Marco Mengoni, ‘dall’Eurovision arrivi un messaggio di pace’

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“Mi sarebbe piaciuto andare a Kiev: avrebbe voluto dire che la guerra era finita.

La musica a suo modo è un mezzo di pace e amore ed essere uniti qui significa comunque mandare un messaggio di pace.

Io sono contrario a qualsiasi guerra in atto nel mondo”. Marco Mengoni, con il brano vincitore al festival di Sanremo Due Vite (appena certificato triplo platino), è pronto a salire sul palco della Liverpool Arena dove rappresenterà l’Italia per l’Eurovision Song Contest al via martedì con le semifinali (l’Italia ha di diritto accesso alla finale in programma sabato 13). La manifestazione è trasmessa dalla Rai. Mengoni è alla sua seconda partecipazione dopo quella del 2013 con L’Essenziale. “Rispetto a dieci anni fa – racconta – mi sto divertendo di più. La sto vivendo meglio, con meno pressione e più voglia di godermela. Ora c’è più esperienza e so gestire meglio l’emotività”.
Del voto e della gara, del resto, dice di non preoccuparsi molto. “Mi interessa relativamente. La gara è qualcosa che considero un po’ in maniera negativa, mentre cantare non lo è mai”.
Per portare sul palco della Liverpool Arena il suo mondo Marco Mengoni ha scelto l’arte di Yoann Borgeois, artista internazionale (di recente ha collaborato con Harry Styles, con Pink!, e ancora con Coldplay, Serena Gomez, Missy Elliot and FKA Twig), un performer, coreografo, direttore artistico, acrobata.
L’Eurovision sarà occasione per l’artista di allargare il suo pubblico anche in vista di un tour europeo di otto date in autunno che toccherà Spagna, Belgio, Olanda, Francia, Germania, Austria, Svizzera. (ANSA).

ansa.it

Musica / Massimo Ranieri: devo a Dio il mio successo


Fonte: famigliacristiana.it
Finalmente incontriamo per Credere Giovanni Calone, in arte Massimo Ranieri. L’occasione è di quelle belle: l’uscita del suo nuovo album, Tutti i sogni ancora in volo (Warner Music). Un album di dodici brani inediti scritti da nomi importanti della musica italiana e da giovani promesse, fortemente voluto da Massimo Ranieri dopo oltre vent’anni di musica napoletana. È l’album di un altro “nuovo inizio”, con quel titolo che richiama la strofa di una delle sue canzoni più amate, Perdere l’amore, nonché il suo ultimo libro, pubblicato da Rizzoli lo scorso anno. Perché, dice, «il sogno di continuare a vivere la vita non mi abbandona: non smetto di sognare, e ringrazio Dio per questo e per tutta la mia vita meravigliosa. Sogno di sognare sempre».

LA CADUTA “PROVVIDENZIALE”
Lo scorso 6 maggio, un grave incidente lo mette fuori gioco per un lungo periodo: durante uno dei suoi spettacoli al Teatro Diana di Napoli, l’artista cade dal palco, perdendo l’equilibrio: si rompe quattro costole, l’omero e un polso. «C’è il video della caduta, ma non voglio vederlo: mi sembrerebbe di rivivere tutto il dolore provato. So soltanto io quante notti sono stato in poltrona perché non riuscivo a dormire: non trovavo la posizione. Mi faceva male dappertutto. E la ripresa è stata lunga. È stato un momento buio: ho capito poi che era una manna dal cielo. Era stato il buon Dio a tirarmi per la giacca, per avvertirmi, come mi avesse detto: “Non ti vuoi fermare, capatosta? Mo’ ti fermo io”. E aveva ragione, dovevo fermarmi, perché ero davvero molto stanco. Mi ha ricordato un po’ mia mamma che quando andavo a Napoli diceva: “Guaglio’, devi riposarti un poco figlio mio, sei stanco”, e io le dicevo: “Appena finisco queste serate…”, ma non le davo mai ascolto. Ecco, è arrivato Lui». Riprende l’artista: «È stato per me un periodo di riflessione: quei 50 giorni fermo e la lunga riabilitazione li ho vissuti come un giusto riposo − anche se forzato e doloroso − che mi ha fatto capire tante cose: innanzitutto che anche se me ne sento 30, ho già compiuto 71 anni e il fisico, certe volte, non risponde più come prima. Bisogna farci i conti: devo tener presente che non posso pretendere troppo da me stesso come quando ero un ragazzo».

TENERE STRETTO IL BUONO

«E poi ho compreso quanto sia importante accorgersi delle cose che ti capitano, tenere strette quelle buone e lasciarsi alle spalle le zavorre, ciò che conta poco. Non dico che comincio a fare i conti, ma inizio ad acchiappare le cose a cui prima non avrei fatto caso, a dire “questa mi serve” oppure “questa non mi serve”. Sempre con il sogno di continuare a vivere e di dare la giusta importanza alla vita. Quella caduta, che poteva davvero finire peggio, è stata la pacca di Dio sulla mia spalla. Nessuno però riuscirà a togliermi le mie corsette sul Lungotevere, quelle no!», ride. Giovanni Calone “il buon Dio” lo nomina spesso e lo ringrazia, e non è un modo di dire, un intercalare, ma è un riferirsi a un amico, a Qualcuno che ha sempre sentito vicino, fin dai primi anni della sua esistenza. Nato a Napoli, nel rione Pallonetto di Santa Lucia, il 3 maggio 1951 in una famiglia tanto povera quanto unita, Giovanni è il quinto degli otto figli di Giuseppina Amabile e Umberto Calone. Abitavano tutti in un’unica stanza al quinto piano, il ballatoio era la cucina e c’era una solidarietà tra vicini che Massimo non ha più trovato e che rimpiange.

L’INCONTRO CON DE SICA
Della sua famiglia Massimo parla con amore e tanta gratitudine, ricorda la pasta e patate così odiata che la madre metteva insieme con fatica, della fame in agguato, dei primi lavori a sette anni come garzone di una vineria, poi fattorino, ragazzo di bottega, commesso, barista e intrattenitore nelle cerimonie. E, anche, dell’incontro con Vittorio De Sica che, ascoltandolo cantare in italiano, lo rimprovera: «Figlio mio, ma come, tu che sei napoletano, e con la voce che ti ritrovi… Dovresti cantare Napoli!». Il resto è storia: della musica, del teatro, del cinema e della televisione, perché da allora Massimo Ranieri non si è più fermato. «In ogni cosa c’è sempre Dio, che mi ha dato un grande dono, un talento che non va sciupato: è come aver ricevuto una chiamata, la più importante. Non sprecare i miei doni è il mio modo di ringraziarlo, è la mia risposta di responsabilità. Perché ha scelto me tra milioni di persone. Dietro a ogni successo, io sento l’intervento di Dio: e vale per tutti. Qualsiasi sia la propria vocazione».

L’ESEMPIO DEI GIOVANI

Una fede, quella di Massimo, che non lo abbandona e che gli arriva dai genitori: «La fede è tutto. Ti dà coraggio, ti fa sentire più forte. Non ti fa dimenticare gli altri. Chi ha fede crede sempre nel prossimo e cerca di aiutare il più debole, chi in quel momento ha più bisogno. Nella vita ci sono momenti belli e brutti: la fede ti aiuta ad affrontarli. Quando vivi dei momenti belli bisognerebbe accorgersene: è lì che vince la fede e ti mette le ali. Ma anche nelle difficoltà ti indica la possibilità di giornate con il sole e non con le nuvole». Così, per tornare al titolo dell’album, per Massimo Ranieri i sogni sono ancora in volo, tutti lì ad aspettarlo: «Sto lanciando il disco ma sto già pensando al prossimo progetto: è un sogno che ho da sempre. Riuscire a fare un concerto accompagnato da una grande orchestra di 120 elementi: sono 47 anni che ho questo desiderio!», e batte il pugno sul tavolo, ridendo, «Ho la testa dura!». «Mia madre ci ha messo nove mesi per mettermi al mondo, mio padre è quello che mi ha creato come cantante, ha creduto in me, mi ha permesso di diventare l’uomo che sono, ha continuato a sognare con me: ma io dico sempre grazie Patatè (Patatèrno: Padreterno in napoletano, ndr) che mi hai messo al mondo. Grazie a Dio ancora mi diverto e non mi annoio mai, magari sono stanco, ma la mia fede è questa: mi hai messo al mondo e mi stai facendo fare un viaggio meraviglioso e incredibile, e nessun sogno poteva regalarmelo».

CANTANTE, ATTORE E SHOWMAN
Cantante, attore, conduttore televisivo, showman e regista teatrale italiano. La carriera di Massimo Ranieri è lunga e ricca di successi. Nel 1964, a soli 13 anni, con lo pseudonimo di Gianni Rock incide il suo primo disco e sbarca a New York in tournée come spalla di Sergio Bruni. Nel 1969 vince al Cantagiro con Rose rosse. Nel 1988 vince il Festival di Sanremo con il brano Perdere l’amore. Ha pubblicato 31 album e 36 singoli, raggiungendo anche “picchi record” di vendite, segno dell’amore che il pubblico nutre per lui: con quattordici milioni di dischi è tra gli artisti italiani che hanno venduto di più nel mondo. Ha avuto alcuni amori importanti ma non si è mai sposato. Ha una figlia, Cristiana, che lo ha reso nonno.

CHI É
Età 71 anni
Professione Artista a tutto tondo
Famiglia Proviene da una famiglia umile e credente
Fede Sincera, ereditata dai genitori

ROVIGO Joelle, dalla parrocchia a XFactor: «Canto per trovare la mia luce»

Il talento per il canto, scoperto in oratorio e coltivato poi con passione, l’ha già portata lontano: sino all’ambito palco di XFactor. Giorgia Turcato, in arte Joelle, è stata una delle rivelazioni della più recente edizione del talent show di Sky, nel quale si è fatta apprezzare dal pubblico arrivando a un passo dalla finalissima. Per la 21enne di Lendinara (Rovigo), cresciuta in parrocchia e approdata poi in tv, un traguardo prestigioso, ma anche un punto di partenza.

Che emozioni hai provato davanti a quella platea?

Nelle prime fasi, alle audizioni in particolare, ero molto emozionata perché mi esibivo davanti a tante persone e anche per il fatto di essere giudicata. A quest’ultimo aspetto però non ci ho mai pensato troppo, perché io ero là per fare quello che amo da sempre: cantare. Nel li-

ve invece l’emozione si è un po’ stemperata, perché ho vissuto più la dimensione dello show.

Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

La consapevolezza di quanto sia difficile e bellissimo allo stesso tempo il mondo della musica. Si è rafforzato in me il desiderio di mettercela tutta, di continuare su questa strada e di trasformare il mio sogno in un lavoro. Bisogna impegnarsi ed essere i primi a credere in se stessi. Dopo il programma si torna alla normalità, ma con più grinta e con il desiderio di farcela.

A XFactor hai raccontato di aver scoperto il tuo talento in oratorio… Sì, ho iniziato a cantare da piccola, a 5 anni, in un coro oratoriale di voci bianche a Badia Polesine, assieme a mia cugina che già lo frequentava. Da lì ho capito quanto volessi coltivare questa mia passione. Così, sempre con la Fondazione “Musica al centro”, ho continuato quell’esperienza e, dopo circa dieci anni, sono passata a una scuola di musica di Lendinara, il mio paese. Ora invece prendo lezioni private da un insegnante.

Cosa ricordi di quel periodo?

È iniziato tutto con grande spontaneità, quasi come un gioco. La musica in oratorio era qualcosa di interattivo, assieme alle maestre preparavamo anche le prime recite. Ricordo in particolare che, una volta, mi chiesero di cantare in chiesa l’Ave Maria come solista. Ero piccina ed emozionatissima. Eravamo un bel gruppo. Dà lì è iniziata la mia passione per il canto.

A XFactor hai dedicato il tuo singolo “Sopravvissuti” a tuo fratello. Perché?

Sopravvissuti l’ha scritta per me Ginevra Lubrano, con il team del cantante Mahmood. Ho avuto la fortuna di sentire subito il testo molto affine a me. “Sopravvissuti a un brutto tempo-rale”, canto nel brano e questa immagine raffigura quel che ho vissuto. L’anno prima di iscrivermi a XFactor è stato molto difficile per la mia famiglia, mio padre si era ammalato e in quel periodo siamo stati una luce, l’uno per l’altro. Tutti abbiamo una luce nella nostra vita, una persona speciale che ci dà forza. Il brano mi trasmetteva un senso di rinascita, l’ho dedicato a mio fratello perché in quei momenti è stato lui la mia forza. È una canzone nella quale si possono riconoscere tutte le persone che hanno attraversato un periodo difficile e ne hanno comunque tratto qualcosa di positivo.

Ora a cosa stai lavorando?

Sto per riprendere le lezioni di canto ma in particolare mi sto concentrando su quello che chiede il mercato musicale. Bisogna avere sempre nuove idee, scrivere tante canzoni, e in base a quello rivolgersi poi ai discografici più attenti al tuo progetto. La cosa più bella, alla quale mi piacerebbe arrivare, è fare dei concerti con solo mie canzoni. Sto lavorando molto, spero di poter pubblicare presto i miei inediti così che in tanti possano conoscermi davvero non solo come persona, ma anche come artista.

 

Bach: Oratorio di Natale

Per un ascolto integrale dell’opera di Bach, si suggerisce la registrazione di una esecuzione dal vivo – con strumenti d’epoca e coro di bambini – diretta dal maestro Nikolaus Harnoncourt (Parti I-IIIParti IV-VIlibretto e partitura).

tratto da settimananews.it

È un grande piacere poter presentare l’Oratorio di Natale – uno dei capolavori di Johann Sebastian Bach – dopo aver scritto, nella scorsa Quaresima, della Passione secondo Matteo.

Si tratta di un ascolto naturalmente diverso per l’atmosfera del tempo liturgico: se la Passione è permeata da sentimenti di compianto, l’Oratorio di Natale è pervaso quasi interamente – e sottolineo il quasi – dal sentimento della gioia.

La divina incarnazione di Dio nel bambino Gesù è segnata pure da una vena di tristezza, che prefigura la sofferenza nella piena assunzione della natura umana con tutta la sua fragilità, sino alla morte. Possiamo dire dunque che questa opera di Bach sia immersa nell’atmosfera del “già e non ancora”, così come tutta la liturgia del Natale di Cristo è immersa nello stesso clima.

Nel tempo di Natale

Mi è venuta, per quest’opera bachiana, la strana definizione di Oratorio “diffuso”, nel senso che, a differenza di altri grandi Oratori – quali Il Messiah di Haendel da sempre eseguito dall’inizio alla fine in un’unica soluzione – il Weihnachtsoratorium è stato concepito per una esecuzione in sei diverse giornate o festività del Tempo del Natale.

Ciò porta all’interessante pensiero che questa musica ci guidi ad attraversare il tempo della narrazione “storica” evangelica, oltre che col passo della liturgia, con i passi progressivi del nostro cammino spirituale, nel corso della nostra vita.

Al principio della partitura sta evidentemente l’ordine cronologico degli eventi narrati dai vangeli di Matteo e di Luca, alcuni dei quali consumatisi nell’arco di poche ore – la nascita di Gesùl’arrivo dei pastori e l’annuncio degli angeli – altri invece – quali la visita dei magi e la fuga in Egitto – sviluppatisi, a buon senso, nella misura di anni.

Nei vangeli tutto ciò occupa lo spazio di poche pagine: una lettura secca potrebbe prendere non più di un quarto d’ora, mentre dalla liturgia questi brani sono sapientemente distribuiti nel ben più lungo Tempo del Natale – in tutte le chiese – ottenendo un effetto di amplificazione, ovvero di contemplazione, di ciascun singolare momento.

Bach, nell’Oratorio di Natale, tiene dunque vivo un continuo scambio di tempo tra la narrazione evangelica, la celebrazione liturgica, la musica, il canto e la vita reale: se la lettura dei brani, sia pure intonata con i recitativi prenderebbe ancora pochi minuti, coricoraliarie, ecc. ne dilatano il tempo, nel verso di un tempo senza tempo, se così si può dire.

La definizione “Oratorio” non è qui utilizzata da Bach nella sua accezione musicale più classica, affermatasi dall’Italia del ‘600 in tutta l’Europa barocca: Bach intende l’Oratorio in una forma ancora molto legata alle attività paraliturgiche e liturgiche del suo tempo e del suo luogo.

Nell’Oratorio di Pasqua – uno dei tre indicati come tali nel catalogo – Bach mantiene il carattere narrativo mettendo in primo piano figure che dialogano tra loro, peraltro in maniera piuttosto libera, sugli eventi evangelici, mentre nell’Oratorio di Natale – e in quello della Ascensione – pone in primo piano la presenza di un evangelista, ossia di un narratore che recita il testo evangelico nella sua spoglia verità.

I tre Oratori bachiani sono dunque riferiti ai tre momenti fondamentali dell’anno liturgico: NatalePasqua e Ascensione. Possiamo lamentare il fatto che Bach non abbia composto un Oratorio anche per la Pentecoste. Abbiamo comunque – se non un completo Oratorio – alcune sue bellissime Cantate sacre per la festa di Pentecoste.

In ognuno dei tre Oratori, Bach ha lasciato una sua impronta originale. Li accomuna, in ogni caso, l’ampio uso della parodia: un termine che, in italiano corrente, trasmette connotazioni piuttosto negative, nel verso della caricatura, della deformazione di un originale o della produzione di scarso pregio.

Non è questa evidentemente la giusta visione in ambito musicale, specie per quanto riguarda Bach. Per parodia si intende innanzi tutto la sostituzione di un testo – in una composizione musicale già realizzata – con un altro testo.

Se concepiamo il rapporto testo-musica in maniera rigida – tanto migliore il risultato quanto più stretto il rapporto tra i due termini – siamo indotti a pensare che il riutilizzo di una composizione musicale per un altro testo sia semplicemente un modo per guadagnare tempo.

Ma nel caso di Bach, come di altri grandi musicisti, la parodia non è per nulla un atto di fretta o di disimpegno, bensì di valorizzazione della parte migliore della propria creazione musicale, sempre al servizio della parola e del suo senso. In realtà, Bach era molto critico nei confronti delle proprie composizioni e, pertanto, era perfettamente in grado di discernere, trattenendo le cose migliori e reimpiegandole con risultati sempre di altissimo livello.

Teniamo conto poi del valore intrinseco della musica al tempo di Bach. Non c’era possibilità di riproduzione seriale ed ogni esecuzione richiedeva risorse ed investimenti notevoli: negli organici, nell’orchestra, nei cori, nei solisti, ecc. La sola possibilità di far esistere la musica era l’esecuzione. Perciò, per non dimenticare le composizioni meglio riuscite, era normale ricorrere al riutilizzo.

Resta la complessità di queste opere. L’idea di comporre Oratori raggiunge Bach in un periodo relativamente avanzato della sua produzione, tra il 1732 e il 1735, attorno alla cinquantina d’anni, nella piena maturità, quando i rapporti con i suoi datori di lavoro – ossia le autorità civili ed ecclesiastiche di Lipsia – erano parecchio deteriorati.

Probabilmente il nostro non era persona con cui fosse facilissimo andare d’accordo. Sappiamo che tendeva ad arrabbiarsi, ma che ciò avveniva quando non era posto nelle condizioni di poter lavorare al meglio. Ritengo che le sue non fossero bizze ma legittime rimostranze, anche e giustamente, di carattere economico, per sé e per la sua numerosa famiglia. I suoi datori di lavoro hanno guardato, come spesso succede, al risparmio, ma, soprattutto, non hanno capito la grandezza del musicista che stavano impiegando.

È possibile che Bach abbia voluto conferire dunque dignità di Oratorio a composizioni sparse, alcune delle quali non recentissime, con conseguente complessità di organizzazione della partitura.

Come ho detto, nel Weihnachtsoratorium di Bach c’è la presenza del testo attinto direttamente dalla Scrittura, riportato integralmente nei passi atti a narrare gli eventi, proprio come nelle sue Passioni, secondo Matteo e secondo Giovanni, a cui si accompagnano parafrasi, citazioni, adattamenti. Abbiamo perciò qui, come appunto nelle Passioni, una voce guida, ossia quella dell’evangelista.

In questo senso è del tutto giustificato l’uso della definizione di Oratorium, poiché originariamente sinonimo di historia narrata dall’historicus: per cui l’evangelista è il testimone e il cronista veritiero. A conferma, l’evangelista si esprime col recitativo secco, col solo accompagnamento del basso continuo, innovazione, questa, a modo di sottolineatura del tono di lezione ecclesiastica ex cathedra.

Il nostro Oratorio è stato composto per il tempo natalizio a cavallo tra il 1734 e il 1735: in questo caso, a differenza di molti altri, non abbiamo dubbi circa la data, poiché è stata apposta di suo pugno da Bach nel manoscritto autografo.

Per l’esecuzione successiva alla prima o alle prime, come purtroppo è spesso accaduto alla musica di Johann Sebastian Bach, si è dovuto attendere più di un secolo, sino al 17 dicembre 1857. Nella circostanza la caratteristica originaria dell’Oratorio era già andata perduta: la scansione sulle sei giornate o festività è stata compattata in un solo giorno, tra l’altro precedente il Natale. Nell’arco di un secolo erano evidentemente mutate le modalità di ricezione dell’opera.

A noi oggi il Weihnachtsoratorium non appare tuttavia un raggruppamento artificioso di cantate, bensì una cantata organica suddivisa in sei parti. Lo stesso Bach ha distinto le sei tappe dell’Oratorio in una prima sezione e in una seconda sezione tra loro collegate. Perciò ha senso eseguire oggi l’opera da cima a fondo nella stessa serata, anche se il contesto storico è molto diverso da quello dell’origine.

È possibile cogliere maggiormente l’unitarietà “teologica” dell’opera, a partire dallo sviluppo della narrazione evangelica attinta dal secondo capitolo di Luca (dal versetto 1 al 21, per le Parti I-IV) e dal secondo capitolo del vangelo di Matteo (per altri 12 versetti per le Parti V-VI). L’omogeneità del materiale musicale si manifesta nella ripetizione di alcuni elementi fondanti, quali alcuni corali.

La lettura evangelica corrisponde, in buona misura, alle letture prescritte dalla liturgia nelle festività del Tempo di Natale, ma con una importante eccezione poiché, nella domenica successiva al capodanno, nella seconda di Natale, la liturgia avrebbe prescritto la narrazione della fuga in Egitto. Naturalmente questa non può “accadere” prima dell’Epifania, ossia prima della visita dei Magi: per questo motivo nell’Oratorio non ritroviamo il testo della fuga.

Al tempo di Bach, dunque, l’esecuzione dell’Oratorio era precisamente distribuita nei seguenti giorni: il giorno di Natale il 25 dicembre, il giorno di Santo Stefano il 26 dicembre, il giorno di san Giovanni apostolo il 27 dicembre, quindi il giorno della festa della circoncisione di Gesù, ossia il 1° gennaio – per noi cattolici solennità della Santissima Madre di Dio -, il giorno della domenica successiva al capodanno e il giorno dell’Epifania il 6 gennaio.

Consideriamo che al tempo di Bach in quasi ognuno di questi giorni erano previste due esecuzioni: nel giorno di Natale del 1734 la prima esecuzioni della Parte I è avvenuta, al mattino presto nella chiesa di san Nicola e al pomeriggio in quella di san Tommaso, le due chiese di Lipsia; il 26 al contrario, per la Parte II: quindi al mattino in san Tommaso e al pomeriggio in san Nicola; per fortuna il 27 le compagini hanno fatto una sola esecuzione al mattino nella chiesa di san Nicola della Parte III, ma, già a capodanno, hanno eseguito al mattino in san Tommaso e al pomeriggio in san Nicola la Parte IV, e così via. Era veramente un tempo molto faticoso – quel tempo – per i musicisti!

Alle letture dell’evangelista in recitativo si affiancano le arie, i corali, i cori, sul modello sostanziale della Lectio divina tradizionale: ossia, dopo la lettura (recitativo), la meditazione (aria), la preghiera (corale) o la preghiera condivisa (coro), perché la risposta contemplativa all’ascolto non può essere soltanto del singolo, bensì della comunità cristiana. Sommando i brani staccati che compongono l’Oratorio di Natale si arriva al numero 64: un bel numero!

Tra i corali significativo è il ricorso a quel corale che noi ora immediatamente associamo alla Passione secondo Matteo (Oratorio di Natale e Passione). Dopo la nostra introduzione, ciò non dovrebbe stupire più di tanto. Per i contemporanei di Bach, questo corale non era necessariamente individuato come il corale della Passione.

Ricordiamo il ricorso alla parodia musicale. Ricordiamo, come pure anticipato, che il tema della passione e della morte non è qui affatto fuori luogo. Tanta iconografia orientale del Natale ci propone infatti la mangiatoia a forma di bara o la grotta di Betlemme a sembianza del sepolcro di Gerusalemme.

Un altro corale che ritorna due volte, ma in maniera più prevedibile, è dall’alto dei cieli sono sceso, un corale di Lutero.

Il ricorso massiccio alla parodia letteraria ha evidentemente comportato l’intervento di un librettista preparato. Non sappiamo chi sia stato il librettista dell’Oratorio di Natale, ma abbiamo buone ragioni di ritenere che si tratti del solito librettista di Bach, Henrici (Picander): suo grande collaboratore, poeta, particolarmente abile nel realizzare parodie adatte per essere musicate, poiché musicista lui stesso.

Il materiale originale da cui provengono le musiche dell’Oratorio di Natale sono cantate profane composte da Bach in circostanze celebrative dei governanti della zona. Personalmente ritengo che il doppio utilizzo – sacro e profano – delle musiche, da parte di Bach, sia stato previsto da subito e che quindi che non si sia trattato di ripensamenti successivi. In tal caso, l’impressionante corrispondenza tra il testo e la musica nel nostro Oratorio si spiega con l’abbondanza e la qualità del materiale musicale già a disposizione, in cui Bach ha potuto trascegliere le musiche più adatte allo scopo.

Nell’Oratorio di Natale sono utilizzate cantate profane composte nei primi anni ’30 del secolo. Troviamo brani, ad esempio, della cantata BWV 213, Ercole al bivio, scritta per il compleanno del principe Friedrich Christian di Sassonia. Ci sono poi altre parodie, nel senso tecnico di cui ho detto: praticamente quasi tutti i brani sono parodiati, a eccezione dei corali.

Ripeto che ciò non deve fare pensare a superficialità o fretta del compositore: quando Bach non era soddisfatto del risultato musicale ottenuto, lo metteva da parte e ripartiva da capo. Ad esempio, l’aria del contralto nella Parte III del nostro Oratorio – Racchiudi, o mio cuore, questo miracolo benedetto – avrebbe dovuto andare sulla musica di un’aria della cantata BWV 215, ma Bach si accorse che quella musica non funzionava a sufficienza per quel testo, per cui scrisse una nuova aria. Non mancò tuttavia di impiegare quella stessa musica per l’aria del basso nella Parte V, Illumina i miei cupi sensi.

Risulta piuttosto evidente – in questo lavoro di Bach – la sua volontà di introdurre nuovi generi musicali: ad esempio, il recitativo accompagnato dal basso continuo in funzione di raccordo tra la Lectio dell’evangelista, l’aria del fedele orante e il corale che esprime la pietas collettiva.

Di notevole interesse innovativo sono poi alcune combinazioni tra il recitativo e il corale, come al numero 7 della Parte I e quindi ai numeri 38-40 della Parte IV, che incorniciano l’aria in eco del numero 39 .

Per concludere questa breve introduzione, invito ad ascoltare il brano che apre il Weihnachtsoratorium, il più noto: Gioite, esultate! , una vera esplosione di gioia festiva, tipica di Bach. Il pensiero va pure all’incipit del Magnificat bachiano nella versione BWV 243, che ha, più o meno, lo stesso organico e la stessa tonalità: la tonalità detta della regalità.

Ma la regalità del bambino che nasce – così come della Madre che lo mette alla luce – non è quella, stucchevole, che accompagna i potenti della terra: è piuttosto quella della umile grandezza, della leggerezza che abbraccia, della dolcezza che pervade.

  • Il presente testo è frutto della trascrizione – curata da Tiziana Bacchi e Giordano Cavallari – di una presentazione verbale, rivista dalla relatrice.