenza, quello della Rivelazione di Dio in Cristo Gesù e nello Spirito Santo è l’accadimento che manifesta non soltanto «ciò che Dio fa» ma anche e soprattutto «ciò che Dio è»: Agape, Dio per noi.

Guardare al presente, affacciarsi al futuro
La centralità della Rivelazione, per la teologia, è un dato incontrovertibile: credere significa essere attratti e poi trasportati nella verità e bellezza della Rivelazione, per poter contemplare il mistero stesso del Dio Uno e Trino. E la Rivelazione, in tal senso, rappresenta la sintesi di tutto il sapere teologico e dell’atto di fede: la Parola di Dio si compie e si realizza nella Rivelazione di Dio in Gesù Cristo, cosicché essa diviene onnicomprensiva dell’evento della fede e della teologia.

Certo, «riproporre la questione di Dio e del suo significato per l’oggi può sembrare un’operazione quasi museale, attardata sullo sfondo di un passato religioso» (Carmelo Dotolo) che ormai non c’è più. Tuttavia, se ritornare alla teologia della rivelazione potrebbe suggerire l’idea di una sorta di viaggio all’indietro al solo scopo di rivisitare le pagine di una riflessione del passato, in realtà, riconsiderare i contenuti e i linguaggi che hanno approfondito il cuore del Mistero cristiano si presenta ai nostri occhi come un compito tanto proficuo quanto urgente; non si tratta di contemplare una ricchezza «che fu» quanto, piuttosto, di affacciarsi sull’orizzonte presente e futuro del cristianesimo interrogandosi se la domanda su Dio sia ancora determinante e decisiva tanto da potersi collocare tra le grandi domande dell’esistenza e, al contempo, affrontando alcune altre domande: è possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza?

Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale.

Si tratta di un contesto sociale e culturale da più parti definito postcristiano e, al contempo, post-ateo, in cui la crisi della fede e la discussione sul futuro possibile del cristianesimo rappresentano un pungolo per la riflessione teologica e non possono non esserlo anche per la vita della comunità credente. Tale questione è stata posta da Paul Tillich già qualche decennio fa e va oggi affrontata nuovamente in tutta la sua radicalità: «Ciò che mi preoccupa più profondamente in questi ultimi anni è la questione: il messaggio cristiano (specialmente la predicazione cristiana) è ancora rilevante per le persone del nostro tempo? E se non lo è, qual è la causa? E ciò si riflette sul messaggio del cristianesimo stesso?».

Occorre tuttavia situare l’interrogativo in un orizzonte teologico il più possibile chiaro: in riferimento al Dio di Gesù Cristo, che cioè si rivela in Gesù Cristo e in Lui ci consegna «la buona notizia», parlare di rilevanza non significa rivendicare una potenza religiosa della fede cristiana negli spazi del mondo, quanto piuttosto la capacità del cristianesimo di liberare e sprigionare nell’esistenza dei nostri contemporanei la vita che il Vangelo trasmette. Si comprende fin d’ora, cioè, che l’orizzonte in cui muoversi non è quello rispondente allo schema dell’apologetica classica, prettamente preoccupata di trasmettere la verità della fede e l’insieme delle sue dottrine, ma quello della teologia del Novecento e del Concilio Vaticano II, che intende la rivelazione di Dio come la sua stessa autocomunicazione d’amore e, perciò, l’incontro e il dialogo che Egli stabilisce con gli uomini e con la storia.

Con la vita degli uomini e delle donne
La questione non si limita a una riflessione teorica, ma investe l’orizzonte esistenziale. Lo aveva ben intuito Karl Rahner, che in una Conferenza tenuta il 22 luglio del 1982 alla Facoltà teologica di Würzburg, parlò di «una teologia con cui poter vivere», cioè si chiese se esista una teologia non stabilita su idee astratte riguardanti Dio ma su quel Dio che si è rivelato per rendere umanamente possibile e vivibile la vita umana. Rahner non nega l’importanza di una teologia accademica e scientifica, differenziata in molte discipline e settori e avente uno sterminato campo di indagine; tuttavia, una teologia che è consapevole di avere un carattere sovrascientifico, per il giovane teologo coinciderà con la concentrazione sulle questioni fondamentali, per approdare a una teologia che lo sostenga nella vita di persona umana e di credente:

«Nella sua teologia, perché sia degna d’essere vissuta, egli deve aver riflettuto con tutto l’impegno della sua esistenza e ovviamente anche con la sua razionalità su che cosa è propriamente la rivelazione; su quale rapporto intercorra fra la storia delle religioni e la storia di una rivelazione particolare e regionale; se e come sia ancor oggi possibile parlare seriamente di Dio in un mondo secolarizzato e positivamente scettico e come si possa far capire che cosa intendiamo dire con questo termine; su come fare per scoprire in sé, nell’uomo della vita quotidiana, un qualcosa come l’esperienza di Dio […]. Se si possa seriamente affermare che un uomo, per essere pienamente uomo e cristiano, debba aver qualcosa a che fare con una Chiesa e con la sua burocrazia e praticare appunto religiosamente i riti che sono in uso nella Chiesa cattolica romana».

Chiedersi se il cristianesimo sia o possa essere rilevante per l’uomo d’oggi significa interrogarsi dunque sulla sua capacità non di trasmettere una verità intellettuale, astratta e separata dalla vita, ma di comunicare la vita che Dio ci ha rivelato e donato in Gesù Cristo, e che abita in noi e nella storia per mezzo dello Spirito. Si tratta di comprendere fino in fondo, con tutte le implicazioni esistenziali del caso, che la notizia inaudita del cristianesimo è questa: la vita è possibile, nonostante tutto. Infatti:

«E proprio questa cosa inaudita da sentire che dice il Vangelo: esiste una Vita che non è delimitata dal nulla. Il Vangelo è l’annuncio che è possibile vivere veramente, dunque un annuncio buono da intendere, se è vero che ogni essere umano deve affrontare almeno una volta al giorno, la sola vera domanda: che senso ha la mia vita? Chi gli dirà quale vita vale la pena di essere vissuta?» (Dominique Collin).

Se il Dio della rivelazione cristiana possa ancora avere a che fare con la vita degli uomini e delle donne di oggi è un interrogativo che diventa sempre più scottante. A nulla serve, peraltro, tentare di affrontarlo da un punto di vista prettamente «pastorale», scivolando di fatto nel pericolo di una dicotomia tra teologia e agire ecclesiale. La domanda è invece teologica, dal momento che essa intende scavare e approfondire non solo e non tanto una crisi di pensiero ma gli ostacoli culturali, esistenziali e spirituali che impediscono al vivere odierno di aprirsi alla relazione con Dio.

Ma da quando Dio, il Dio della Bibbia, è diventato puro spirito? Due recenti volumi riaprono la discussione, con spunti tutt’altro che banali. E utili anche oggi

ono usciti quasi in contemporanea alcuni volumi che si occupano della rappresentazione corporea di Dio, e già questa mi sembra comunque una notizia; poiché la convinzione universale che la divinità consistesse in puro spirito pareva incontrovertibile, o almeno abbastanza da non ammettere revisioni o pareri contrari.

Invece sia Christoph Markschies, che ne tratta accademicamente ne «Il corpo di Dio» (Paideia), sia Francesca Stavrakopoulou che con toni più divulgativi e scanzonati affronta l’«Anatomia di Dio» (Bollati Boringhieri) – e ci sarebbe anche di Giovanni Ibba «Con le ali si coprivano i piedi», più specifico sulla sessualità nella Bibbia – avvisano che l’antropomorfismo della divinità non può essere facilmente liquidato come appannaggio di popolazioni incolte e primitive; non foss’altro in quanto nella Bibbia ebraico-cristiana – da cui tutti dipendiamo – la corporeità fisica di Dio è onnipresente e fuori discussione.

I passi del Creatore nel giardino dell’Eden, la lotta di Yahwé con Giacobbe, Mosé che sull’Oreb ne vede «la gloria» infatti non sono per nulla metafore, come invece sempre si interpreta. «Il Dio testimoniato negli scritti biblici – chiarisce Markschies – non può essere ridotto senza perdita sostanziale a essere incorporeo, assolutamente trascendente, come di solito avviene».

E difatti nel mondo cristiano dei primi secoli (ma anche nell’ebraismo) la questione venne lungamente discussa con orientamenti opposti, prima che prevalesse – da Agostino in poi – la concezione spiritualizzata del corpo di Dio, di derivazione neoplatonica; l’apologeta Tertulliano per esempio sostenne (contrastato da Origene) che la divinità doveva essere per forza corporea, ancorché non in forma umana e di una materia non terrena.

È dunque divertente, soprattutto nel volume di Stavrakopoulou, considerare le conseguenze pratiche della corporeità divina, per esempio le elucubrazioni sulla estensione gigantesca del suo fisico o addirittura su certe parti anatomiche che non ci aspetteremmo in Dio. Ma più seriamente la lettura suscita e poi mette esplicitamente a tema varie questioni di non poco conto. Ne enumeriamo soltanto tre.

  1. Anzitutto «la verità del mito» della corporeità di Dio – come la chiama Markschies – ha il merito di «impedire di trasferire semplicemente a Dio i dualismi netti di corpo (o materia) e spirito e di pensarlo come puro essere spirituale», e dunque di conseguenza di correre il rischio di svalutare sul piano religioso tutto quanto attiene alla materia. Un vantaggio che, nella corrente sensibilità per il corporeo, non mi pare secondario: almeno in chiave pastorale.
  2. Qualora non si riconoscesse la corporeità di Dio, si porrebbe poi (ancora Markschies) «un problema teologico di primaria grandezza», ovvero una evidente differenza fra le tre Persone della Trinità: una delle quali – secondo la dottrina – sarebbe presente in cielo con un corpo, sia pure divinizzato. (Già, ma cosa vuol dire questo aggettivo: che il corpo del Risorto è “diverso” da quello del Cristo storico? Per chiudere una falla, si rischia così di aprirne una ancora maggiore…).
  3. Infine si pone la questione della corporeità di Cristo stesso. Se infatti il Padre ha biblicamente un corpo, come interpretare l’incarnazione del Figlio? Oppure è quest’ultimo (dice Stavrakopoulou) il nuovo «detentore assoluto del monopolio esclusivo sulla corporeità divina» e in pratica l’incarnazione e poi l’eucaristia sono responsabili della spiritualizzazione neoplatonica del Padre?

Questioni di lana caprina, si dirà. Può essere. Intanto però nel Credo ogni domenica continuiamo a ripetere meccanicamente che il Figlio è «della stessa sostanza del Padre» e proprio su faccende come questa si sono consumate nella cristianità fratture che durano da millenni.

Nella foto: impronte “divine” nel tempio ittita di Ain Dara, in Siria

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