Quale posto per Dio e per la Chiesa?

di: Mariangela Maraviglia settimananews.it


Brunetto Salvarani, Senza Chiesa e senza Dio. Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano, collana «Tempi Nuovi», Laterza, Roma-Bari 2023, pp. 248, € 20,00.

Lo storico Michele Ranchetti ricorda in un suo scritto che padre Balducci o padre Turoldo affermavano «Noi siamo gli ultimi preti». Fin dall’ultimo scorcio del Novecento era viva nei cristiani più accorti la consapevolezza di appartenere a un mondo religioso in rapida trasformazione, che non sopportava più di essere interpretato e vissuto con categorie tradizionali e chiedeva nuove forme di comunicazione e di intervento.

Nei pochi decenni trascorsi dalla loro scomparsa, entrambi nel 1992, la trasformazione ha subito un’accelerazione sorprendente, tanto che possiamo oggi constatare non solo la crisi ma la fine di quel mondo di cui entrambi si sentivano pienamente partecipi, sia pure con il fiero spirito critico che contrassegnava le loro esistenze.

Su questa crisi da anni si susseguono indagini sociologiche e storiche, letture teologiche, documenti pastorali tesi a comprendere, denunciare, sanare. Titoli eloquenti avvertono che la Chiesa «brucia», che si sta allevando «la prima generazione incredula», che «piccoli atei crescono», che le donne abbandonano la pratica religiosa rifuggendo secolari fedeltà.

Ma, oltre ai testi scritti, l’esperienza di ognuno si fa riscontro esplicito di un cambio d’epoca che sorprende e spesso sgomenta, nello scorgere il tramonto non solo di forme tradizionali di credenza ma anche di quelle esperienze ecclesiali che si sono proposte un rinnovamento radicale della fede cristiana, nello spirito del Concilio Vaticano II.

Il volume di Salvarani
Brunetto Salvarani in Senza Chiesa e senza Dio. Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano (Laterza 2023) affronta questo cambio d’epoca, a cui si può ben dare il nome di crisi, facendo tesoro di un’ampia ricognizione di studi e documenti e senza concedere spazio alcuno a rimpianti o lamentazioni. Suggerendo, anzi, di attraversarlo come un tempo di opportunità, un chronos da vivere con la sapienza di volgerlo in un kairòs. Con le parole della scrittrice Christiane Singer ne raccomanda un «buon uso» perché «in mancanza di maestri, nella società in cui viviamo, sono le crisi i grandi maestri che hanno qualcosa da insegnarci, che possono aiutarci a entrare […] nella profondità che dà senso alla vita» (p. 4).

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Ma perché diventi occasione, questa crisi occorre interrogarla, assumerla senza reticenze, coglierne la portata epocale sulla scorta delle tante voci che l’hanno affrontata e analizzata.

Sì – afferma Salvarani – siamo alla dissoluzione del regime di cristianità, quel microcosmo compatto e apparentemente inscalfibile che, sviluppatosi dall’età costantiniana, ha imposto per secoli, su vasti territori, concezioni etiche e sociali e idee di Dio e del dopo-vita.

Mutua dalla sociologa Danièle Hervieu-Léger i concetti di «implosione» e di «esculturazione» del cattolicesimo, a esprimere la fine della trama culturale a lungo dominante sulla scena religiosa e sociale dell’intero Occidente. Un tracollo reso più evidente dal disarmante analfabetismo biblico che ogni inchiesta certifica: la Bibbia – scrive Salvarani con espressione felice e incontestabile – è il «libro assente» dalla cultura trasmessa e condivisa: nonostante sia il «grande codice» della cultura occidentale, secondo la nota definizione del critico letterario Northop Frye; nonostante non vi sia aspetto della vita culturale e artistica delle nostre latitudini che sia leggibile senza la conoscenza del suo universo di contenuti, storie, personaggi, come ribadiva Umberto Eco.

Il «trasloco di Dio»
Un quadro dirompente, che non si risolve tuttavia nell’irrevocabile tramonto di ogni esperienza religiosa, secondo le convinte premonizioni di «eclissi del sacro» che hanno segnato la seconda metà del Novecento.

La religione dell’Occidente non scompare – ricorda Salvarani –, piuttosto subisce quella che il sociologo Luigi Berzano chiama «quarta secolarizzazione» e, da istituzione che organizza la vita pubblica, si trasforma sempre più in patrimonio di singoli individui che si ritagliano una variegata «autonomia degli stili» del credere.

Scompare la figura del praticante regolare e della civiltà parrocchiale, si afferma la figura del «pellegrino», icona di un paesaggio religioso in movimento, di «dinamiche del fai da te», in un contesto diffuso e condiviso che avverte con identica legittimità i percorsi spirituali più diversi, l’appartenenza condizionata, l’autogestione o anche l’abbandono della pratica religiosa.

Se quanto detto vale per la gran parte dei vissuti religiosi italiani, europei, nordamericani, non rappresenta la realtà di altre aree del mondo, soprattutto dell’Africa e dell’America Latina, dove si assiste a un autentico «trasloco di Dio».

Con questa formula accattivante e con molte cifre alla mano, Salvarani rappresenta realtà religiose in piena fioritura in quei continenti, vitalità inesauribili di gruppi, per lo più carismatici ed estranei alle confessioni tradizionali, che realisticamente rappresentano tanto presente e forse gran parte del futuro del cristianesimo. Gruppi di cui non cela le criticità nell’approccio emozionale e conservatore sui versanti della fede, della dottrina e della morale, oppure nel concentrarsi in una «teologia della prosperità» che riduce la fede a una individualistica richiesta di immediata salute, felicità, ricchezza.

Abitare con sapienza la crisi
Di fronte a un quadro tanto complesso e confuso, a un pluralismo aperto a inedite possibilità ma non certo acquietante, Salvarani non cede a impostazioni autodifensive o a logiche di conflitto, né a salvaguardare qualche «rottame della cristianità» (citazione da Giuseppe Dossetti). Crede, piuttosto, che occorra imparare ad abitare la crisi esercitando il coraggio di «un pensiero dotato di immaginazione e fantasia», la pazienza «di educarci al dialogo all’interno e all’esterno», senza pretendere di possedere facili quanto illusorie soluzioni.

La via della formazione gli appare la risorsa necessaria per «seminare futuro», ripartendo dalla centralità della Bibbia e dalla persona di Gesù Cristo, ma senza timore di percorrere itinerari di dialogo o di inaugurare esperienze di inedito «meticciato», parola chiave della sua proposta, tra religioni e culture.

Ripartire dalla Bibbia, da rilanciare con le dovute metodologie, nelle chiese, nelle scuole e ovunque si faccia educazione: «Le nuove generazioni, per vivere consapevolmente in una società multireligiosa, hanno bisogno di conoscere e di capire la realtà e la complessità del fenomeno religioso: conoscere e capire è, a un tempo, la condizione di una fruttuosa convivenza e di una matura consapevolezza della propria identità. Della quale la Scrittura, piaccia o no, almeno in Occidente, fa parte da tempo immemorabile» (p. 145).

Ripartire da una fede in Gesù Cristo che tenga insieme atteggiamento dialogico e annuncio profetico, che riconosca «i raggi di verità divina che si trovano all’interno delle religioni del mondo» e insieme annunci «senza esitazioni, fedelmente […] il nome, la visione e la Signoria di Gesù Cristo» (p. 123). Alla scuola di tanti maestri, tra i quali spiccano, sullo sfondo del Concilio Vaticano II, papa Francesco, Raimon Panikkar, Bruno Hussar.

Maestri e profeti per questo tempo
Papa Francesco con il suo ecumenismo del «poliedro», la sua proposta di una unità tra cristiani in cui ogni parte, diversa dall’altra, conserva la sua peculiarità e il suo carisma (p. 73); con il riconoscimento – in documenti come quello firmato ad Abu Dhabi sulla fratellanza umana (2019) e l’enciclica Fratelli tutti (2020) – di una Chiesa che «come non integra e non prende il posto di Israele, allo stesso modo non integra e non sostituisce la parte di verità religiosa di cui un’altra religione può essere portatrice» (p. 79).

Bruno Hussar, domenicano ebreo vicino agli arabi, fondatore del villaggio della pace di Neve Shalom/Wahat as-Salam, è convinto che «Gesù è ebreo e lo è per sempre», e che, a partire dalla sua umanità storicamente ebraica, occorra «camminare in una vita personale e comunitaria, il più possibile umana e umanizzata» (p. 178).

Raimon Panikkar, il teologo indo-spagnolo che nella sua originale dichiarazione di fede («Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindu e son ritornato buddhista senza mai smettere di essere cristiano») incarna il «bisogno vitale del cristianesimo di inculturarsi coraggiosamente nelle più frastagliate tradizioni» (p. 147).

Tutti maestri che interpretano nelle loro diverse realtà lo stile di Gesù: stile del dono, della relazione, dell’ospitalità che Salvarani indica al presente e al futuro dei cristiani.

Grande cultore di letteratura raffinata e popolare, di canzoni e di cinema, l’autore regala ai suoi lettori citazioni e passaggi tra i più toccanti che si possano leggere e ammirare nella produzione contemporanea. Come l’autobiografico Servabo di Luigi Pintor (1991): «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi». Come la fiaba del film Il pranzo di Babette (1987), grande parabola di «carità ospitale» e del miracolo di ritrovata armonia che può sorgere dal dono amoroso di un’arte e di una vita.

Operando nel contesto di un paesaggio sempre più secolarizzato, e insieme affollato di proposte spirituali, teologiche, etiche variegate, per le Chiese cristiane c’è davvero da «rimboccarsi il pensiero», come raccomanda Salvarani. Che dona un contributo doppiamente “necessario”: perché ricco di voci e sollecitazioni per riflettere su un presente ineludibile; perché animato dallo sguardo fiducioso di un confronto possibile e di una partita aperta, da giocare come cattolici nel cammino del Sinodo, occasione e scommessa di nuove possibili narrazioni, anche nel nostro tempo, di una buona Novella.

Musica / Massimo Ranieri: devo a Dio il mio successo


Fonte: famigliacristiana.it
Finalmente incontriamo per Credere Giovanni Calone, in arte Massimo Ranieri. L’occasione è di quelle belle: l’uscita del suo nuovo album, Tutti i sogni ancora in volo (Warner Music). Un album di dodici brani inediti scritti da nomi importanti della musica italiana e da giovani promesse, fortemente voluto da Massimo Ranieri dopo oltre vent’anni di musica napoletana. È l’album di un altro “nuovo inizio”, con quel titolo che richiama la strofa di una delle sue canzoni più amate, Perdere l’amore, nonché il suo ultimo libro, pubblicato da Rizzoli lo scorso anno. Perché, dice, «il sogno di continuare a vivere la vita non mi abbandona: non smetto di sognare, e ringrazio Dio per questo e per tutta la mia vita meravigliosa. Sogno di sognare sempre».

LA CADUTA “PROVVIDENZIALE”
Lo scorso 6 maggio, un grave incidente lo mette fuori gioco per un lungo periodo: durante uno dei suoi spettacoli al Teatro Diana di Napoli, l’artista cade dal palco, perdendo l’equilibrio: si rompe quattro costole, l’omero e un polso. «C’è il video della caduta, ma non voglio vederlo: mi sembrerebbe di rivivere tutto il dolore provato. So soltanto io quante notti sono stato in poltrona perché non riuscivo a dormire: non trovavo la posizione. Mi faceva male dappertutto. E la ripresa è stata lunga. È stato un momento buio: ho capito poi che era una manna dal cielo. Era stato il buon Dio a tirarmi per la giacca, per avvertirmi, come mi avesse detto: “Non ti vuoi fermare, capatosta? Mo’ ti fermo io”. E aveva ragione, dovevo fermarmi, perché ero davvero molto stanco. Mi ha ricordato un po’ mia mamma che quando andavo a Napoli diceva: “Guaglio’, devi riposarti un poco figlio mio, sei stanco”, e io le dicevo: “Appena finisco queste serate…”, ma non le davo mai ascolto. Ecco, è arrivato Lui». Riprende l’artista: «È stato per me un periodo di riflessione: quei 50 giorni fermo e la lunga riabilitazione li ho vissuti come un giusto riposo − anche se forzato e doloroso − che mi ha fatto capire tante cose: innanzitutto che anche se me ne sento 30, ho già compiuto 71 anni e il fisico, certe volte, non risponde più come prima. Bisogna farci i conti: devo tener presente che non posso pretendere troppo da me stesso come quando ero un ragazzo».

TENERE STRETTO IL BUONO

«E poi ho compreso quanto sia importante accorgersi delle cose che ti capitano, tenere strette quelle buone e lasciarsi alle spalle le zavorre, ciò che conta poco. Non dico che comincio a fare i conti, ma inizio ad acchiappare le cose a cui prima non avrei fatto caso, a dire “questa mi serve” oppure “questa non mi serve”. Sempre con il sogno di continuare a vivere e di dare la giusta importanza alla vita. Quella caduta, che poteva davvero finire peggio, è stata la pacca di Dio sulla mia spalla. Nessuno però riuscirà a togliermi le mie corsette sul Lungotevere, quelle no!», ride. Giovanni Calone “il buon Dio” lo nomina spesso e lo ringrazia, e non è un modo di dire, un intercalare, ma è un riferirsi a un amico, a Qualcuno che ha sempre sentito vicino, fin dai primi anni della sua esistenza. Nato a Napoli, nel rione Pallonetto di Santa Lucia, il 3 maggio 1951 in una famiglia tanto povera quanto unita, Giovanni è il quinto degli otto figli di Giuseppina Amabile e Umberto Calone. Abitavano tutti in un’unica stanza al quinto piano, il ballatoio era la cucina e c’era una solidarietà tra vicini che Massimo non ha più trovato e che rimpiange.

L’INCONTRO CON DE SICA
Della sua famiglia Massimo parla con amore e tanta gratitudine, ricorda la pasta e patate così odiata che la madre metteva insieme con fatica, della fame in agguato, dei primi lavori a sette anni come garzone di una vineria, poi fattorino, ragazzo di bottega, commesso, barista e intrattenitore nelle cerimonie. E, anche, dell’incontro con Vittorio De Sica che, ascoltandolo cantare in italiano, lo rimprovera: «Figlio mio, ma come, tu che sei napoletano, e con la voce che ti ritrovi… Dovresti cantare Napoli!». Il resto è storia: della musica, del teatro, del cinema e della televisione, perché da allora Massimo Ranieri non si è più fermato. «In ogni cosa c’è sempre Dio, che mi ha dato un grande dono, un talento che non va sciupato: è come aver ricevuto una chiamata, la più importante. Non sprecare i miei doni è il mio modo di ringraziarlo, è la mia risposta di responsabilità. Perché ha scelto me tra milioni di persone. Dietro a ogni successo, io sento l’intervento di Dio: e vale per tutti. Qualsiasi sia la propria vocazione».

L’ESEMPIO DEI GIOVANI

Una fede, quella di Massimo, che non lo abbandona e che gli arriva dai genitori: «La fede è tutto. Ti dà coraggio, ti fa sentire più forte. Non ti fa dimenticare gli altri. Chi ha fede crede sempre nel prossimo e cerca di aiutare il più debole, chi in quel momento ha più bisogno. Nella vita ci sono momenti belli e brutti: la fede ti aiuta ad affrontarli. Quando vivi dei momenti belli bisognerebbe accorgersene: è lì che vince la fede e ti mette le ali. Ma anche nelle difficoltà ti indica la possibilità di giornate con il sole e non con le nuvole». Così, per tornare al titolo dell’album, per Massimo Ranieri i sogni sono ancora in volo, tutti lì ad aspettarlo: «Sto lanciando il disco ma sto già pensando al prossimo progetto: è un sogno che ho da sempre. Riuscire a fare un concerto accompagnato da una grande orchestra di 120 elementi: sono 47 anni che ho questo desiderio!», e batte il pugno sul tavolo, ridendo, «Ho la testa dura!». «Mia madre ci ha messo nove mesi per mettermi al mondo, mio padre è quello che mi ha creato come cantante, ha creduto in me, mi ha permesso di diventare l’uomo che sono, ha continuato a sognare con me: ma io dico sempre grazie Patatè (Patatèrno: Padreterno in napoletano, ndr) che mi hai messo al mondo. Grazie a Dio ancora mi diverto e non mi annoio mai, magari sono stanco, ma la mia fede è questa: mi hai messo al mondo e mi stai facendo fare un viaggio meraviglioso e incredibile, e nessun sogno poteva regalarmelo».

CANTANTE, ATTORE E SHOWMAN
Cantante, attore, conduttore televisivo, showman e regista teatrale italiano. La carriera di Massimo Ranieri è lunga e ricca di successi. Nel 1964, a soli 13 anni, con lo pseudonimo di Gianni Rock incide il suo primo disco e sbarca a New York in tournée come spalla di Sergio Bruni. Nel 1969 vince al Cantagiro con Rose rosse. Nel 1988 vince il Festival di Sanremo con il brano Perdere l’amore. Ha pubblicato 31 album e 36 singoli, raggiungendo anche “picchi record” di vendite, segno dell’amore che il pubblico nutre per lui: con quattordici milioni di dischi è tra gli artisti italiani che hanno venduto di più nel mondo. Ha avuto alcuni amori importanti ma non si è mai sposato. Ha una figlia, Cristiana, che lo ha reso nonno.

CHI É
Età 71 anni
Professione Artista a tutto tondo
Famiglia Proviene da una famiglia umile e credente
Fede Sincera, ereditata dai genitori

Dio è sempre con noi, come ci ricorda la figura di Giuseppe

di SILVIA CALABRÒ – vinonuovo.it
«La vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele». Dio è sempre con noi

Un uomo giusto, ebreo, della casa di Davide viene travolto da uno dei problemi più grossi dell’epoca: la sua promessa sposa è incinta. La legge dell’epoca era alquanto impietosa di fronte a tale situazione disonorevole.
Il disonore, oltre a cadere su Giuseppe, che poteva rivendicare il ripudio e l’accusa pubblica con la condanna di Maria, ricadeva anche sulla stessa famiglia di Maria, che vedeva un patto sciolto e una figlia non più adatta al matrimonio… Sono problemi grossi da affrontare e diciamo che la nascita del figlio di Dio non è avvenuta proprio in un contesto troppo sereno. Preoccupazioni, problemi familiari e sociali, il buon nome di persone che vengono messe a rischio… cosa fare?
Tutto questo farebbe perdere il sonno anche a noi e spesso sappiamo quanto il peso di scelte e preoccupazioni invadano con prepotenza la nostra vita, senza che noi ne siamo colpevoli.
Così il povero Giuseppe, travolto da una situazione più grande di lui, si trova a dover scegliere fra due situazioni. Decide, per il bene che riponeva in Maria, di ripudiarla in segreto: questo era l’unica soluzione che permetteva il male minore… più di così non poteva fare.

Ma proprio nel pieno dei suoi pensieri, Dio interviene mostrando a Giuseppe una terza via: portare avanti il matrimonio con la sua sposa. Certo non una soluzione facile da prendere e da portare avanti, ma l’invito a ‘non temere’ nasce da un senso più grande della sua vicenda personale. I problemi si supereranno, anche con fatica, ma Maria potrà portare a termine la sua missione con l’aiuto di questo uomo che la accoglierà e si prenderà cura di lei e del bambino.

Che storia! Molto simile a tante altre che si intrecciano nella nostra storia di oggi.
Anche quest’anno si celebra il Mistero dell’Incarnazione. Qualcosa che non nasce dal nulla, ma che entra nella storia complessa degli uomini di allora e di oggi. Proprio così, Dio scende fino a noi perché così noi possiamo sentirlo tanto vicino da non temere il mondo e i problemi che ci circondano. Dio giunge con la voce di un angelo a chiederci di non temere, di accogliere anche questa realtà strana e di viverla, proprio come Giuseppe, e di fidarci che anche quest’anno che per noi giungerà di nuovo un bambino, che porta in sé la salvezza per tutti. Egli è l’Emanuele, cioè quel Dio che si fa dono per noi. Questo è il segno che Dio sta dando a tutti, sia dall’altro dei cieli che dagli inferi. Un segno. Tutta la creazione e tutti gli uomini posso accogliere questo segno profetico di una vergine che darà vita a un figlio per noi. Spesso, però, siamo così ripiegati nei nostri problemi da non ricordare un elemento fondamentale della redenzione: la volontà di Dio di essere con noi. Come il re Acca, abbiamo paura di tentare Dio con un segno; ma Egli stesso aspetta una nostra richiesta di aiuto. Giuseppe ascolta quella voce che parla dentro di sé, mentre Acaz non farà altro che rifiutare la parola data dal profeta.

La nostra vita spesso è complessa e difficile, ma non dimentichiamo che Dio e con noi e non contro di noi.

Teologia / È possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente?


di: Francesco Cosentino – Settimana News
«È possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza? Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale». Le edizioni San Paolo hanno pubblicato il saggio di teologia della rivelazione di Francesco Cosentino, teologo e docente di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana: Dio ai confini. La Rivelazione di Dio nel tempo dell’irrilevanza cristiana. Anticipiamo di seguito l’Introduzione del volume.
In un colloquio sul futuro del mondo e della Chiesa, avvenuto a Roma nel 1982, a Karl Rahner fu chiesto quali fossero secondo lui i problemi teologici più urgenti; il teologo tedesco rispose senza esitazione che, alla fin fine, erano quelli di sempre: «I problemi teologici più antichi, che sono, in fondo, anche i più attuali: Com’è possibile un’autentica esperienza di Dio? Come posso conoscere veramente che Dio si è rivelato, in Gesù Cristo, in modo assoluto e definitivo?».

L’eco di quelle domande ritorna anche oggi: ha ancora senso parlare di Dio nel nostro tempo? La questione appare tutt’altro che scontata, mentre ereditiamo la compagine storica del Novecento che, attraversata da catastrofi e da epocali cambiamenti, ha «liquidato» la domanda su Dio o, tutt’al più, l’ha relegata ai contorni della vita e di una religiosità privata. Dio è ormai ai confini della vita, ai margini della storia.

Si tratta di una sfida che chiede alla riflessione teologica di uscire dall’angolo, prendendo coscienza del fatto che «il cristianesimo è ormai in una posizione minoritaria: mentre ha la pretesa di rappresentare ancora tutti, in verità tende a farsi una setta, di cui nessuno capisce più il linguaggio e la gestualità» (Elmar Salmann).

Teologia della rivelazione
Spontaneamente si tende a pensare che un simile esercizio teologico abbia a che fare con elaborate e astratte interrogazioni intellettuali, mentre invece il parlare di Dio non è mai dissociato dal suo dirsi/darsi nell’esperienza come realtà che abbraccia la totalità dell’esistenza umana e luogo che le conferisce senso e interpretazione. Tanto più che, specialmente nel nostro contesto, si può affermare che a essere venuta meno non è una qualche dimostrazione sull’esistenza di Dio quanto piuttosto la sensibilità interiore per la relazione con ciò che ci supera: «Nella questione su Dio non è mai la prova che manca. Si tratta di gusto. Ha perduto, almeno in apparenza, il gusto di Dio: ecco la diagnosi più triste e allarmante sulla nostra epoca» (Henri De Lubac).

La teologia della rivelazione è sempre strettamente legata a quell’esperienza che denominiamo fede, in un esercizio che tenta di offrire uno sguardo differente sulla vita e sulla storia, a partire da quella eccedente sorpresa del Dio rivelatosi in Gesù Cristo: Dio si manifesta come Dio solo nel suo donarsi e affidarsi al tempo e all’uomo, nel suo dimorare presso le case degli uomini in quanto Egli stesso Dio pienamente e profondamente umano.

In tal senso, ogni riflessione teologica è una teologia fondamentale pratica, che lega esperienza di Dio ed esperienza dell’uomo, e che Rahner ha saputo incarnare con queste parole: «In fondo noi vogliamo soltanto riflettere su questa semplice domanda: «Che cos’è un cristiano e perché oggi possiamo vivere questo essere cristiani con onestà intellettuale?». Mentre viviamo un’ora «caratterizzata dall’oscuramento della luce celeste, dall’eclissi di Dio» (Martin Buber), è anzitutto la possibilità stessa del parlare di Dio all’uomo contemporaneo che va nuovamente affrontata.

La parola «Dio», infatti, mentre ci rimanda alla trascendenza ineffabile del Mistero divino, è anche la parola scolpita nel cuore dell’umano e della sua vicenda, e dunque parola che ci supera: evento che mentre indica la strada apre interrogativi, che offre la pace solo al prezzo di un ribaltamento delle umane sicurezze e che invita al superamento di sé e all’ospitalità di un’alterità sorprendente.

Nella complessa compagine postmoderna è ancora questo il compito della teologia contemporanea: «Far sì che Dio sia nuovamente udito come Dio: frantumando la coscienza storica moderna, smascherando le presunzioni della razionalità moderna, esigendo attenzione per tutti quelli che sono stati dimenticati o emarginati dal progetto moderno» (David Tracy). Si tratta anzitutto di superare gli angusti confini di una metafisica che incasella Dio nelle categorie dogmatiste dell’essere, per approdare verso la specificità del Dio cristiano che, in quanto amore e relazione, si configura come un «eccesso trasgressivo», un dono che supera e sorprende.

Questo è ciò che rende Dio «più che necessario» e lo riscatta dall’emarginazione cui è stato da tempo condannato: non si tratta di un monolite arroccato nell’alto dei cieli e nello splendore della sua divinità, ma di un Dio-Amore che discende in mezzo a noi e della nostra sorte si prende cura. Evento cristiano per eccellenza, quello della Rivelazione di Dio in Cristo Gesù e nello Spirito Santo è l’accadimento che manifesta non soltanto «ciò che Dio fa» ma anche e soprattutto «ciò che Dio è»: Agape, Dio per noi.

Guardare al presente, affacciarsi al futuro
La centralità della Rivelazione, per la teologia, è un dato incontrovertibile: credere significa essere attratti e poi trasportati nella verità e bellezza della Rivelazione, per poter contemplare il mistero stesso del Dio Uno e Trino. E la Rivelazione, in tal senso, rappresenta la sintesi di tutto il sapere teologico e dell’atto di fede: la Parola di Dio si compie e si realizza nella Rivelazione di Dio in Gesù Cristo, cosicché essa diviene onnicomprensiva dell’evento della fede e della teologia.

Certo, «riproporre la questione di Dio e del suo significato per l’oggi può sembrare un’operazione quasi museale, attardata sullo sfondo di un passato religioso» (Carmelo Dotolo) che ormai non c’è più. Tuttavia, se ritornare alla teologia della rivelazione potrebbe suggerire l’idea di una sorta di viaggio all’indietro al solo scopo di rivisitare le pagine di una riflessione del passato, in realtà, riconsiderare i contenuti e i linguaggi che hanno approfondito il cuore del Mistero cristiano si presenta ai nostri occhi come un compito tanto proficuo quanto urgente; non si tratta di contemplare una ricchezza «che fu» quanto, piuttosto, di affacciarsi sull’orizzonte presente e futuro del cristianesimo interrogandosi se la domanda su Dio sia ancora determinante e decisiva tanto da potersi collocare tra le grandi domande dell’esistenza e, al contempo, affrontando alcune altre domande: è possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza?

Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale.

Si tratta di un contesto sociale e culturale da più parti definito postcristiano e, al contempo, post-ateo, in cui la crisi della fede e la discussione sul futuro possibile del cristianesimo rappresentano un pungolo per la riflessione teologica e non possono non esserlo anche per la vita della comunità credente. Tale questione è stata posta da Paul Tillich già qualche decennio fa e va oggi affrontata nuovamente in tutta la sua radicalità: «Ciò che mi preoccupa più profondamente in questi ultimi anni è la questione: il messaggio cristiano (specialmente la predicazione cristiana) è ancora rilevante per le persone del nostro tempo? E se non lo è, qual è la causa? E ciò si riflette sul messaggio del cristianesimo stesso?».

Occorre tuttavia situare l’interrogativo in un orizzonte teologico il più possibile chiaro: in riferimento al Dio di Gesù Cristo, che cioè si rivela in Gesù Cristo e in Lui ci consegna «la buona notizia», parlare di rilevanza non significa rivendicare una potenza religiosa della fede cristiana negli spazi del mondo, quanto piuttosto la capacità del cristianesimo di liberare e sprigionare nell’esistenza dei nostri contemporanei la vita che il Vangelo trasmette. Si comprende fin d’ora, cioè, che l’orizzonte in cui muoversi non è quello rispondente allo schema dell’apologetica classica, prettamente preoccupata di trasmettere la verità della fede e l’insieme delle sue dottrine, ma quello della teologia del Novecento e del Concilio Vaticano II, che intende la rivelazione di Dio come la sua stessa autocomunicazione d’amore e, perciò, l’incontro e il dialogo che Egli stabilisce con gli uomini e con la storia.

Con la vita degli uomini e delle donne
La questione non si limita a una riflessione teorica, ma investe l’orizzonte esistenziale. Lo aveva ben intuito Karl Rahner, che in una Conferenza tenuta il 22 luglio del 1982 alla Facoltà teologica di Würzburg, parlò di «una teologia con cui poter vivere», cioè si chiese se esista una teologia non stabilita su idee astratte riguardanti Dio ma su quel Dio che si è rivelato per rendere umanamente possibile e vivibile la vita umana. Rahner non nega l’importanza di una teologia accademica e scientifica, differenziata in molte discipline e settori e avente uno sterminato campo di indagine; tuttavia, una teologia che è consapevole di avere un carattere sovrascientifico, per il giovane teologo coinciderà con la concentrazione sulle questioni fondamentali, per approdare a una teologia che lo sostenga nella vita di persona umana e di credente:

«Nella sua teologia, perché sia degna d’essere vissuta, egli deve aver riflettuto con tutto l’impegno della sua esistenza e ovviamente anche con la sua razionalità su che cosa è propriamente la rivelazione; su quale rapporto intercorra fra la storia delle religioni e la storia di una rivelazione particolare e regionale; se e come sia ancor oggi possibile parlare seriamente di Dio in un mondo secolarizzato e positivamente scettico e come si possa far capire che cosa intendiamo dire con questo termine; su come fare per scoprire in sé, nell’uomo della vita quotidiana, un qualcosa come l’esperienza di Dio […]. Se si possa seriamente affermare che un uomo, per essere pienamente uomo e cristiano, debba aver qualcosa a che fare con una Chiesa e con la sua burocrazia e praticare appunto religiosamente i riti che sono in uso nella Chiesa cattolica romana».

Chiedersi se il cristianesimo sia o possa essere rilevante per l’uomo d’oggi significa interrogarsi dunque sulla sua capacità non di trasmettere una verità intellettuale, astratta e separata dalla vita, ma di comunicare la vita che Dio ci ha rivelato e donato in Gesù Cristo, e che abita in noi e nella storia per mezzo dello Spirito. Si tratta di comprendere fino in fondo, con tutte le implicazioni esistenziali del caso, che la notizia inaudita del cristianesimo è questa: la vita è possibile, nonostante tutto. Infatti:

«E proprio questa cosa inaudita da sentire che dice il Vangelo: esiste una Vita che non è delimitata dal nulla. Il Vangelo è l’annuncio che è possibile vivere veramente, dunque un annuncio buono da intendere, se è vero che ogni essere umano deve affrontare almeno una volta al giorno, la sola vera domanda: che senso ha la mia vita? Chi gli dirà quale vita vale la pena di essere vissuta?» (Dominique Collin).

Se il Dio della rivelazione cristiana possa ancora avere a che fare con la vita degli uomini e delle donne di oggi è un interrogativo che diventa sempre più scottante. A nulla serve, peraltro, tentare di affrontarlo da un punto di vista prettamente «pastorale», scivolando di fatto nel pericolo di una dicotomia tra teologia e agire ecclesiale. La domanda è invece teologica, dal momento che essa intende scavare e approfondire non solo e non tanto una crisi di pensiero ma gli ostacoli culturali, esistenziali e spirituali che impediscono al vivere odierno di aprirsi alla relazione con Dio.

Ma da quando Dio, il Dio della Bibbia, è diventato puro spirito? Due recenti volumi riaprono la discussione, con spunti tutt’altro che banali. E utili anche oggi

ono usciti quasi in contemporanea alcuni volumi che si occupano della rappresentazione corporea di Dio, e già questa mi sembra comunque una notizia; poiché la convinzione universale che la divinità consistesse in puro spirito pareva incontrovertibile, o almeno abbastanza da non ammettere revisioni o pareri contrari.

Invece sia Christoph Markschies, che ne tratta accademicamente ne «Il corpo di Dio» (Paideia), sia Francesca Stavrakopoulou che con toni più divulgativi e scanzonati affronta l’«Anatomia di Dio» (Bollati Boringhieri) – e ci sarebbe anche di Giovanni Ibba «Con le ali si coprivano i piedi», più specifico sulla sessualità nella Bibbia – avvisano che l’antropomorfismo della divinità non può essere facilmente liquidato come appannaggio di popolazioni incolte e primitive; non foss’altro in quanto nella Bibbia ebraico-cristiana – da cui tutti dipendiamo – la corporeità fisica di Dio è onnipresente e fuori discussione.

I passi del Creatore nel giardino dell’Eden, la lotta di Yahwé con Giacobbe, Mosé che sull’Oreb ne vede «la gloria» infatti non sono per nulla metafore, come invece sempre si interpreta. «Il Dio testimoniato negli scritti biblici – chiarisce Markschies – non può essere ridotto senza perdita sostanziale a essere incorporeo, assolutamente trascendente, come di solito avviene».

E difatti nel mondo cristiano dei primi secoli (ma anche nell’ebraismo) la questione venne lungamente discussa con orientamenti opposti, prima che prevalesse – da Agostino in poi – la concezione spiritualizzata del corpo di Dio, di derivazione neoplatonica; l’apologeta Tertulliano per esempio sostenne (contrastato da Origene) che la divinità doveva essere per forza corporea, ancorché non in forma umana e di una materia non terrena.

È dunque divertente, soprattutto nel volume di Stavrakopoulou, considerare le conseguenze pratiche della corporeità divina, per esempio le elucubrazioni sulla estensione gigantesca del suo fisico o addirittura su certe parti anatomiche che non ci aspetteremmo in Dio. Ma più seriamente la lettura suscita e poi mette esplicitamente a tema varie questioni di non poco conto. Ne enumeriamo soltanto tre.

  1. Anzitutto «la verità del mito» della corporeità di Dio – come la chiama Markschies – ha il merito di «impedire di trasferire semplicemente a Dio i dualismi netti di corpo (o materia) e spirito e di pensarlo come puro essere spirituale», e dunque di conseguenza di correre il rischio di svalutare sul piano religioso tutto quanto attiene alla materia. Un vantaggio che, nella corrente sensibilità per il corporeo, non mi pare secondario: almeno in chiave pastorale.
  2. Qualora non si riconoscesse la corporeità di Dio, si porrebbe poi (ancora Markschies) «un problema teologico di primaria grandezza», ovvero una evidente differenza fra le tre Persone della Trinità: una delle quali – secondo la dottrina – sarebbe presente in cielo con un corpo, sia pure divinizzato. (Già, ma cosa vuol dire questo aggettivo: che il corpo del Risorto è “diverso” da quello del Cristo storico? Per chiudere una falla, si rischia così di aprirne una ancora maggiore…).
  3. Infine si pone la questione della corporeità di Cristo stesso. Se infatti il Padre ha biblicamente un corpo, come interpretare l’incarnazione del Figlio? Oppure è quest’ultimo (dice Stavrakopoulou) il nuovo «detentore assoluto del monopolio esclusivo sulla corporeità divina» e in pratica l’incarnazione e poi l’eucaristia sono responsabili della spiritualizzazione neoplatonica del Padre?

Questioni di lana caprina, si dirà. Può essere. Intanto però nel Credo ogni domenica continuiamo a ripetere meccanicamente che il Figlio è «della stessa sostanza del Padre» e proprio su faccende come questa si sono consumate nella cristianità fratture che durano da millenni.

Nella foto: impronte “divine” nel tempio ittita di Ain Dara, in Siria

vinonuovo.it

 

LA DISTRUZIONE DELLA GUERRA, IL SOGNO DI DIO PER LA PACE

A 100 giorni dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina tocchiamo con mano quanto è vero che «tutto è connesso». Solo lo sguardo alle tante vittime inermi potrà orientare una politica che miri alla pace

Cari amici lettori, abbiamo superato da poco il 100° giorno di guerra tra Russia e Ucraina. Ci passano sotto gli occhi le prime immagini di bombardamenti su Kiev, la fuga di tanti ucraini, gli orrori dei massacri insensati di civili, il timore per il possibile disastro per le centrali nucleari colpite da attacchi russi, i civili e militari chiusi nell’acciaieria Azovstal, l’uso di armi termobariche, lo spettro di una escalation nucleare, il rapimento di bambini ucraini portati in Russia, e da ultimo l’incombente spettro della fame in altre parti del mondo (Africa, Vicino Oriente) dipendenti dai rifornimenti di grano ucraino bloccati nei porti.

In Europa abbiamo vissuto la paura di essere privati del gas e petrolio russi: si è persino preso in considerazione un ritorno (“temporaneo”) al carbone (che sarebbe un grave passo indietro nella lotta contro il cambiamento climatico). In questa guerra più che mai tocchiamo con mano come «tutto è connesso», concetto chiave dell’«ecologia integrale» di cui parla papa Francesco in Laudato si’ (n. 138). I fattori ambientali, economici e sociali sono intrecciati: è la drammatica realtà anche della guerra. La guerra distrugge vite umane e rapporti familiari e sociali, distrugge la fraternità che è il sogno di Dio per l’umanità (Fratelli tutti, n. 26), distrugge le città e le attività industriali, mette in pericolo l’ambiente (vedi il disastro evitato per un soffio a Chernobyl e altre centrali nucleari) e i fragili equilibri tra le nazioni, dove quelle svantaggiate sono quelle che maggiormente patiscono le conseguenze “a distanza” del conflitto. Papa Francesco in Fratelli tutti richiamava il tema “ambiente” in relazione alla guerra: «Ricordo che la guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente» (n. 257; cfr. LS n. 57).

Osservazione che poteva sembrare marginale, e invece ora si sta rivelando drammaticamente vera. Non si può che sottoscrivere integralmente quanto si legge poco dopo: «La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male» (FT n. 261). Qual è allora lo sguardo cristiano sulla realtà della guerra, che dovrebbe contribuire a costruire una politica che mira alla pace? «Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come “danni collaterali”. Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi… Consideriamo la verità di queste vittime della violenza, guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace».

La guerra, male in sé, trascina con sé altri mali a cascata. L’unico vero realista, verrebbe da dire, è colui che cerca la pace. Preghiamo, cari amici, perché queste considerazioni facciano breccia anche in coloro che prendono le grandi decisioni della storia. 

Famiglia Cristiana

Il Dio nascosto (nei film)

Un titolo impegnativo, «Il Dio nascosto: quando il sacro si traveste da profano», per indagare quella spiritualità segreta, talvolta confusa e contraddittoria, ma spesso sorretta da una fede autentica, che un certo cinema contemporaneo ha indirizzato verso l’Alto, pur prelevandola da una quotidianità fragile, ambigua e provocatoria. Attraverso quattro saggi critici sul tema, il nuovo numero di Filmcronache, la rivista dell’Ancci (Associazione nazionale circoli cinematografici italiani), si muove dunque lungo le tracce di quei film (e di quegli autori) in cui la presenza di Dio appare spesso offuscata dalle seduzioni, dagli inganni e dalle miserie dell’incompiutezza umana.

Nel suo intervento, Tomaso Subini, docente di Cinema, fotografia, televisione e nuovi media all’Università degli Studi di Milano, si interroga su «Che cos’è un film religioso?», ponendo una domanda di fondo alla quale, dagli anni ’50 e ’60, hanno cercato di rispondere studiosi, ricercatori e istituzioni, esplorando nel contempo le liste ’ufficiali’ dell’epoca, contenenti opere controverse come

Francesco giullare di Dio o Il Vangelo secondo Matteo. «Dietro le divise: il ‘mestiere’ della fede» è invece il contributo del direttore di Filmcronache, Paolo Perrone, che in un’ampia panoramica, sospesa tra la beatitudine celeste e il precipizio terreno, rintraccia in alcuni recenti film come Corpus Christi, Agnus Dei, Maternal, Gli occhi di Tammy Faye e Beginning la veicolazione di una fede nutrita di preghiera e testimonianza, ma anche, non di rado, affaticata da sofferenze interiori e crisi vocazionali.

Nel suo intervento, intitolato «Imago Dei, fra natura e mito», Francesco Crispino, docente di cinema, film-maker e scrittore, evidenzia poi come un universo di simboli, mitologie e memorie ancestrali (e film come La vita nascosta-Hidden life, The Book of Vision, Non cadrà più la neve, Valley of the Gods, Piccolo corpo e Re Granchio) rimandino ad un Dio immanente e pervasivo, capace di manifestarsi in tutta la sua potenza a chi si dispone ad accoglierlo. Infine, con «Titane: un viaggio nuovo (e antichissimo) nella vita», padre Guido Bertagna, gesuita, già direttore del Centro culturale San Fedele di Milano, analizza a tutto campo il film di Julia Ducournau, Palma d’oro di Cannes 2021: una parabola postmoderna e postumana su un amore capace di accogliere l’altro oltre ogni ragionevole attesa. Il numero di

Filmcronache in uscita in questi giorni (disponibile gratuitamente in versione digitale negli store Apple e Google) sarà la base teorica per organizzare rassegne tematiche nei Cinecircoli e nelle Sale della Comunità.

Gli animali un dono di Dio, nostri “compagni” nel Creato

Il richiamo all’ecologia integrale è la condizione prioritaria per essere buoni amministratori del creato e allontanarsi da una cultura che trasforma gli esseri viventi in oggetti di consumo. Compresi gli animali, messi al centro del messaggio della Commissione episcopale per i problemi sociali, il lavoro, la giustizia e la pace per la 71ª Giornata del Ringraziamento: “Lodate il Signore dalla terra (…) voi, bestie e animali domestici (Sal 148,10). Gli animali, compagni della creazione”.

Ricca di significati la scelta di celebrare in Sardegna la manifestazione che contadini, pastori e allevatori considerano il capodanno delle campagne. L’isola, infatti, l’estate scorsa ha pagato un prezzo ambientale altissimo: 20mila ettari devastati dalle fiamme, centinaia di animali morti, 100 mila alberi d’ulivo inceneriti, con 60 milioni di api uccise, insetti che il documento dei vescovi considera «una benedizione per l’ecosistema e per le attività dell’uomo ». «La prossimità agli animali, che nella tradizione della civiltà agricola ha portato a sentirli e trattarli quasi come partecipi della vita familiare, nella modernità – scrivono i vescovi – è stata abbandonata, riducendo queste creature a oggetti di mero consumo». Un’ecologia anche integrata, che don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per i problemi sociali e il lavoro, ha descritto in apertura del seminario organizzato dall’arcidiocesi di Sassari unitamente a Acliterra, Coldiretti, Fai Cisl, Feder.Agri, Terraviva. La necessità di riconvertire il nostro stile di vita è il filo rosso che unisce la due giorni del Ringraziamento, che si conclude oggi con la Messa (trasmessa in diretta su Rai uno) celebrata dall’arcivescovo Gian Franco Saba, a Portotorres, nella basilica dei Santi Martiri Gavino, Proto e Gianuario, seguita dalle parole di papa Francesco, all’Angelus. Al termine la benedizione dei mezzi agricoli e degli animali.

Di “Benessere animale e benessere dell’uomo nell’attività zootecnica” si è parlato nella tavola rotonda, coordinata da Daniela Scano, caporedattrice del quotidiano La Nuova Sardegna.

«Questa Giornata rappresenta, per la diocesi di Sassari – ha detto don Andrea Piras, responsabile della pastorale del lavoro – l’occasione per consolidare l’alleanza che, tra le componenti ecclesiali, le parti civili, gli organismi sociali, le agenzie culturali della città e del territorio, insieme alle categorie di lavoratori e di tanti giovani studenti, intende favorire una scelta di consapevolezza e di responsabilità perché ciascuno, sentendosi interpellato personalmente, si adoperi come autentico protagonista del cambiamento d’epoca in atto».

«La giornata del Ringraziamento – ha commentato il segretario generale della Fai Cisl, Onofrio Rota – ci consente di rilanciare il percorso verso l’ecologia integrale che ci siamo impegnati a coltivare anche con l’adesione al Manifesto di Assisi e con la nostra campagna Fai Bella l’Italia. Tra gli obiettivi di quell’idea c’è il superamento di un approccio predatorio che per anni ha caratterizzato la crescita, anche nel nostro Paese, svalutando e depauperando il suolo, il paesaggio, gli alvei idrici, le persone, il loro rapporto con l’ambiente e il regno animale». «Per noi – ha aggiunto il presidente di Coldiretti Sardegna, Battista Cualbu – è un orgoglio ospitare in Sardegna, a distanza di pochi anni dalla tappa di Dolianova nel 2015, questa manifestazione nazionale, che dimostra ancora una volta la sensibilità della Cei per la nostra terra, in particolare in quest’anno segnato dai terribili incendi estivi».

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Un momento del Convegno a Sassari per la Giornata del Ringraziamento

Gesù modello d’empatia integrale

(Fonte Fonte_globalworship_tumblr_com)

L’empatia di Gesù è evidente e presente in molti passaggi del Nuovo Testamento. è riscontrabile in maniera chiara nella narrazione della guarigione dei due ciechi di Gerico (Mt 20,29-34). In tale circostanza l’empatia autentica di Gesù davanti ai due uomini che implorano la guarigione, è percepibile nelle sue azioni e parole. Pertanto, è fondamentale, per il nostro cammino di crescita come credenti, comprendere e riconoscere come Gesù possa essere modello di empatia integrale: cioè di empatia cognitiva, affettiva, compassionevole, prosociale, salvatrice e spirituale.

Empatia cognitiva: Gesù comprende profondamente la difficile situazione sociale in cui versano i malati emarginati che si rivolgono a lui per essere sollevati dalle loro sofferenze e guarire dalle loro malattie. Perciò, Gesù vede e si rende conto del dolore dei due ciechi di Gerico che soffrono per il rifiuto e l’intolleranza della «folla che li rimproverava» (v. 31). Gesù “si mette nei loro panni”. Pertanto, al loro grido (v. 30), sceglie di fermarsi e di porsi in ascolto delle loro sofferenze (v. 32).

Empatia emotiva: Gesù accoglie con empatia i malati. Egli sente con le sue emozioni e i suoi sentimenti la loro sofferenza. Pertanto, con la sua domanda: «Che cosa volete che io faccia per voi?» (v. 32), Gesù dimostra un’accoglienza incondizionata e un ascolto empatico, lasciandosi toccare il cuore dal grido di disperazione e dall’angoscia di questi uomini: «Signore, che i nostri occhi si aprano!» (v. 33).

Empatia compassionevole: La comprensione empatica, cognitiva e affettiva della sofferenza dei ciechi commuove profondamente Gesù fin “nelle sue viscere”. Tale sentimento scatena in lui una compassione e una motivazione viscerale per dare un senso e una speranza alla loro vita. Pertanto, l’espressione «Gesù ne ebbe compassione» (v. 34), che si ritrova anche in altri passaggi del Nuovo Testamento, rivela in maniera chiara questa empatia compassionevole di Gesù.

Empatia salvatrice, spirituale e prosociale: La compassione di Gesù lo porta a compiere azioni e gesti autenticamente empatici, volti a sollevare questi uomini dalla loro sofferenza; ma anche per dare testimonianza della salvezza del regno del Padre celeste. Perciò, nel caso dei due ciechi, l’empatia salvatrice, spirituale, prosociale di Gesù si manifesta nell’atto di guarigione: «Toccò loro gli occhi ed essi all’istante ricuperarono la vista e lo seguirono» (v. 34).

L’empatia integrale di Gesù diventa quindi un modello ispirante per la praxis morale del discepolo di Cristo. Infatti, ci invita integrare sempre di più l’empatia cristiana, interiorizzando i valori del Vangelo e dell’amore-carità che contribuiscono allo sviluppo del nostro giudizio morale. Dobbiamo essere anche convinti che l’empatia di Gesù curi e guarisca le nostre ferite personali e relazionali. Così, davanti alle fragilità dei nostri fratelli e sorelle, arricchiti e fortificati da questa crescita umana e spirituale, potremo anche noi essere testimoni dell’empatia integrale di Gesù e della sua Speranza salvatrice.

Mario Boies, C.Ss.R., M.Ps. – (Fonte: alfonziana.org)

Quale idea di Dio trasmettono i credenti a coloro che non credono?

«Secondo me Dio dovrebbe tenersi al disopra delle meschinità. Non dovrebbe mostrare potenza, ma perdono. E non dovrebbe ispirare obbedienza, ma adorazione». Quale idea di Dio trasmettono i credenti a coloro che non credono? È una domanda che dovremmo farci perché è importante non solo essere credenti ma anche essere credibili. E credibili del fatto che adoriamo un Dio che è, sì, onnipotente, ma non di un’onnipotenza che annichilisce l’individuo, quanto che lo fortifica.

Così come dovremmo essere credibili del fatto che adoriamo un Dio che libera, non al quale dobbiamo ubbidire come un cagnolino al padrone. Benedetto XVI ha tenuto splendide catechesi sulla parola

adorazione, richiamando la radice etimologica latina di questo termine, che evoca la vicinanza alla bocca, organo umano con cui esprimiamo all’altro o all’altra il nostro amore.

Ecco, le parole citate all’inizio appartengono a Eric-Emmanuel Schmitt, tratte dal romanzo La donna allo specchio (e/o). E ci richiamano la nostra vocazione di credenti: con il nostro aderire al cristianesimo diamo l’idea che Dio sia un meschino mercante di benefici terrestri? O non piuttosto un Padre buono sempre pronto ad accoglierci nel suo abbraccio benedicente, come illustrato magnificamente dal famoso quadro di Rembrandt? Anche di Dio siamo responsabili.

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La fede è rischio, prova, confronto con il dubbio, esperienza di ricerca

La fede – lo abbiamo già visto – non è una certezza granitica, come mettere i soldi in banca in un conto corrente sigillato. Essa è rischio, prova, confronto con il dubbio, esperienza di ricerca. Anche Giobbe, l’innocente sofferente, ha avuto i suoi momenti di grande instabilità di fede, ma ha sempre mantenuto aperta e viva la relazione con il suo Creatore. Henry Bauchau, scrittore belga di lingua francese, ci dice qualcosa del genere nel suo romanzo Il compagno di scalata (e/o) mentre il protagonista vive la sofferenza della malattia della giovane nuora: «In quel momento pensavo che contasse solo l’amore di Dio, e che gli altri amori, maschili o femminili, fossero solo passeggeri, peregrini. Le cose sono andate diversamente. L’amore di Dio ha illuminato la mia vita con segnali brillanti e intermittenti. Le intermittenze di Dio, ecco la mia reale esperienza. Sono stato irradiato, talvolta illuminato, ma solo l’amore umano mi ha riscaldato».

Bauchau con questa affermazione ci insegna due cose: la prima, che la fede resta un dono gratuito e libero di Dio, una possibilità accordataci di poter guardare la vita con un terzo occhio divino; la seconda, che in queste «intermittenze» si manifesta la decisione dell’uomo di aderire a questa proposta divina.

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Agognata resurrezione

Dio tra le righe

Lorenzo Fazzini

Anche in quelle voci che radiografano l’eclissi di Dio nella cultura contemporanea, ebbene, anche lì il sacro si manifesta.

Quasi che si tratti di un magma nascosto, sotterraneo, perfino sottocutaneo, che talvolta esplode in mille rivoli, in cui la religiosità si manifesta talvolta come qualcosa da cui ci si è emancipati o più semplicemente un elemento di cui si ha nostalgia. Annie Ernaux è una delle più celebri scrittrici di oggi.

Francese, dalla scrittura cristallina, ha vinto il Premio Strega Europa per il suo libro Gli anni (l’orma). Qui troviamo una constatazione della Francia post-cristiana: «La religione cattolica era scomparsa dall’orizzonte quotidiano senza troppo clamore. Le famiglie non ne trasmettevano più né la conoscenza né gli usi. Eccezion fatta per qualche rito specifico, non se ne sentiva più il bisogno per affermare la propria rispettabilità». Però, come si diceva, carsicamente il bisogno di sacro riappare. Ernaux, nel libro L’altra figlia (l’orma), raccontando la scoperta del fatto che i suoi genitori avevano avuto un’altra bambina, morta a soli due anni, scrive rivolgendosi alla sorella defunta: «’Narrando della tua scomparsa a quella giovane madre, che l’ascoltava per la prima volta, nostra madre trovava il conforto di una sorta di resurrezione».

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Nelle braccia del mistero. Itinerario non religioso di ricerca spirituale

Adista

Nell’attuale contesto culturale, sempre più marcatamente post-cristiano, nel senso che il cristianesimo si lascia definitivamente alle spalle un modo ingombrante di occupare lo spazio religioso, al meno a livello di sensibilità comune, le stesse religioni perdono terreno nei confronti di coloro che cercano risposte ai grandi temi della vita. Non più, dunque, appello ad un sacro che appare sempre più sbiadito e non necessario nell’orizzonte della ricerca spirituale, ma sempre di più esigenza di risposte che abbiano un’attinenza con il vissuto quotidiano, in altre parole, con il realismo. Si parla spesso, nella storia del pensiero occidentale, di ricorsi storici, di alternanze di approcci alla realtà. E così, da un modo sacrale d’intendere il divino, che lo mantiene a distanza rivestendolo pesantemente di accessori desueti e pagani, si passa all’esigenza di cammini spirituali che s’intrecciano con le grandi tematiche esistenziali del vissuto quotidiano.

Il libro di Giorgio Borghi, Nelle braccia del Mistero. Itinerario non religioso di ricerca spirituale, edito dalle edizioni san Lorenzo di Reggio Emilia 2021, cerca di offrire qualche indicazione in questa direzione. Il percorso che propone nelle tre parti del libro è allo stesso tempo trinitario e biblico con l’originale caratteristica di presentare i personaggi e gli eventi biblici sempre con l’attenzione di non chiudere il discorso sul Mistero con affermazioni apodittiche. Il cammino, dunque consiste nel prendere per mano il lettore, per aiutarlo ad uscire da una visione religiosa del Mistero ed introdurlo in una dimensione esistenziale e, per questo motivo, il discorso deve continuamente stare attento al linguaggio, per non chiudere la riflessione nel già conosciuto. Abramo, in questa prospettiva, diventa il prototipo dell’uscita dalla logica del controllo del Mistero, che era la logica sottesa nell’evento di Babele (p.29). Anche l’esperienza di Mosè la si coglie in questo dinamismo d’incertezza nei confronti di Colui che si manifesta senza mostrarsi e la cui rivelazione del nome, più che risolvere l’enigma dell’identità, la amplia a dismisura. Accettare di mettersi in cammino verso il Mistero, come hanno fatto Abramo, Mosè, i profeti, significa avere il coraggio di abbandonare la tranquillità delle sicurezze, che la religione tenta di offrire, per rimanere aperti all’ignoto. In definitiva, “dobbiamo accettare questa nostra impossibilità di nominare il Mistero, rispettando i mille nomi con cui l’umanità può invocarLo” (p. 37). Questo tentativo di manipolare il Mistero e di ridurlo alla nostra misura umana, è visibile nell’esperienza del vitello d’oro, che manifesta in modo significativo il senso profondo dell’idolatria di Israele, che sta alla base della distruzione del tempio, perlomeno nella rilettura operata dai saggi d’Israele. Nella riflessione che Borghi propone, la distruzione del tempio di Gerusalemme assume un valore paradigmatico, “perché nel tempio si rispecchiava tutta la realtà di Israele, per cui il tempio distrutto significava la distruzione del documento di identità religiosa del popolo” (p.48). La ricostruzione del tempio, come sappiamo, invece di apportare la ricchezza dell’esperienza spirituale di un popolo costretto a vivere lontano dalla propria fonte religiosa, inasprirà l’apparato legale, soprattutto per mezzo della forza acquisita dal gruppo sacerdotale. Saranno i sacerdoti, infatti, a prendere il sopravvento nel nuovo tempio di Gerusalemme, appesantendo il popolo di Israele con leggi e culti, definendo sempre di più la vita religiosa a scapito della ricerca spirituale. Il profeta Isaia, non si stancherà di richiamare in modo duro la religione del tempio per le derive ipocrite in cui incorre. Sottolinea, infatti, Borghi che: “Non serve costruire il tempio, professare una religione, compiere tutti i suoi riti, per poi vivere una vita sbagliata” (p. 49).

La seconda parte del libro è dedicata all’accoglienza del Mistero così come si presenta nell’incarnazione, che ci propone, di fatto, “una logica assolutamente sconvolgente, per la quale il divino non è l’opposto dell’umano, l’immortale non è l’opposto del mortale e la perfezione non è l’opposto dell’imperfezione e il sacro non è l’opposto del profano” (p.53-54). La serietà della scelta dell’umano come spazio in cui si manifesta la divinità, conduce Borghi a centrale la sua riflessione sul Mistero così come si manifesta nell’Incarnazione sul cammino di Gesù compiuto nelle tentazioni. C’è una partecipazione del Mistero alla condizione umana, alle fatiche del vivere quotidiano, delle scelte da compiere. D’ora innanzi, sembra allertarci Giorgio Borghi, la strada per cogliere la presenza del Mistero nella storia degli uomini e delle donne, è quella di porre attenzione all’umanità di Gesù: “Lui ci salva mostrandoci come si può vivere bene, dandoci la forza d’animo, lo spirito corretto per riuscire a vivere e morire come Lui” (p. 59). Ed è nell’esperienza della vita quotidiana che, mentre sperimentiamo la possibilità dell’errore, di camminare per vie che ci fanno male, allo stesso tempo incontriamo il Mistero nelle vesti della Misericordia, che è allo stesso tempo padre e madre. È quello che si percepisce nella seconda tentazione di Gesù, che l’autore analizza utilizzando anche alcuni passaggi del Vangelo di Luca, primo fra tutti la parabola della misericordia. Nella vita quotidiana impariamo a donare misericordia per il fatto che l’abbiamo accolta, perché nella vita senza la misericordia di qualcuno, diventiamo persone dure e tristi. È nella vita di ogni giorno, affrontando le lotte quotidiane che sperimentiamo le nostre paure, tra le quali la possibilità dell’assenza del Mistero. È questo, secondo Borghi, che manifesta la terza ed ultima tentazione, che ha nella passione di Gesù il più alto momento. È in questa circostanza che il dramma del Mistero è vissuto da Gesù nella sua pienezza. L’autore fa notare che è proprio nel contesto della passione che l’evangelista Marco utilizza l’unica volta la parola ebraica Abbà, per esprimere il Mistero a cui il Figlio si affida totalmente, per affrontare l’ora tremenda senza sconti, ma vivendola pienamente nella propria umanità.

Nella terza parte l’autore mostra la presenza del Mistero nell’azione dello Spirito. Anche in questo caso vengono presi in esame alcuni brani del Nuovo Testamento, che permettono di comprendere come lo Spirito del Mistero ci liberi dalle ideologie – gli spiriti immondi -, dalla morale, dalle teologie che tentano di racchiudere il Mistero in definizioni chiuse, per fare spazio alla presa di coscienza della possibilità che tutti e tutte hanno di accedervi. Sino a quando rimaniamo legati ad una forma, ad una religione, non permetteremo al Mistero di rivelarsi nella sua apertura universale. Proprio in Gesù questa possibilità è visibile nel suo modo di agire, che non esclude nessuno, ma anzi diviene cammino di liberazione per tutti. “La missione – scrive Borghi – comincia dalla religiosa Gerusalemme, ma poi si amplia in regioni dove la religione giudaica non è più molto genuina, per arrivare dove non c’è più niente della religione originaria di Gesù o dei discepoli” (p. 97). Entrare in una prospettiva spirituale e anche cristiana non religiosa significa, in primo luogo prendere decisamente le distanze da tutti gli apparati sacrali che creano separazioni e differenze, per abbracciare la manifestazione del Mistero presente in Gesù che accoglie tutti. Per le persone religiose abituate ad identificare il Mistero con le norme e la morale religiosa, il cammino diventa più difficile, ma non impossibile. Questo cammino di liberazione è sottolineato dall’autore nell’esperienza dell’apostolo Pietro, che nell’incontro con Cornelio sperimenta l’apertura universalistica del Mistero e la scoperta che Dio non fa preferenza di persone (cfr. At 11,17), ma diviene possibilità di libertà per tutti e tutte le persone che lo desiderano. Papa Francesco ha ripreso in diverse circostanze quest’importante intuizione riproponendola come atteggiamento di fondo di coloro che si sentono chiamati a portare il Vangelo. Nell’Esortazione Querida Amazonia il papa scrive: “Occorre accettare con coraggio la novità dello spirito, capace di creare sempre qualcosa di nuovo con l’inesauribile tesoro di Gesù Cristo” (p.109). C’è, dunque, una grande possibilità che ci viene offerta nel cammino della nostra umanizzazione, che passa attraverso un percorso spirituale capace di liberarsi dalle infrastrutture religiose, dalle chiusure ideologiche e pregiudiziali delle teologie, dalle costruzioni morali che impongono pesi insopportabili. Il Mistero in quanto tale rimane alla portata di tutti coloro che si mettono in cammino alla ricerca di un senso della vita, attenti alle situazioni che la realtà presente manifesta. È in questo cammino che i cristiani, liberandosi dalla religione e dai residui pagani del sacro, hanno la possibilità di scoprire il Vangelo come spazio aperto all’incontro del Mistero.

La riflessione proposta da Borghi nel so bel libro è a mio avviso significativa per diversi motivi. Il primo è di tipo ecclesiale. È all’interno di un cammino spirituale e non religioso che è possibile cogliere la profondità della proposta di Gesù, che crea una comunità di fratelli e sorelle uguali. Il principio di uguaglianza, ripreso dal Concilio Vaticano II proprio nel documento sulla Chiesa (Lumen Gentium, 32), permette un cammino ecclesiale in cui tutti trovano spazio. La ricerca spirituale del Mistero, libera dalle rassicuranti definizioni teologiche e, per molti aspetti, idolatriche, permette di accogliere il fratello e la sorella nella comunità così com’è, senza pregiudizi culturali e religiosi. Il dibattito attuale sul tema dell’omofobia e del DDL Zan, troverebbe le comunità cristiane che s’ispirano al Vangelo e che provengono da quel cammino spirituale sopra descritto, non in difesa di quella dottrina che crea separazioni e non riesce a cogliere la dignità di Dio negli uomini e nelle donne, ma protesa a farsi casa accogliente di coloro che soffrono discriminazioni a causa della loro diversità sessuale. Questo spettacolo pietoso che stiamo assistendo in questi mesi, che ha coinvolto anche la Conferenza Episcopale, è frutto di quella visione religiosa che da secoli pretende incatenare la forza e la creatività dello Spirito in nome di una dottrina che, alla luce di questi fatti, più che venire da Dio, viene da uomini poco lungimiranti e animati da interessi personali. La lettura del libro di Borghi, che non ha pretese specialistiche, ma che intende condividere un cammino spirituale è, dunque da consigliare e da proporre. Buona lettura.

 

PS: il testo è possibile acquistarlo direttamente dalle Edizioni San Lorenzo.

Qui si trova il video in cui lo stesso Giorgio Borghi presenta il suo libro:

https://www.youtube.com/watch?v=95BF39P3Lug

Il Dio che perdiamo

Una premessa

La Newsletter n. 226 dell’8 luglio 2021 di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” si intitola “Il Dio che perdiamo” (opera di Raniero La Valle), inserendosi a pieno titolo nel dibattito sul post-teismo che Adista ospita da qualche anno ma che in questi giorni ha assunto una vivacità inarrestabile (link nel testo). Il nucleo del contendere di tale dibattito riguarda il Dio-persona: possiamo ancora intenderlo così, dato l’avanzare delle scienze e il sentire, sempre più critico e “adulto”, dell’umanità contemporanea? Proprio il “sentire critico” sta inducendo studiosi, credenti o dubbiosi, a porsi domande che per prima cosa mettono in discussione la necessità dell’esistenza delle religioni e, a seguire e conseguire, l’”identità” di Dio.

Un ragionare, questo, che, se articolato in risposte troppo radicali, fa sorgere in alcuni un doloroso senso di orfanità, associato al timore che anche il cristianesimo possa essere inghiottito – sospettano – in questa sorta di vuoto metafisico. Altri rispondono che no, Gesù Cristo non ha voluto creare una religione – voluta invece da sedicenti suoi seguaci e mantenuta, in alleanza anche con poteri temporali, fin oggi – e perciò la validità della parola di Gesù resta intatta e lascia intatto quell’umanesimo cristiano che è e rimane faro di fratellanza-amore-giustizia.

Un ragionare importante per la crescita spirituale; parlarne e poterne parlare non comporta giudizi e non depriva l’identità degli interlocutori, tanto meno lo strumento che ospita il loro generoso scambio di pensieri. (Eletta Cucuzza)

Carissimi,

grazie al “dossier sul post-teismo” curato da Enrico Peyretti, che pubblichiamo nella sezione “Dicono la loro” di questo sito, portiamo qui alla luce un tema finora passato sotto silenzio, che da tempo sta turbando gruppi cristiani anche a noi più vicini. Si tratta della questione che fa di Dio una nozione del passato, non più utilizzabile oggi: “Oltre Dio” è l’ultimo documento in cui è espressa questa posizione, è il terzo libro di una serie edita con dichiarata neutralità dall’editore Gabrielli, dedicata appunto al tempo che viviamo come successivo alla religione e perciò detto “post-religionale”, dove però è la neutralità stessa che fa problema: ne va infatti non solo dell’identità, ma del fondamento stesso dell’essere, non di Dio, ma della nostra relazione con lui.

L’oggetto stesso del dibattito è difficile ad essere definito, non c’è un limite, una soglia su cui alfine ci si possa attestare. Nel libro di Raniero La Valle, “No, non è la fine” (Edizioni Dehoniane), in cui il tema è già stata affrontato,  la questione è stata posta così: “Certo Dio è licenziato e accompagnato alla porta della città con tutti gli onori… (Ma) fatto sta che messo Dio tra i vecchi  attrezzi  da riporre, la strada è stata aperta per procedere allo smaltimento dei “miti”, che sono poi la creazione, il peccato, il messia, la redenzione: un accanimento da cui viene fuori un messaggio globalmente antibiblico. E se c’è stato qualche teologo volenteroso che nella ricerca di nuovi modelli cristiani ancora ha cercato di inalveare questo sommovimento nei parametri del Concilio Vaticano II e nella nuova prospettiva aperta dalla predicazione di papa Francesco (Victor Codina, “Cristiani in Europa”, in Adista-documenti, 11 luglio 2020), altri hanno rivendicato la radicalità del superamento necessario: il Concilio, papa Francesco sarebbero a loro parere ancora dei cambiamenti interni al vecchio computer; bisogna invece cambiare il computer stesso, il suo hard disk «che gira a vuoto, è pieno di virus e non consente nuove applicazioni» (Santiago Villamajor, “Riscattare il cristianesimo”, in Adista-documenti, 11 luglio 2020). Solo che l’hard disk da buttare via è il Vangelo stesso, nel suo contenuto inaudito, il pezzo da rimuovere è lo stesso mistero pasquale; e dunque a cadere sono la croce e la resurrezione, lo scambio trinitario, il dono dello Spirito, il discepolo che rimane, e l’anno liturgico che tutto ciò rivive e ripropone nel tempo. Cioè è il cristianesimo, comunque lo si dica riformato. Ebbene, il prezzo è troppo alto…”

La questione è aperta. Forse si potrebbe dire qui come alla base ci sia un equivoco di fondo sul contenuto stesso della disputa: per i neo-noncredenti collocare nel passato la questione di Dio vuol dire rifiutarne l’oggettivazione che l’ha resa tributaria del mito, della fantasia, dell’invenzione antropomorfa, l’ “Oggetto Immenso” fatto preda della ragione; e ne hanno i motivi. Ma col Dio pensato così i conti sono stati fatti da tempo, alla domanda sull’identità di Dio la risposta è quella di Gesù alla Samaritana,  Dio non va cercato su questo monte o su quell’altro, ma in Spirito e verità; la questione invece è quella del rapporto umano con lui, è la fede che lo coinvolge nella storia, è della fede che si può identificare un prima e un dopo (“il Figlio dell’uomo quando verrà troverà la fede sulla Terra?”); la domanda è sul senso e le implicazioni della fede di quanti credono in lui, è questo che appicca il fuoco alla storia.

E qui, su questo rapporto vitale con un “Tu” che ci ama, vale la notazione con cui Enrico Peyretti ha accompagnato il suo dossier per rivendicare il rapporto con Dio come “persona” : «Se ciò che abbiamo chiamato Dio non fosse comunicante, appellante, ispirante, in qualche modo parlante,  trasmittente una comunicazione significativa per lo spirito umano (cioè se non fosse persona), avremmo “deus sive natura” (infatti è una ipotesi): la bellezza, armonia, sensatezza, e anche cecità e violenza della natura. Ci sono, infatti, religioni della natura… Se non fosse persona, non avrebbe alcun senso l’atteggiamento umano di fede, affidamento, fiducia interiore e resistente ai colpi del caso, e della malvagità umana. Una fede che genera speranza, al di là di tutte le vicende storiche e biografiche… Se non fosse persona, non ci sarebbe la preghiera umana, che è anche il semplice sospiro, più grande di tutte la parole, davanti all’alba, al tramonto, al morire, al nascere, all’incontrare altri simili a noi, e accompagnarci nell’impresa della vita».

Se perdessimo questo Dio, possiamo aggiungere, perderemmo anche il Dio nonviolento che è il grande dono fatto all’umanità dalla Chiesa del Concilio, da Giovanni XXIII a papa Francesco ad Abu Dhabi alla preghiera nella piana di Ninive, e la violenza, a cominciare da quella religiosa, resterebbe inarginata.

Adista

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