In Brasile una sentenza «storica» sfida il traffico d’oro amazzonico

Un impianto illegale per l'estrazione dell'oro in Amazzonia

Meno di due mesi fa, la polizia brasiliana ha sgominato una banda accusata di contrabbandare all’estero 13 tonnellate di oro estratto illegalmente dai territori indigeni in Amazzonia. Una settimana fa, un processo al tribunale di New York ha riacceso i riflettori sul traffico del metallo prezioso dalla foresta alle grandi aziende del Nord del pianeta. Del resto, come uno studio dell’organizzazione di monitoraggio Instituto Escolhas ha dimostrato, almeno il 52 per cento dell’oro brasiliano «presenta indizi di provenienza illecita».

La quota, insieme alla distruzione della selva e la violenza nei confronti di quanti vi si oppongono, è cresciuta a partire dal 2013. Quell’anno, il governo dell’allora presidente Dilma Rousseff approvò la cosiddetta «clausola di buona fede». Il sistema, tuttora vigente, consente al produttore di autocertificare l’origine legale del metallo e alle aziende acquirenti di accettare la sua parola senza ulteriori verifiche. Queste ultime, dunque, non incorrono in nessuna responsabilità né sanzione in caso di scoperta, successiva alla vendita, di estrazione clandestina.

Il meccanismo ha favorito la nascita di «alleanze spurie tra reti criminali e grandi compagnie», ha affermato il giudice della Corte Suprema Gilmar Mendes che ha deciso di mettervi fine. Con una recentissima sentenza, ora, il magistrato ha dato novanta giorni di tempo al governo per elaborare un nuovo regolamento.

Una svolta importante, da sempre richiesta dalle organizzazioni ambientaliste e dai popoli indigeni. Già a febbraio, l’esecutivo guidato da Luiz Inácio Lula da Silva aveva in progetto di eliminare la «clausola di buona fede», sull’onda dello scandalo dello sterminio degli Yanomami da parte dei minatori illegali.

Ora dovrà accelerare. «Il testo è quasi pronto, mancano ancora gli ultimi dettagli ma siamo a buon punto», ha affermato il ministro della Giustizia, Flávio Dino che ha anche ribadito la ferma volontà del governo di proteggere l’Amazzonia. In gioco non c’è solo la vita della foresta e dei suoi popoli.

La rivista scientifica Communications, earth and environment, del gruppo Nature, ha appena pubblicato un inedito studio che dimostra come la selva sia un gigante “aspirapolvere” di sostante nocive. Il fenomeno è noto ma, per la prima volta, è stato calcolato l’esatto ammontare.

Ogni anno, la foresta assorbe 26mila tonnellate di particelle inquinanti liberate dagli incendi. In tal modo, si evitano almeno 15 milioni di casi di malattie respiratorie e cardiovascolari che costerebbero al sistema sanitario due miliardi di dollari.

Le aree restituite ai nativi “inghiottiscono” quasi un terzo del totale. «Sono quelle dove è più basso l’indice di disboscamento», sottolinea Florencia Sangermano, coautrice della ricerca . «Con la loro azione di protezione, gli indigeni rendono un servizio prezioso per la salute pubblica – ha concluso l’autrice Paula Prist –. Contrariamente a quanto si pensa, garantire i loro diritti è interesse di tutti».

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