La famiglia, agenzia di consumi?

Questi ultimi decenni hanno segnato, per la cultura del nostro paese, il repentino evolversi dell’istituzione familiare. In poco tempo si è passati  dalla famiglia pa­triarcale a quella “nucleare” (di un solo nucleo) alla “quasi” famiglia dei nostri giorni, dove tutto è relativo, temporaneo ed effimero.

Questo passaggio non è stato né semplice né indolore, la ferita aperta da questo rapido cambiamento dell’istituzione familiare è tutt’ora aperta e la cicatrice crea­tasi è ben lontana dall’essersi rimarginata.

Il contesto mutato

Questa situazione pone diversi interroga­tivi, perché, come cre­denti o, più semplicemente, come cittadini liberi e responsabili, non ci rassegniamo a stare muti e attoniti di fronte alle sfide che la storia ci lancia, ma vogliamo essere protagonisti proprio per non rimanere insensibili ai segni dei tempi.

Prendendo atto quindi che, oggi, a causa della globalizzazione, c’è u­na profonda interdipen­denza (economica, culturale, politica ecc.) fra tutti gli abitanti e fra tutte le nazioni della terra, non possiamo distogliere lo sguardo dal vasto orizzonte del mondo sul quale si svolge la com­plessa vicenda della grande famiglia umana.

La famiglia d’oggi, quindi, se, nel mettere al mon­do i figli e nell’educarli, non tenesse davanti agli occhi il reale momento storico che viviamo, lascerebbe i giovani impreparati ad affrontare la com­plessità dei problemi che si presentano loro e ren­derebbe con ciò stesso più remota la speranza di un mondo più unito, più giusto e più libero.

La famiglia è chiamata ad “aprirsi” se vuole rinnovarsi, a svolgere un compito completamente nuovo, ad essere aperta ai problemi del mondo e a scoprire quei valori nuovi in grado di fermentare la società attuale.

Più i consumi che i valori

Dunque, famiglia “aperta” ai problemi del mondo, alle sollecitazioni della storia, ai segni dei tempi. Ma con un’apertura che passa da una precisa presa di posizione, quella di rifiutare un modello di vi­ta che ha portato la maggior parte delle famiglie attuali a rinchiudersi su se stesse, ad adottare come la cosa più naturale del mondo uno stile di vita più legato ai consumi che ai valori.

La prima condizione, perciò, che si richiede alle famiglie che vogliono “essere aperte e solidali” è la capacità di sottrarsi a quella moder­na piovra che è il consumismo, che non è solo una logica conseguenza del nostro costume sociale legato al mercato (come affermano alcune anime semplici), ma ne è l’anima!

Ciò che si rifiuta del consumismo è la schiavitù che esso esercita sugli uomini: lo star meglio, il pos­sedere di più, il raggiungere un livello di vita che sia sempre alla pari con quello che una pubblicità incessante propone.

Questa logica presuppone il primato dell’economia sulla persona per cui chi non produce viene automaticamente emarginato; la per­sona stessa (e quindi la famiglia) è in funzione del meccanismo del gua­dagno e del consumo.

Questo meccanismo, per autoalimentarsi, postula lo sfruttamento sistematico del terzo mondo, in quanto, nonostante le belle parole che vengono spese nei vari incontri internazionali, non si fa assolutamente nulla per aiutare i popoli in via di sviluppo ad uscire dalla loro situazione.

Il consumismo, quindi, è per sua natura intrinseca, contro la libertà, contro la giustizia e quindi contro la pace. E da questa spirale si esce solamente ripudiando ciò che forma la struttura stessa del sistema: la filosofia consumistica della vita.

Nel sistema consumistico la famiglia ha un ruolo fondamentale, è un anello indispensabile. Per due motivi: primo, perché è nella famiglia che si decidono e si fanno la maggior parte delle spese. La società moderna, che ha tolto alla famiglia molte prerogative e funzioni, le ha lasciato questa, trasformandola in agenzia di consumi.

Secondo motivo: è la famiglia che inculca nei bambini la moltiplicazione dei desideri e la necessità di soddisfarli. In tal modo, la famiglia supporta il peso del sistema e ne diventa la principale cinghia di trasmissione. Presa da questa logica, la famiglia non trova più spazio per se stessa, in quanto impegnata a lavorare per guadagnare di più, salvo poi chiedersi come mai il mondo vada così male e perché i figli non riconoscono ai genitori il merito del lavoro, dei sacrifici e dell’abnegazione.

Un diverso modello di vita

La famiglia che vuole essere aperta al mondo deve scegliere un diverso modello di vita, deve rifiutarsi di fare un gioco che, alla fine, si rivela deleterio per se stessa, per i figli e per la maggior parte dell’umanità, creando ricchezze e privilegi da una parte, oppressioni e miserie dall’altra.

Si tratta, quindi, di vivere la povertà evangelica, non come mancanza di decoro, o rinuncia al necessario, ma come libertà dal denaro, dalle cose, dalle offerte spudorate della pubblicità.

Parlare oggi di povertà può far sorridere, visti i pressanti inviti a spendere e a consumare, che ci vengono propinati dall’alto, ma solo vivendo autenticamente lo spirito evangelico di povertà fino in fondo si può attuare l’unica rivoluzione possibile ai nostri giorni.

È auspicabile un programma di sobrietà di vita, sollecitato anche da autorevoli interventi del magistero, fatto proprio da tutti coloro che vogliono vivere fuori dalla schiavitù del consumismo, attraverso una radicale eliminazione del superfluo e in una schietta e serena compartecipazione dei doni ricevuti. Liberate dalle cose, le persone si scoprono più libere e disponibili per “donarsi” reciprocamente.

Una famiglia che decide di vivere con questo spirito, oltre che ad aprirsi, si ritroverà ad essere anche “accogliente”, capace di accettare e di accettarsi, di scoprire le necessità più impellenti del territorio e del mondo e di inserirsi con coraggio, scoprendosi aperta agli altri, specialmente nei confronti di coloro che più hanno bisogno di tenerezza e di amicizia.

Ed è su questa famiglia aperta al mondo che si gioca il futuro non solo della Chiesa ma dell’umanità intera. Credere che tutto ciò sia possibile, diventa una speranza viva e concreta per l’intera famiglia umana.

settimananews