Carlo e Helder: vescovi di una Chiesa del kairos

di: Flavio Lazzarin

In questi ultimi tempi mi succede frequentemente di ricordare i punti forti della predicazione del vescovo Carlo Ferrari, che condusse la Chiesa di Mantova dal 1967 al 1986.

Un vescovo che volle andare oltre il diritto canonico e la prassi ecclesiastica regolata dalla giurisdizione e scelse per lui il ministero dell’evangelizzatore, rompendo con la tradizione preconciliare che propiziava vescovi e presbiteri come governatori, organizzatori e dispensatori di norme e regole pastorali.

Non avremmo dovuto dimenticare le sue parole profetiche sostenute da attitudini e scelte inequivocabilmente decisive. Uomo del Concilio, tradusse radicalmente, nel suo servizio, la teologia della Lumen gentium, ispirato certamente dal nono capitolo, che ci parla della Chiesa come Popolo di Dio e ci rimanda alla parola di Gesù, che chiama i suoi discepoli “piccolo gregge” (Lc 12,32).

E quante volte, anche in documenti pastorali, Carlo insistette sull’urgenza di intendere e vivere la Chiesa come “piccolo resto di Israele”!

Indimenticabile la sua omelia, nel Giovedì Santo del 1976: “Dobbiamo avere il coraggio di coloro che sanno perdere, di coloro che accettano la sconfitta, di coloro che accettano il fallimento perché, se siamo inseriti nel mistero di nostro Signore Gesù Cristo, e perciò nel mistero della sua persona, non dobbiamo sfuggire alla sorte della sua persona. La Chiesa tutta intera non può sfuggire alle sorti del suo Salvatore. Noi siamo chiamati ad illuminare e ad animare le istituzioni, anche quelle del mondo, però non dobbiamo confidare in queste istituzioni, non dobbiamo appoggiarci a queste istituzioni, non dobbiamo cercare garanzie da queste istituzioni. Il Signore può compiere ancora un miracolo. Compisse il miracolo che i preti e i vescovi confidino, non in un partito che vince, ma in Gesù Cristo che è il Salvatore del mondo!” (OM 544).

È bene ricordare che il partito dei cattolici solo negli anni ’90 concludeva ingloriosamente la sua traiettoria di mezzo secolo di potere politico quasi indiscusso, perché coinvolto negli schemi corrotti tessuti tra politica e imprenditoria, rivelati dai processi di tangentopoli.

Il vescovo Ferrari fu esistenzialmente profetico anche in questo e sempre mantenne silenziosamente le distanze dai politici dello scudo crociato. Non li affrontava, ma non li frequentava. Non si trattava di una visione condizionata da letture ideologiche alternative, era, al contrario, frutto di una visione evangelica e conciliare della Chiesa.

La memoria del vescovo di Mantova – inevitabilmente per me – si confonde con la memoria di un altro santo servitore del Vangelo: Dom Helder Câmara. I due si conobbero ed ebbero l’opportunità di frequentarsi.

Esiste un racconto, di cui non trovo però conferma storica, su Carlo e Helder, che, durante una pausa dei lavori conciliari, avrebbero viaggiato insieme in un rapido pellegrinaggio ad Assisi. Qualcuno aumenta la notizia dicendo che alla guida dell’automobile c’era Ferrari.

E può anche trattarsi di un aneddoto polemicamente costruito, visto che si dice anche che l’auto fosse una potentissima Ferrari, fatto questo che, inizialmente, avrebbe potuto creare qualche perplessità in Helder, più atto a sentirsi a suo agio nelle catacombe di Domitilla, dove fu firmato il documento-sfida ai fratelli vescovi, che invitava ad una vita povera in una Chiesa povera.

Quello che mi preme sottolineare, però, è che, al di là delle curiosità potenzialmente polemiche, esiste tra i due un’incredibile affinità spirituale. Ferrari è il vescovo del “piccolo resto fedele”, cristologicamente candidato all’insuccesso e alla sconfitta.

Câmara, come ci racconta Eduardo Hornaeert, “quando aveva 69 anni, abbandonò la politica delle riunioni dei vescovi della Conferenza episcopale del Brasile – CNBB – per cominciare a militare in quello che lui stesso definì “minoranze abramitiche”. Questa fu un’idea geniale, in cui il principio del consenso vigente nella democrazia fu abbandonato a favore del principio delle minoranze, di piccoli gruppi minoritari, che seguono il cammino di Abramo, che vagano per il mondo senza potere, senza trionfi, senza vittorie.”

O come dice Marcelo Barros: “Il mondo non si trasformerà a partire dall’azione isolata di leaders illuminati, ma a partire dall’impegno comunitario di gruppi di resistenza e profezia… Dom Helder definiva questi gruppi “minoranze abramitiche, fecondi fermenti di una nuova umanità”.

In tutto questo riscopro oggi l’influenza innegabile della teologia di Paolo, espressa nella Lettera ai Romani, recentemente commentata anche da Giorgio Agamben.

Paolo ci parla, alla scuola dei profeti del Primo Testamento – soprattutto Isaia, Amos e Michea – del “kairos in cui sorge un resto conforme a un’elezione per grazia (Rom 11,5). Kairós che è il tempo messianico, l’adesso in cui può venire il Messia, come nella profezia messianica di Isaia 10,21-22: “Tornerà il resto, il resto di Giacobbe, al Dio forte. Poiché, quand’anche il tuo popolo, o Israele, fosse come la sabbia del mare, un resto soltanto ritornerà; uno sterminio è decretato, che farà traboccare la giustizia”.

Un piccolo resto, un resto fedele, minoranza abramitica, che non zela per affermare la sua identità e la sua missione di salvezza, che non si pensa, in un delirio universalistico, come il tutto, con gli annessi progetti di colonizzare, a fin di bene, tutta la realtà, tutta la storia.

Ma è resto che non si definisce nemmeno come una mera parte di una sinfonia di particolarità. Se è un resto fedele al tempo, inteso come kairós, vive infatti costantemente in amorosa, ma radicale, critica profetica, politica ed etica nei confronti dei poteri di questo mondo e, ovviamente, anche dei poteri che la comunità insiste da sempre a introiettare, negando agape, perdono, fraternità e sororità.

Così facendo, queste nascoste minoranze, assumono il rischio mortale della sequela di Gesù e ripropongono la sua sconfitta, unica porta che si apre alla Vita risuscitata.
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