DECEDUTA IN CAMERUN MARIA NEGRETTO, LA MADRE TERESA D’AFRICA

Famiglia Cristiana

La missionaria aveva 83 anni e da oltre cinquanta lavorava per sollevare le pene del popolo camerunese. Cure domiciliari nei villaggi, apertura di dispensari, cure palliative, educazione e assistenza dei carcerati le opere che ha avviato.

È deceduta la sera del 21 luglio 2021 a Douala (Camerun) Maria Negretto (nella foto sopra), Annunziatina consacrata nell’istituto secolare Maria SS Annunziata appartenente alla Famiglia Paolina, missionaria in Camerun dal 1969. La “Santa Teresa d’Africa”, come qualcuno l’aveva ribattezzata, stava rientrando in Italia per un periodo di cure, essendo molto provata nel fisico.

Era nata il 5 marzo 1938 a San Biagio di Argenta, in provincia di Ferrara. Per oltre 50 anni ha vissuto in Camerun, dedicando la propria vita ai poveri e agli ammalati. Dopo una breve esperienza vocazionale nelle Figlie di San Paolo (le “Paoline”), ottenuto il diploma di infermiera professionale alla fine degli anni ’60, Maria ha lavorato nel reparto di Pediatria dell’Ospedale di Rimini per qualche tempo. «Dentro di me sentivo una forza che mi spingeva verso i più deboli, quelli ai margini, grazie anche all’insegnamento della mia famiglia e di mia madre che, anche in tempi di difficoltà e povertà, era sempre disponibile ad aiutare un bisognoso quando si presentava alla porta di casa», raccontava ai volontari dell’“Associazione Maria Negretto”, che dal 2006 l’hanno sempre sostenuta materialmente e spiritualmente. E così, aderendo alla proposta di un’associazione italiana attiva in Camerun, nel 1969 partì per il paese africano. Il “mal d’Africa” la colse subito, tanto che decise di fermarsi anche dopo la scadenza dell’anno di volontariato.

Tenace e determinata fin da piccola, nata in una famiglia numerosa con dieci fratelli (di cui uno, Giuseppe, sacerdote diocesano a Ferrara), era abituata al lavoro duro. La prima tappa del suo viaggio nel dono di sé è stata a Dschang, a una sessantina di chilometri da Bafoussam, la terza città del Camerun. Si curò di alcuni bambini rimasti orfani durante il parto.

Nei primi anni ha girato a piedi per i villaggi della zona intorno a Bafoussam, curando i malati, e fra questi soprattutto i lebbrosi, esclusi dalla vita comunitaria, e facendo lezioni di igiene alle mamme in un tempo in cui molti bambini morivano di disidratazione dopo poche normalissime crisi di diarrea. Sempre aiutata dall’Italia, Maria ha creato due dispensari (il primo a Bankoup e l’ultimo a Baleng), che sono cresciuti nel tempo entrando nella rete sanitaria diocesana e diventando, con i loro laboratori, dei centri di eccellenza per le popolazioni viciniori. «Lo scopo principale del volontariato non è quello di prestare assistenza, ma di educare all’autosufficienza», ebbe modo di dire. E soprattutto di fare.

Tra le opere di questa instancabile missionaria c’è la creazione di una rete di assistenza e di aiuti materiali portati nel carcere di Bafoussam (acqua corrente, cibo, cure mediche). Sono tanti i minori che ha aiutato e riscattato una volta usciti dalle mura della prigione, anche grazie ai suoi buoni uffici: come la “vedova” nell’episodio evangelico, sostava per ore intere davanti alla porta del giudice per far rilasciare qualche ragazzino catturato e imprigionato in flagranza di reato.

L’ultima opera realizzata è stata l’implementazione di un sistema di cure palliative nei suoi dispensari. Dopo aver visto negli anni tante persone morire tra enormi sofferenze, è riuscita, grazie alla collaborazione con alcuni ospedali italiani, a introdurre una medicina di base per accompagnare alla morte, restituendo dignità a tante persone.

Negli ultimi anni aveva affidato una fattoria per il recupero dei minori ex carcerati a Soupken, in piena campagna, alla Comunità Papa Giovanni XXIII.

Maria Negretto resterà sempre nella memoria di chi l’ha incontrata. La ricorderanno i sacerdoti della diocesi di Bafoussam (contribuì ad esempio a completare il campanile della cattedrale, nei cui pressi abitava), i medici e gli infermieri che ha formato, i tanti uomini e donne che ha incrociato nel cammino, i suoi innumerevoli amici in Italia, le sorelle Annunziatine che non le hanno mai fatto mancare il loro sostegno.

L’oro del Congo che non arricchisce il Congo: un focus di “Africa”

Adista

“Il business indisturbato” e in continua espansione dell’oro nella Repubblica Democratico del Congo è al centro del “focus” pubblicato il 28 settembre su Africa, la rivista missionaria dei padri bianchi.

Cresce il «commercio illecito dell’oro estratto dalle miniere artigianali della Repubblica Democratica del Congo», spiega la giornalista Céline Camoin nell’approfondito articolo. E anzi, «la spoliazione delle risorse naturali del gigantesco territorio, sebbene denunciata ormai infinite volte, da decenni, continua indisturbata».

La riflessione presne le mosse dal documento Les intermédiaires, recentemente divulgato dall’organizzazione canadese Impact, che «dedica particolare attenzione alla catena che collega i minatori agli acquirenti. Una catena che di fatto rende nulli, o quasi, gli sforzi compiuti per mettere ordine e legalità nella filiera».

Gli intermediari che intendono rispettare le linee guida dell’Ocse sulla due diligenge, dimostrando che produzione e commercializzazione delle materie prime non sono “sporchi di sangue”, incontrano particolarei difficoltà, si legge nel rapporto di Impact.

Difficile per le autorità congolesi controllare e certificare tutti i siti (nel 2019, di 2.763, solo 122 sono stati ispezionati e 106 hanno ottenuto la certificazione). Difficile per gli operatori dell’estrazione pagare le numerose e cospicue tasse per mettere tutto a norma. Infine, spiega la giornalista, «l’oro delle miniere artigianali è molto vulnerabile ai gruppi armati, che terrorizzano i minatori, impongono pagamenti, rubano e gettano un’ombra cupa su tutta la filiera». In questo grande clima di incertezza, di sommerso e di illeciti, proliferano corruzione e criminalità, e si riempiono le tasche dei grandi trafficanti esteri.

«È per definizione impossibile stabilire con precisione il volume d’oro esportato clandestinamente dalla Repubblica Democratica del Congo», spiega l’articolo. Ma se all’oro si aggiungono le altre risorse minerarie pregiate o strategiche, di cui è ricco il sottosuolo congolese (rame, coltan, cobalto, diamanti, ecc.), è facile comprendere l’immensa ricchezza che il Paese non riesce a trattenere per incapacita, corruzione o malagestione.

Africa. La malaria ora ha il suo vaccino. «Un passo storico»

In Malawi, Kenya e Ghana avviata la vaccinazione per 360mila bambini. Il Mosquirix è efficace per ora in un caso su due, ma gli scienziati sono già al lavoro per migliorarlo
Una zanzara Anopheles

Una zanzara Anopheles – Ansa

Un pizzico sulla gamba, un gemito e una lacrimuccia. Villaggio di Tomali, sud del Malawi, Paese africano tra i più poveri al mondo. Uno dopo l’altro i bambini portati dalle loro madri ricevono il primo vaccino della storia contro la malaria, una delle malattie più letali, responsabile di 400mila morti l’anno in tutto il pianeta. Se il programma pilota, avviato anche in Kenya e Ghana, darà i suoi frutti, il passo per la medicina sarà stato di primaria importanza. Perché è vero che al contrario dei normali vaccini quello testato nei tre Paesi africani ha efficacia solo nel 40 per cento dei casi, ma gli esperti sono convinti che la strada è quella giusta.

«Si tratta di un momento storico: è la prima volta che parte un programma di vaccinazione pilota contro la malaria», ha sottolineato l’Oms. Due terzi delle vittime della malaria sono bambini sotto i 5 anni e la gran parte dei contagi si registra nell’Africa sub-sahariana. L’Oms stima che l’80% dei casi si verifichi in 15 Paesi africani (Nigeria in testa, con il 25% del totale) e in India.

Charity ha sette mesi, sua madre Esther ha aspettato pazientemente il suo turno per la vaccinazione. «Sono contenta, anche se ci hanno spiegato che il vaccino non è ancora perfezionato sono sicura che servirà a far stare mia figlia meglio». La stessa Esther racconta di soffrire dei sintomi della malaria (tra cui febbre altissima e dolori muscolari) almeno una volta l’anno oltre a temere fortemente per la vita dei suoi bambini. Nella locale lingua chichewa la malaria si chiama «malungo» e durante la stagione delle piogge, che dura cinque mesi, è molto difficile non subirne il contagio. Pozze stagnanti, dove le zanzare si diffondono, circondano strade e villaggi. La clinica più vicina al villaggio di Tomali è distante due ore di bicicletta e più si è lontani dai presidi sanitari maggiori sono i rischi per i bimbi contagiati. Il personale sanitario riesce a visitare il villaggio una o due volte al mese, offrendo in quei giorni cure di base. Occuparsi della malaria porta via a medici e infermieri gran parte del tempo. «Se questo vaccino funziona, avremo anche più ore a disposizione per occuparci di altre malattie», sottolinea un’infermiera. I medici spiegano alla gente del villaggio che il vaccino non sostituirà i farmaci antimalarici o l’uso delle zanzariere, ma che sarà un’arma in più, l’arma che mancava.

Ci sono voluti tre decenni di ricerca per sviluppare il vaccino, che funziona contro il più comune e mortale delle cinque specie di parassiti che provocano la malaria. A produrre il Mosquirix, come è stato battezzato, Glaxo-SmithKline con l’aiuto di un organismo non profit, Path’s Malaria Vaccine Initiative. Vettore del parassita sono le zanzare Anopheles: la loro puntura trasmette nel sangue i parassiti, che, se riescono a localizzarsi nel fegato, maturano e si moltiplicano prima di invadere i globuli rossi e cominciare a provocare i sintomi. A quel punto sono necessari farmaci che uccidono i parassiti, non sempre disponibili e spesso insufficienti per i bimbi più piccoli. Il Mosquirix usa una proteina del parassita nel tentativo di bloccare l’infezione al livello iniziale. Il sistema immunitario del bimbo vaccinato dovrebbe riconoscere il parassita e produrre gli anticorpi necessari a debellarlo.

Gli scienziati, peraltro, sono già al lavoro per arrivare a soluzioni più efficaci. Approvato nel 2015 dall’Oms, il Mosquirix è offerto nei tre Paesi pilota a 360mila bambini in quattro dosi, la prima delle quali a 5 mesi di età e l’ultima a due anni. Alla clinica di Migowi, in Malawi, i dottori vedono segnali di speranza. Nel primo periodo di vaccinazioni, i casi di contagio si sono quasi dimezzati. Agnes Ngubale racconta di aver avuto la malaria e ora vuole proteggere sua figlia Lydia, 6 mesi. «Mi piacerebbe che fosse in salute e che da grande diventasse un dottore», sorride. Poi memorizza la data per la seconda dose di vaccino: stesso giorno, il prossimo mese.

da Avvenire

La giornata. L’Aids uccide sempre l’Africa, con il 73% dei nuovi casi tra i giovani

la Giornata mondiale dell’Onu contro la malattia. Sant’Egidio rilancia il progetto Dream che è operativo ormai da 18 anni. Medici senza frontiere insiste: servono test più rapidi

(Il simbolo della lotta all'Aids (Ansa)

(Il simbolo della lotta all’Aids (Ansa)

da Avvenire

Salvare il futuro dell’Africa combattendo la principale causa di morte tra gli adolescenti del Continente: il virus dell’Hiv. È questa la sfida delprogramma Dream della Comunità di Sant’Egidio che, in occasione della Giornata mondiale dell’Onu contro l’Aids, domenica 1° dicembre, vuole ricordare quanto è stato fatto e quanto ancora bisogna fare per i giovani. Un’attività che Dream porta avanti ormai da 18 anni offrendo accesso gratuito alle cure in 11 Paesi africani, con 49 centri di salute e 25 laboratori di biologia molecolare.

Nel 2016, si legge in una nota, il 73% dei nuovi casi di Hiv tra adolescenti era localizzato in Africa (fonte: www.avert.org). E si stima che da qui al 2030 ci saranno altri 740 mila giovani che contrarranno il virus. Ad oggi la metà delle ragazze e dei ragazzi sieropositivi è concentrata in sei nazioni. Cinque di queste appartengono allo stesso continente: Sudafrica, Nigeria, Kenya, Mozambico e Tanzania.

Particolarmente seria la situazione nell’Africa orientale. Ed è proprio da qui che parte il lavoro di Dream. Sono quasi 6000 gli adolescenti attualmente in terapia nei centri di salute del programma della Comunità di Sant’Egidio. La metà di questi si trova in Mozambico, più di 1.000 in Malawi e oltre 800 in Kenya. Nei tre stati Dream ha tre progetti, finanziati dall’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo: “Malawi? I Care”, “Mozambico Pass” e “Insieme al Global Fund” per porre fine all’epidemia di Hin e Tb in Kenya. Di pochi giorni fa è la notizia che l’Aics ha approvato un progetto dedicato ai giovani dal titolo “Espaco Aberto”.

In supporto ai sistemi sanitari nazionali, Dream, attraverso i centri di salute, non si limita alla distribuzione dei farmaci, ma forma il personale locale e offre ai pazienti servizi di consulenza, prevenzione e test. Fondamentale, soprattutto per gli adolescenti, l’attività di sensibilizzazione sulle tematiche legate alla salute e alla cura. Queste attività sono svolte da expert client, persone malate, spesso donne, che hanno beneficiato dei servizi offerti dai centri di salute di Sant’Egidio e che sono poi diventate divulgatrici, veri e propri punti di riferimento in grado di dare ai giovani le informazioni necessarie per accedere alle cure o, prima ancora, per fare un test.

Ogni centro di salute Dream ha un responsabile dei servizi indirizzati ai giovani. L’idea alla base dei programmi per gli adolescenti è quella di mantenere con loro un filo diretto attraverso appuntamenti fissi focalizzati sulle loro specifiche necessità. Per questo vengono invitati a prendere appuntamento in giornate dedicate espressamente a loro per monitorare lo stato di salute e nutrizione, fare gli esami del sangue necessari al controllo dell’andamento della terapia e i test per la carica virale, consegnare i farmaci, prevenire e curare eventuali malattie correlate all’Hiv e fare screening del cancro della cervice uterina. Tutte le attività sono svolte da personale qualificato opportunamente sensibilizzato.

Campagna informativa in Sudafrica (Ansa)

Campagna informativa in Sudafrica (Ansa)

“Attorno ai centri Dream – osserva la direttrice, Paola Germano – esistono movimenti di adolescenti che hanno superato la fase dello stigma e s’impegnano a parlare dell’Hiv con i coetanei sani, nelle scuole e nei luoghi di ritrovo. Sono movimenti di adolescenti costretti dalla malattia ad una maturità interiore precoce, che grazie alle cure e all’inclusione del gruppo ritrovano sicurezza e speranza. Il loro contributo all’abbattimento dello stigma da Hiv tra i giovani è inestimabile”.
Rafforzamento dei servizi sanitari per adolescenti e giovani donne con Hiv in Mozambico che comincerà nel 2020. Il progetto permetterà di offrire per almeno due anni cure gratuite e di qualità a 2.500 giovani con Hiv (per il 52% ragazze) tra i 10 e i 19 anni e 1.250 giovani donne sieropositive tra i 20 e i 25 anni. Si sperimenterà la formazione di youth leader e la loro inclusione nella creazione di uno spazio adolescents friendly all’interno di sei centri di salute in Mozambico, al fine di facilitare l’accesso dei giovani ai servizi sanitari per Hiv.

Combattere l’Aids tra gli adolescenti significa, spesso, agire prima che questi vengano messi al mondo. La maggior parte dei ragazzi e delle ragazze, infatti, contrae il virus per via perinatale, mentre il resto si infetta attraverso il sesso non protetto. Dal 2002 ad oggi, Dream ha fatto sì che 100 mila bambini di madri sieropositive nascessero senza contrarre l’Hiv, offrendo alle donne incinte un servizio gratuito e di qualità per prevenire la trasmissione del virus ai figli.

I giovani tra i 15 e i 24 anni sono una categoria vulnerabile all’infezione per caratteristiche associate ai comportamenti di questa fascia di età. I ragazzi, in una società in cui è alta la disuguaglianza sociale, sono soggetti a fattori come la carenza di risorse economiche, l’abbandono scolastico e l’esplorazione sessuale che aumentano la vulnerabilità all’Hiv. A questi fattori vanno aggiunte la difficoltà di accesso ai servizi sanitari e la scarsa preparazione nella risposta nazionale in Africa Sub-Sahariana alle specificità di questo gruppo di età.

Msf: 770mila morti nel 2018, servono test rapidi

Nel 2018 l’Aids ha ucciso nel mondo 770 mila persone di cui 100 mila bambini. E «nonostante l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) abbia stabilito delle linee guida sull’Hiv avanzato dal 2017, l’impegno dei governi ad adeguare le proprie politiche nazionali è stato molto lento, e l’implementazione di queste misure e i relativi finanziamenti risultano ancora più indietro». Lo denuncia Medici senza frontiere (Msf) nel rapporto “Non c’è tempo da perdere”, pubblicato in vista della Giornata mondiale di lotta all’Aids che si celebra domenica 1 dicembre.

«Per prevenire le morti per Aids – è l’appello della Ong – sono necessari test diagnostici rapidi nelle cliniche locali”. Strutture che nella maggior parte dei casi oggi ne sono sprovviste. Le linee guida dell’Oms – spiega Msf – raccomandano l’utilizzo di test rapidi di facile impiego per valutare lo stato del sistema immunitario dei pazienti (test per il conteggio delle cellule Cd4) e diagnosticare le infezioni opportunistiche più comuni e letali causate dall’Aids, come la tubercolosi e la meningite pneumococcica. «Questi test possono dare risultati nel giro di poche ore e questo, congiuntamente alla prossimità e al monitoraggio dei pazienti, consente di intervenire rapidamente, guadagnando giorni che fanno la differenza tra la vita e la morte delle persone», precisa l’organizzazione medico-umanitaria che nel suo nuovo report ha analizzato la situazione in 15 Paesi dell’Africa, monitorandone dal novembre 2018 a ottobre 2019 politiche sanitarie e fondi stanziati.

«I test rapidi non sono quasi mai reperibili a livello comunitario, nonostante la diagnosi precoce possa salvare molte vite», rileva Msf. L’associazione chiede «ai Paesi che registrano un alto livello di infezione e ai Paesi donatori» di «mettere in atto urgentemente i protocolli raccomandati per prevenire, diagnosticare e curare l’Hiv avanzato a livello comunitario». E segnala anche il problema dell’interruzione delle cure, che insieme alla “mancanza di una risposta tempestiva ai fallimenti terapeutici” sta mettendo «a repentaglio i recenti progressi cha hanno visto diminuire il numero di morti per Hiv». «L’obiettivo di contenere i decessi per Aids al di sotto di 500 mila persone entro il 2020 – ammonisce Ruggero Giuliani, vicepresidente di Msf e infettivologo – non sarà raggiunto senza un’azione decisiva per migliorare l’adesione alla terapia e contro le interruzioni del trattamento che determinano un’alta mortalità. In passato abbiamo visto che i pazienti gravemente malati erano quelli inconsapevoli di essere sieropositivi. Oggi vediamo un numero sempre maggiore di persone che è stato trattato in un primo momento, ma che ha successivamente interrotto la cura ammalandosi in maniera grave, e altri per cui la cura non è più efficace».

Più dei due terzi dei pazienti con Hiv avanzato curati nell’ospedale di Nsaje in Malawi, supportato da Msf – riferisce la Ong – sono arrivati già gravemente malati e avevano precedentemente iniziato la terapia antiretrovirale interrompendola. Nell’ospedale di Msf a Kinshasa, in Repubblica democratica del Congo, questo dato raggiunge il 71%. «Di questi pazienti, più di uno su 4 morirà perché la malattia era a uno stadio troppo avanzato al momento del loro arrivo in ospedale. Tutte queste morti si potevano evitare», avverte l’organizzazione.

«Dobbiamo tutti essere consapevoli che il nostro lavoro non è finito una volta che le persone sono in trattamento e vedono migliorare il loro stato di salute. Dobbiamo accompagnarli durante tutto il loro percorso di cura – aggiunge Giuliani – Non metteremo fine alle conseguenze devastanti dell’Hiv scavando più tombe, ma facendo tutto il possibile per mantenere le persone sane, indipendentemente da dove vivano e da quali siano le loro condizioni di vita. Devono essere supportati a livello psicologico e sanitario il più vicino possibile al luogo in cui vivono».

Dei 15 Paesi esaminati (Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Swaziland, Guinea, India, Kenya, Lesotho, Malawi, Mozambico, Myanmar, Nigeria, Sudafrica, Sud Sudan, Uganda e Zimbabwe), selezionati per l’alto livello di infezione da Hiv, per le morti da Aids e per l’elevata percentuale di morbilità e mortalità da tubercolosi e meningite pneumococcica, solo 8 usano test rapidi per la Tbc su pazienti con Hiv avanzato. In alcuni ospedali del Sudafrica vengono utilizzati, ma una maggiore e capillare diffusione a livello comunitario deve ancora avvenire – riporta Msf – Il Malawi sta pianificando di adottarli in 230 centri sanitari nel 2020 e programmi pilota per introdurre questi test sono stati lanciati in Lesotho e in Nigeria. Un altro progetto pilota è stato completato in Kenya prima di una possibile estensione a livello nazionale.

Ancora: solo un terzo dei Paesi analizzati raccomanda l’uso del test rapido per la meningite pneumococcica (che rappresenta il 15-20% di tutte le morti legate all’Hiv avanzato) su pazienti con un sistema immunitario molto debole e compromesso. In Kenya, Mozambico, Sudafrica, Sud Sudan, Uganda e Zimbabwe questa raccomandazione non è stata ancora implementata a livello comunitario. In generale, «attualmente nei 15 Paesi oggetto del rapporto i test per la tubercolosi e la meningite pneumococcica sono disponibili a livello dei centri di salute primaria soltanto nei centri supportati da Msf».

Africa. Mali: attacco a villaggio, 95 morti

Avvenire

Il massacro in una zona di scontri per l’accaparramento delle terre: «Potrebbe trattarsi di una vendetta» Nella regione attivi diversi gruppi jihadisti

Un gruppo di soldati dell'esercito maliano (archivio Ansa)

Un gruppo di soldati dell’esercito maliano (archivio Ansa)

Una strage, l’ennesima, torna a far salire alla ribalta la lotta per l’accaparramento delle terre in Mali, in quella fascia centrale del Paese in cui, accanto alla penetrazione del terrorismo jihadista, si confrontano in maniera violenta tribù di pastori e gruppi di cacciatori. Il bilancio dell’attacco, avvenuto domenica notte nel villaggio di Sobane-Kou, vicino alla città di Sangha, abitato dal gruppo etnico dei cacciatori Dogon, è di almeno 95 vittime. Secondo un funzionario locale, i corpi delle vittime sono stati bruciati, mentre si cercano ancora altri cadaveri.

In una zona in cui non sono infrequenti gli attacchi perpetrati da gruppi jihadisti, fonti locali riferiscono che ad entrare in azione siano stati questa volta i pastori nomadi Fulani, che hanno dato alle fiamme decine di abitazioni. «Uomini armati, a quanto sembra Fulani, hanno sparato contro la popolazione e incendiato il villaggio», ha riferito Siriam Kanoute, un funzionario della vicina città di Bandiagara. Il sindaco di Sangha, Ali Dolo, ha parlato del ritrovamento di 95 cadaveri, ma ha aggiunto che il bilancio della strage è molto probabilmente destinato a salire. «Su una popolazione di circa 300 abitanti solo in 50 hanno risposto all’appello», ha fatto sapere Dolo. Gli assalitori erano sicuramente Fulani anche secondo il sindaco di Bankass, Moulaye Guindo, mentre il governo di Bamako ha accusato elementi «terroristici» per l’attacco, ma non ha specificato oltre.

Negli ultimi mesi la rivalità tra i cacciatori Dogon e i pastori Fulani ha visto una preoccupante escalation. A marzo un attacco contro un villaggio Fulani nella zona di Bandiagara aveva causato oltre 150 morti, uno dei massacri più gravi della storia recente del Mali. I sopravvissuti avevano accusato i Dogon della responsabilità dell’attacco. Quella di domenica potrebbe quindi essere una tragica vendetta. Principalmente agricoltori e cacciatori, i Dogon – che ieri hanno parlato di un «attacco vile e barbaro», che ha la valenza di un «genocidio», sono animisti e vivono soprattutto a sud del fiume Niger e al confine con il Burkina Faso. I pastori Fulani sono invece musulmani, ma la religione c’entra poco con una rivalità che nasce invece soprattutto per l’accaparramento dei terreni migliori per pascoli e colture, in una zona in cui avanza la desertificazione. La violenza intertribale contribuisce peraltro a esacerbare la tensione in una regione che già vede attivi gruppi jihadisti che hanno legami con al-Qaeda e il Daesh.

Questi gruppi hanno saputo sfruttare negli ultimi anni le rivalità etniche del Mali (e di Paesi vicini come il Burkina Faso e il Niger) per incrementare il reclutamento ed estendere la loro influenza su vaste fasce di territorio. I Dogon, da parte loro, sostengono che i Fulani diano protezione e appoggi ai jihadisti, accuse sempre negate dalla tribù di pastori. Il governo ha progressivamente perso il controllo di queste regioni centrali, non riuscendo ormai a garantire sicurezza. Nel 2013 la Francia, ex madrepatria, era intervenuta in Mali (dove oggi opera una missione Onu) per respingere l’avanzata jihadista dal nord verso la capitale, ma da allora i miliziani sono riusciti a rinfoltire i ranghi.

Malawi, dove la povertà diventa ricchezza

Malawi, dove la povertà diventa ricchezza

Il Malawi, così come tanti altri Paesi africani, è nel suo complesso una terra di contraddizioni: sfarzo e lusso da una parte e miseria e povertà dall’altra. Con una stratificazione sociale molto più evidente nelle aree rurali. Ma arrivando nella missione di Koche, nel villaggio di Maldeco, a una mezz’ora di pick-up dalla cittadina più vicina di Mangochi, ci si rende conto di quanto ridicole siano le preoccupazioni e le ambizioni di noi “azungu”, così vengono chiamati i bianchi nella lingua locale chichewa, di fronte alle sofferenze della popolazione locale.

La maggior parte delle persone non riesce a restare un giorno senza controllare mail, connettersi a Internet o mandare sms. Mentre ovunque ci si giri, in queste terre folgorate dal sole, emerge quella parte di società che vive la miseria del mondo quotidianamente, senza sconti, e che ancora sembra lontana anni luce dai progressi della tecnologia e dagli effetti (per molti versi anche devastanti) portati dalla globalizzazione e dalla modernità.

Di certo, girando fra le case fatte con mattoni di fango e con tetti di paglia o lamiera non manca chi già dispone di prese elettriche e riesce a connettersi alla rete internet. Ma lungo le strade di terra rossa, che disegnano linee in un paesaggio che alterna cumuli di spazzatura a bellezze incontaminate, ci si imbatte troppo spesso in un’umanità che chiede giustizia e il riconoscimento di diritti fondamentali. Come il diritto alla salute, costantemente negato in queste periferie del mondo dove ancora è all’ordine del giorno morire per fame ma dove sono in costante aumento anche le morti per cancro, Hiv e malaria.

Mentre uomini e donne in salute percorrono ogni giorno chilometri e chilometri alla ricerca di un qualsiasi lavoro. Li ritroviamo nei mercati o per le strade fangose a vendere sale, mais, pesce essiccato e ammassi di vecchie scarpe. Così come scorgiamo quelli che avanzano lentamente con secchi d’acqua sulla testa o cataste di legna sulle spalle.

Alessia ed Emanuela, le missionarie che seguono per le Diocesi di Porto-Santa Rufina e di Mangochi i progetti a sostegno degli studenti indigenti e dei malati della comunità, raccontano le difficoltà che potranno emergere durante il loro prossimo rientro in Italia, la necessità di doversi rapportare da un lato con l’ondata di razzismo crescente nel nostro Paese e dall’altro con le esperienze dolorose vissute in questi anni al fianco della popolazione locale.

Allo stesso tempo nei loro occhi si scorge la stessa folgorazione di altri volontari che, proprio in queste terre, hanno trovato l’enorme ricchezza della semplicità e riscoperto il senso di una comunità in cammino.

Così come la povertà, una fede profonda, solida e incontestabile è qualcosa di insito in questo pezzo di Africa. E, sebbene ci si svegli all’alba e si vada a dormire poco dopo il tramonto per difendersi dalla malaria, non si fa fatica a dedicare ampi spazi alla preghiera e a ringraziare il Signore per i piccoli momenti di condivisione e quotidianità. Le volontarie accompagnano Bambo (Padre in Chichewa) Matupa a consegnare la comunione agli ammalati e agli anziani.

E portano sacchi di mais alle famiglie più indigenti del villaggio. In aree remote e isolate dalla civiltà, dove paradossalmente la povertà diventa la più grande ricchezza, perché permette di guardare con gli occhi del cuore, di abbandonarsi all’altro e insieme penetrare nelle sue profondità, per poi aprirsi alla speranza nel calore di un sorriso, di un abbraccio e di parola gentile.

Per saperne di più

Siccità. In Malawi 2,8 milioni di persone, il 15% della popolazione, sono obbligati a soffrire la fame (dati WFP), a causa della prolungata siccità, che ha messo in forte crisi la coltura del mais, fondamentale per la preparazione dello nsima, una specie di polenta che costituisce l’alimento basilare del Paese e di gran parte del continente africano.

Impegno per l’educazione. Il governo del Malawi ha annunciato un piano di circa 1,3 trilioni di Kwacha (la moneta locale; attualmente 1 euro vale all’incirca 880 Kwacha) per l’anno finanziario 2017/2018, di cui 235 miliardi per l’educazione, 192 miliardi per l’agricoltura e 129 miliardi per la salute, rispettivamente pari al 18%, al 15,5% e ancora al 9,5% del budget totale.

Popolazione e religioni. Un’indagine demografica condotta nel 2010 e in carico all’UsAid, l’Agenzia Statunitense di ricerca e azione per lo Sviluppo Internazionale, rivela che l’86% della popolazione è di religione cristiana (i cattolici sono il 20,6%) e il 13% di fede islamica.

La mappa

La mappa

Nella Barbiana del Malawi la dignità genera sviluppo

Nella Barbiana del Malawi la dignità genera sviluppo

Procediamo per una strada sterrata, rossa e polverosa. Ai due lati campi di mais visibilmente sofferenti: piante rade, basse e mezze secche. I contadini lamentano una stagione delle piogge avara di acqua, chiaro effetto dei cambiamenti climatici. Siamo in Malawi, un terzo dell’Italia, paese incuneato fra Zambia e Mozambico. L’80% della popolazione vive in campagna, potremmo proprio dire che Cristo si è fermato a Blantayre, cittadina del sud in cui ci troviamo. In città, la povertà la cogli se hai la capacità di abbandonare le grandi arterie: allora ti trovi di fronte a casupole con pareti in terra battuta e tetto con materiale raccapezzato in discarica: pezzi di lamiera, plexiglass, plastica, tenuti fermi da pietre, in lotta perenne contro il vento che batte particolarmente forte quando si preannuncia un temporale.

E se hai il coraggio di andare oltre, allora in mezzo ai rigagnoli di acqua putrida, chiare fogne a cielo aperto, ti ritrovi nel bel mezzo di mercati rionali formati da banchetti allestiti per terra con ogni genere di mercanzia: dai mango al pesce secco, dalla legna da ardere agli abiti usati, unico punto di contatto con la ricca Europa.

In campagna, la povertà ti si fa incontro da sola. Mentre l’auto procede, incontri donne e bambini di ritorno dalla fontana con il loro prezioso carico di acqua in testa. Le donne colpiscono per i loro vestiti variopinti, ma i bambini per la loro magrezza, per i loro pantaloncini e canottiere strappate, per i piedi scalzi, al massimo protetti da ciabatte infradito. Di quando in quando il segno di qualche assembramento commerciale.

Ai due lati della strada, chi esibisce una serqua di uova, chi una gallina, chi qualche papaya, e dietro, a ricordare che si tratta di mercati permanenti, piccoli tuguri, bui e scalcinati, che solo dalle scritte esposte direttamente sulle pareti, capisci che vogliono essere macellerie, punti di contatto telefonico, barbieri, addirittura saloni di bellezza. Di elettricità nessun segno, se non qualche raro e minuscolo pannello solare. Per l’acqua va già bene quando in un angolo scorgi una pompa a mano. Impietosa, la nostra auto procede sobbalzando su un fondo stradale pieno di solchi e dopo un tratto fra due ali di fitta vegetazione, che poi risulta essere una piantagione artificiale di eucalipti, all’improvviso un ampio cancello.

Un guardiano si fa incontro per sapere chi siamo e riconosciuto il nostro accompagnatore ci spalanca la strada verso l’interno. Un cartello ci avvisa che siamo in uno dei quattro istituti che l’associazione Dapp gestisce in Malawi per la formazione di insegnanti rurali. Mentre scendiamo dall’auto, sentiamo già il benvenuto intonato dal coro degli studenti: ragazze e ragazzi sulla ventina che hanno deciso di dedicare la loro vita professionale all’elevazione culturale dei bambini delle campagne. E non solo. Parlando con loro scopriamo che stanno ricevendo una formazione per essere sia insegnanti elementari sia, addirittura, animatori sociali capaci di aiutare le comunità rurali a risolvere le sfide ambientali ed economiche che sempre di più si parano davanti a loro, attraverso nuove conoscenze e una più stretta solidarietà di villaggio. È la strategia dell’empowerment che significa mettere i poveri in condizione di gestire essi stessi il proprio cambiamento.

Dapp, che sta per ‘Aiuto allo sviluppo da persona a persona’ è un’organizzazione non governativa attiva dagli anni 90 del Novecento che riesce ad andare avanti grazie a un mix di contributi di origine pubblica, privata e commerciale che la rende particolarmente interessante anche sotto il profilo finanziario. Il suo partner pubblico è il Governo del Malawi, mentre il suo principale partner privato è Humana, una realtà ormai estesa a livello mondiale, che ha come missione il sostegno a organizzazioni africane, asiatiche e latinoamericane, che cercano di promuovere lo sviluppo umano delle fasce più povere in un’ottica di sostenibilità. E se la strategia di sviluppo umano si fonda sulla convinzione che i poveri sanno trovare essi stessi la soluzione ai loro problemi purché aiutati ad arricchire le proprie conoscenze e a rinsaldare i vincoli di comunità, la strategia finanziaria di Humana, che poi si estende anche a Dapp, consiste in un’attività industriale a sfondo ambientale.

Di fatto Humana trasforma in aiuto allo sviluppo lo spreco del Nord, ossia gli abiti che noi gettiamo. Un rifiuto che solo in Italia ammonta a 240mila tonnellate all’anno di cui solo la metà è raccolta in forma differenziata. Humana riesce a raccogliere 20mila tonnellate, che in parte rivende nei propri negozi italiani ed europei, in parte invia ai propri partner del Malawi e di altri Paesi dell’Africa, affinché possano procurarsi, localmente e in forma autonoma, denaro per i propri progetti. In effetti, Dapp rivende in loco gli abiti che riceve in dono dall’Europa, in parte al dettaglio tramite negozi propri, in parte all’ingrosso rifornendo i negozianti di abiti usati. Insomma, la triangolazione messa in piedi cerca di mettere a disposizione dei poveri soldi versati dai poveri stessi riciclando lo spreco del Nord. Una formula che sicuramente pone qualche domanda da un punto di vista politico e della proposta economica, ma che ha il merito di avere permesso a progetti importanti di autofinanziarsi migliorando la vita di oltre 15 milioni di persone a livello mondiale.

In Malawi i progetti di Dapp solo formalmente sono divisi in progetti di tipo agricolo e di tipo educativo. Di fatto sono gli uni la continuazione degli altri, perché in ambito agricolo l’attività comprende anche la disseminazione di nuovi saperi, mentre in ambito educativo l’attività comprende anche l’allenamento a risolvere i problemi esistenti. Una linea pedagogica in perfetta sintonia con la scuola di Barbiana e la proposta di Paulo Freire. In occasione della nostra visita alla scuola per maestri, gli studenti erano orgogliosi di raccontarci che non si limitano a studiare aspetti teorici, ma che fanno anche pratica di responsabilità non solo dando mano nell’orto, nelle pulizie, nella cucina, ma anche allevando piantine di alberi di alto fusto che poi mettono a dimora come contributo contro i cambiamenti climatici. E l’aspetto interessante è che propongono questa stessa iniziativa ai villaggi circostanti affinché facciano altrettanto anche loro.

Il rapporto di integrazione fra scuola e società lo si nota, del resto, anche dal fatto che il programma prevede uscite continue per conoscere le problematiche vissute dalla gente e fare pratica di animazione comunitaria. Esperienze che poi si rivelano estremamente preziose quando, una volta maestri, questi giovani uomini e giovani donne debbono confrontarsi con scuole rurali che vedono 80 bambini per classe, senza banchi, senza libri e con strutture così fatiscenti per cui fare scuola sotto l’ombra di un albero è quasi meglio che fra le mura.

da Avvenire

Papa Francesco è partito per l’Africa

Papa Francesco è arrivato alle 7 e 40 all’aeroporto di Fiumicino ed alle 8.01 l’aereo papale è decollato alla volta del Kenya, prima tappa del viaggio apostolico che lo portera’ anche in Uganda e nella Repubblica Centrafricana. L’arrivo all’aeroporto internazionale “Jomo Kenyatta” di Nairobi è previsto alle ore 17 locali (15 italiane).

Francesco è stato accolto, tra gli altri, da mons. Reali, vescovo della diocesi di Porto-Santa Rufina, nella cui giurisdizione si trova l’aeroporto di Fiumicino e da altre autorità civili e militari, con le quali si è intrattenuto cordialmente.

Il telegramma del Papa al Presidente italiano Mattarella
Il Papa, come e’ tradizione per ogni viaggio internazionale del pontificato, ha inviato un messaggio al presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella. “Nel momento in cui mi accingo a compiere un viaggio apostolico in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana, mosso dal vivo desiderio di incontrare i fratelli nella fede e gli abitanti di quelle care nazioni – si legge nel telegramma – mi e’ gradito rivolgere a Lei, signor presidente, l’espressione del mio deferente saluto che accompagno con fervide preghiere per il bene e la prosperita’ dell’intero popolo italiano”.

Il messaggio del Presidente Mattarella al Papa
Questa il messaggio del Presidente Mattarella inviato a Papa Francesco: “Desidero farle pervenire il mio piu’ sincero ringraziamento per il messaggio che ha voluto cortesemente indirizzarmi nel momento in cui si accinge a partire per il viaggio apostolico in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana. L’Italia e la comunita’ internazionale guardano con grande attenzione al suo primo viaggio nel continente africano, il cui potenziale di crescita e sviluppo e’ tuttora ostacolato da guerre, instabilita’ politica, poverta’ e allarmanti disuguaglianze sociali. La sua presenza sara’ di sostegno e incoraggiamento alle locali comunita’ cristiane e rechera’ un importante segnale di pace, fraternita’ e dialogo ai paesi visitati e all’intero continente, fornendo altresi’ un prezioso messaggio di speranza per il futuro. Mi e’ gradita, Santita’, l’occasione per rinnovarle i sensi della mia piu’ profonda stima e considerazione”.

avvenire