Duecento anni di «Infinito»: ricercare la voce di Dio

Il ragazzo che mormora “Infinito” non è andato lontano per cercare di comprendere l’esperienza fondamentale dell’uomo (e sì di dirla, riuscendoci stupendamente). È andato dietro a casa sua. L’esperienza dico del sentirsi limitato, assiepato dal finire delle cose e dal limite. E al contempo, come spesso sottolinea nei Pensieri e nello Zibaldone, l’esperienza di aborrire questo senso della fine, il finire delle cose che amiamo. Quando succede la fine di qualcosa di bello, non prendiamo atto e basta. Il cuore e la mente ribollono, si oppongono, patiscono. A volte gridano. Leopardi muove da questo dato semplice, esistenziale, (innegabile a costo di voler negare la nostra natura) per mettere a fuoco il problema dell’Infinito. È proprio del mistero dell’esser nostro sentirsi invaso dal desiderio di qualcosa che non ha luogo nei confini del mondo, di conoscere un infinito che però — il poeta autore di saggi astronomici lo sapeva — in natura non esiste. Tutto è misura, dicevano gli antichi e i moderni lo sanno con più sgomento non avendo favole, illusioni o miti a coprire questa verità cruda. Ma allora, come fare, come vivere ? 

In questa poesia che tutti pensano di conoscere e che mi sono portato addosso, tra i denti, nel respiro, nella bestemmia, nella preghiera per mesi e mesi girando ovunque e da questo è nato il libro di chi scrive E come il vento. L’infinito, lo strano bacio del poeta al mondo (Roma, Fazi Editore, 2019, pagine 166, euro 15) avviene qualcosa. Un passaggio capitale. Troppo spesso non visto o non voluto vedere. È certo una poesia “ambientale”, una poesia che, come dice Vittorio Gassman in un filmato che abbiamo ripescato per l’omaggio delle RaiTeche, se fosse nato a Catanzaro Leopardi non avrebbe scritto…Però “questo” colle e “questa” siepe in quanto luogo di un teatro universale sono divenuti un ovunque, perché dappertutto vi sia un uomo veramente vivo si trova il problema dell’infinito. Leopardi sale su un colle, che non è più il “monte” petrarchesco. E anche in questa aurea che Ungaretti indica come “ironica” nel senso di una sorta di esperienza enorme ma in miniatura, insomma una sorta di “ironico” abbassamento, avviene qualcosa. Leopardi chiamava questi Idilli“avventure storiche del mio spirito”. In genere, invece, si pensa a questa poesia come a un momento estatico, di illuminazione o sperdimento. Si tratta sì di una grande esperienza interiore, ma per nulla immobile. In questa poesia un giovane fa l’esperienza di un cuore che quasi “si spaura” e poi di un dolce naufragio. Tra le due esperienze, evidentemente, succede qualcosa che non è solo legato a elementi compositivi della poesia, magnetica e vivissima. Infatti abbiamo certo il passaggio da un ambito determinato dal senso della vista (“mirando”, “fingo” etc.) a uno dell’udito (“odo stormir”) nonchè un passaggio dalla dimensione dello spazio suggerito dalla presenza della “siepe” a una enigmatica esperienza del tempo (“e mi sovvien l’eterno etc.”). Ma il passaggio fondamentale che si compie in questa poesia è altro. Si tratta di una questione molto rilevante. Si tratta, in sintesi, della messa in scena, per così dire, del motivo per cui la cultura greca, da Aristotele ai poeti di quella civiltà immensa, considerava l’apeiron, (che possiamo tradurre come “innumerevole”,” infinito, senza confini”) con una specie di timore e terrore e la nostra civiltà che, per ora, invece no. Intendo che oggi noi diciamo “infinito” senza provare spauramento, ma indicando una dimensione certo difficile da immaginare ma attrattiva e in un certo senso affascinante. E questo lo si deve a quel che in questa breve e strana poesia accade. È un cambio che ha conseguenze enormi dal punto di vista antropologico. Si badi: Leopardi è poeta immenso, contraddittorio, pensatore vivacissimo e magmatico. Sta nella storia della letteratura “come un tir rovesciato in autostrada”, secondo la felice immagine di un critico letterario. Sulle caratteristiche del suo pensiero si “combattono” vari fronti interpretativi, con il rincorrersi di diversi luoghi comuni. E non cesseranno mai, come per ogni autore “mondo”. Restano altissimi in ogni caso il gradimento e la curiosità destati dalla arte meravigliosa e sofferente del giovane che mormora “Infinito”. Cresce la sua empatia con i giovani del nostro tempo. E dunque cosa succede in questo testo che come ogni poesia è analogo a una danza, a un movimento di parole, a un corpo che si deve osservare bene nelle sue giunture, slanci e controtempi? A metà della poesia, dopo che il fingersi l’infinito ha provocato quasi il blocco dello spauramento, accade il vento…”E come il vento/ odo stormir tra queste piante…” 
Apriamo il libro dei Re, di certo presente al giovane Leopardi che indica la Bibbia esser oltre a Omero suo libro della gioventù, come è ovvio per il genere di formazione che aveva ricevuto. Elia, il profeta, è in fuga, vorrebbe morire, i profeti sono tutti morti, ma Dio lo nutre e lo fa camminare. Il profeta non sa bene cosa fare e cerca la voce di Dio. 
“Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: «Che cosa fai qui, Elia?». Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita». Gli disse: «Esci e férmati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. 
Anche sul colle di Recanati avviene una brezza (“stormir”), si presenta una “voce” comparabile con il silenzio. Si esce dalla finzione e si entra nella comparazione, uno spazio di conoscenza che non si può esprimere se si resta fuori dalla poesia, dove la verbi copula fa in modo che stupet omnis regula. Siamo nei territori della conoscenza mediante un segno, i territori che frequentiamo quando dobbiamo renderci conto delle realtà più importanti della nostra vita e che non sono enti misurabili e visibili (l’amore, l’amicizia anch’essi infinitamente sfuggenti a ogni “definizione” ma conoscibili attraverso i segni). 
L’Infinito, che sfugge e spaura ogni speculazione o finzione immaginativa, che era temuto dai greci, amanti della forma e quindi sospettosi verso l’apeiron, si fa qui, come nella grotta di Elia, incontro al profeta attraverso un segno, vento che stormisce tra le fronde. A questo punto accade qualcosa di interiore: “sovvien”, sale alla coscienza una esperienza nuova dell’unione tra eterno e tempo (passato e presente). Infatti, l’uomo e solo l’uomo abita temporalmente l’universo. Le montagne non contano i minuti, le querce non si sentono invecchiare. I computer non si sentono ringiovanire. In questa poesia che inizia con un “sempre” si dà un passaggio: la possibilita che l’infinito dia un segno, attraverso cui farne esperienza. Il giovane nutrito di Bibbia sta diventando un uomo sofferente, portato a vedere “tristo” l’esistere, ma sulle orme di Giobbe e Salomone, di contro a quel che pensavano gli ottimisti e gli spiritualisti “nemici di Cristo” , sono sue parole. Si inventerà, un po’ barando secondo Ungaretti che lo bracca in alcuni saggi spaventosamente forti e sottili, la nozione di “indefinito” per provare ad addomesticare questo “mare” dell’infinito che lo ha ossessionato fino alla fine dei giorni — come accade a tutti i poeti grandi e maledetti di allora, ad esempio Baudelaire — stando a certe pagine del giovane De Sanctis che incontra a Napoli nel ‘36 il conte Leopardi malato e gentile. Una poesia prodigiosa, biblica e umanissima, dove emerge il valore del segno, contro ogni astrazione e speculazione che “nel pensier” prova vanamente a catturare un’immagine di quel che il nostro cuore desidera davvero. Solo un infinito che si fa conoscere per segni diviene “questa immensità” e “questo mare” dove è possibile la paradossale esperienza di naufragare dolcemente, cosa che sanno i bambini, gli amanti, e coloro che i segni ventosi del mare conoscono.

di Davide Rondoni

Osservatore Romano