Sinodalità della e nella Chiesa

di: Paola Zampieri

sinodalita

Una ventina di teologhe e teologi di sette istituzioni accademiche italiane hanno lavorato insieme per quattro anni a un progetto di ricerca sulla dimensione sinodale della Chiesa e sulle pratiche ecclesiali di sinodalità. Un percorso, di fatto “sinodale”, sviluppato fra il 2015 e il 2019, articolato in sei seminari e un convegno finale, che offre oggi al pubblico i suoi contributi nel volume Sinodalità. Dimensione della Chiesa, pratiche nella Chiesa, curato da Riccardo Battocchio e Livio Tonello.

Un “gesto di restituzione”, lo definiscono i curatori, con cui i teologi riconoscono di non possedere un sapere originario ma di avere accolto un dono – ciò che la Chiesa crede, vive e annuncia – e di restituirlo arricchito, per quanto possibile, di consapevolezza critica in rapporto al mutare dei tempi e delle culture.

La riflessione della Chiesa e dei teologi – sottolinea Roberto Tommasi nella presentazione – ha due compiti che si intrecciano e si fecondano reciprocamente: l’approfondimento delle questioni teoriche (bibliche, teologiche, antroposociali, pastorali, giuridiche…) e un costante ascolto e attenzione allo stile della vita ecclesiale effettiva e delle sue prassi, che è sempre vita di una Chiesa che è nel mondo; dall’esecuzione di questi due compiti dipende, almeno in parte, la qualità del clima ecclesiale e della forza testimoniale della comunità cristiana nelle società e culture in cui abita.

Se oggi si può parlare di sinodalità come “dimensione costitutiva della Chiesa” è grazie al processo di recezione del concilio Vaticano II, un percorso faticoso, in cui il cambiamento si è nutrito del dialogo con la Scrittura e la tradizione ma anche con la storia, il diritto canonico, la sociologia e la psicologia.

Con papa Francesco il riferimento alla sinodalità ha trovato un’accoglienza per molti versi inedita nel linguaggio magisteriale e su queste tematiche sarà chiamata a interrogarsi anche la prossima Assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi prevista per il mese di ottobre del 2022 sul tema Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione.

In questo contesto il volume Sinodalità. Dimensione della Chiesa, pratiche nella Chiesa propone, rivisti dagli autori, i testi che sono frutto degli incontri che hanno scandito il percorso di ricerca assieme alle relazioni presentate al convegno (Padova, 12 aprile 2019), cui hanno contribuito sei facoltà teologiche italiane (del Triveneto, di Sicilia, Pugliese, dell’Italia Centrale, dell’Emilia-Romagna, dell’Italia settentrionale) e l’Istituto Universitario Sophia (Loppiano), con il sostegno del Servizio nazionale per gli studi superiori di teologia e di scienze religiose della Conferenza episcopale italiana.

La prima parte permette di accostare due questioni ecclesiologiche di fondo (l’articolazione carismatica e ministeriale della comunità ecclesiale: Severino Dianich e Gaudenzio Zambon) per passare a prendere in considerazione alcuni soggetti (vescovo e presbiterio, le donne: Gianfranco Calabrese e Simona Segoloni Ruta) e alcuni organismi che esprimono, in modo diverso, il carattere sinodale dei processi ecclesiali (il sinodo diocesano: Roberto Repole e Matteo Visioli; i consigli pastorali, diocesano e parrocchiale: Vito Mignozzi, Livio Tonello, Alessandro Giraudo).

La seconda parte – gli “Atti” del congresso – è introdotta da una presentazione dello studio della Commissione teologica internazionale (Piero Coda) ed è seguita da due interventi sulla sinodalità in prospettiva teologica (Carmelo Torcivia) e filosofica (Roberto Mancini).

I due contributi successivi puntano l’attenzione sulla dinamica della decisione, dal punto di vista ecclesiologico, ma con significativi riferimenti alle scienze sociali (Serena Noceti) e dal punto di vista delle scienze della formazione (Michele Visentin).

Al rapporto complesso fra sinodalità e collegialità – nell’articolarsi delicato delle relazioni all’interno della Chiesa, tra le Chiese, tra i vescovi – sono dedicati i contributi di Dario Vitali e di Matteo Visioli.

Gli ultimi interventi nascono da due dei “laboratori” che hanno coinvolto i partecipanti al convegno: uno sulla vita consacrata quale luogo in cui si può fare esperienza di sinodalità (Ugo Sartorio), l’altro sulle condizioni che permettono il maturare, nelle singole persone e nella Chiesa, a diversi livelli, di una “mentalità sinodale” (Assunta Steccanella).

La terza parte – curata da Alessio Dal Pozzolo e da Simona Segoloni Ruta – offre una bibliografia per quanto possibile aggiornata sulla sinodalità, dal 2005 al 2019.

Religioni devono dialogare con i processi globali per renderli più umani e finalmente capaci di ridurre le disuguaglianze

Scondo Miroslav Volf le fedi devono dialogare con i processi globali per renderli più umani e finalmente capaci di ridurre le disuguaglianze
Chiese e minareti al Cairo, in Egitto

Chiese e minareti al Cairo, in Egitto – Reuters/Amr Abdallah Dalsh

Avvenire

«Fiorire, come la vita vissuta bene, la vita che va bene, la vita che sta bene. Uso il termine in modo intercambiabile con “la vita buona” e “la vita che vale la pena vivere”. La vita buona non consiste solo nell’avere successo nell’una o nell’altra impresa che intraprendiamo, piccola o grande che sia, ma nel vivere raggiungendo la nostra pienezza umana e personale, questa, in una parola, è fiorire». Ed è pure il titolo di un saggio di Miroslav Volf (Fiorire Il contributo della religione in un mondo globalizzato, Queriniana, pagine 344. euro 30,00), teologo cattolico di origine croata che, dopo essere stato discepolo di Jürgen Moltmann, si è trasferito negli Usa, dove insegna all’Università di Yale.

L’autore è convinto che per giungere alla vita buona sia indispensabile il ruolo delle religioni, che sole possono dare un’anima al processo di globalizzazione, come scrive anche papa Francesco nell’ultima enciclica, quando parla della «musica del Vangelo » che è in grado di spingere i cristiani verso la fraternità con tutti. Ma il mondo sembra andare verso un’altra direzione. Non solo per la pandemia che ha colpito l’umanità, ma per una serie di fattori vari (la violenza crescente, le disuguaglianze nella distribuzione delle ricchezze, i mutamenti del clima) la nostra esistenza sembra precipitare verso «una valle oscura» e «una terra tenebrosa», per ripetere le parole dei salmisti e dei profeti.

Certo, non viviamo nei tempi più bui della storia, l’umanità in molti sensi è progredita, ad esempio nella coscienza dei diritti umani e nella loro applicazione, nel rispetto delle vittime della storia, nelle condizioni di vita, ma ciò non significa che il rischio di una catastrofe non possa incombere. Non solo per il coronavirus, da tempo il cinema ad esempio è dominato da film con scenari apocalittici e distopici, come il film Melancholia di Lars von Trier, che termina con due sorelle e un bambino che cercano di ripararsi in una casupola di legno (un tempio improvvisato?), mentre si fa sempre più vicina la luce di un asteroide che annienterà il mondo. Come interpretare la fine incombente? Siamo forse di fronte all’immagine di un salto nella luce della fede, oppure nel precipitare dell’umanità nella desolazione del nulla? Per non parlare di altre pellicole come L’esercito delle dodici scimmie di Terry Gilliam, in cui la popolazione decimata da un virus è costretta a vivere nel sottosuolo, o il più recente Contagion di Steven Soderbergh che ha anticipato di qualche anno il Covid.

Il processo di globalizzazione ha così un volto ambivalente: mentre contribuisce alla prosperità di milioni di persone, che possono – in alcune zone del globo per la prima volta nella storia – beneficiare dei frutti della crescita economica e dello sviluppo tecnologico, contemporaneamente si porta dietro disuguaglianze enormi, con milioni di persone che continuano a essere disprezzate e a non godere dei beni preziosi della terra. Ambivalenza che vale anche per le religioni, che mostrano un volto di pace, ma anche un fondamentalismo che può sfociare nel terrorismo. Volf fra l’altro è nato in un Paese «che si è dissolto alla fine della storia», toccato per molti anni, dopo il dissolvimento della Jugoslavia in seguito al crollo del comunismo, da guerre dovute a nazionalismi d’impronta religiosa.

Ma dopo aver chiarito l’ambiguità sottesa sia al mondo della globalizzazione sia a quello delle religioni, l’autore vuole dimostrare che la globalizzazione ha bisogno delle religioni per essere liberata dalle sue ombre, dall’enfasi riposta solo sullo sviluppo materiale che rischia di soffocare la compassione: «La globalizzazione – scrive – deve essere addomesticata, cosicché abbia meno probabilità di derubarci della nostra umanità». E poi precisa: «La globalizzazione riguarda principalmente (non in modo esclusivo) il “pane”, un tipo particolare di valorizzazione della vita ordinaria. Essa avanza come se la Parola non fosse la fonte di una vita abbondante e tiene i nostri occhi fissi sulla moltiplicazione del pane». Per poi arrivare ad alcune conclusioni che vale la pena riassumere: le religioni esprimono una visione del fiorire che non può prescindere dall’ancoramento alla trascendenza, per cui non possono concepirsi né essere concepite come meri lubrificanti per gli ingranaggi della globalizzazione; quest’ultima sarà in grado di migliorare davvero le condizioni di vita dell’umanità solo se le «visioni del fiorire umano e alcuni framework morali» la modellano; anche se riguarda soprattutto «il pane e la sua moltiplicazione», la globalizzazione non dev’essere una forza che, trainata dal mercato, compromette la possibilità di una vita spirituale; infine, la globalizzazione può aiutare le religioni a liberarsi da visioni di tipo nazionalistico per riscoprire l’universalità e la fraternità.

Davvero le religioni possono plasmare la globalizzazione per il bene dell’umanità combattendone i soprusi che si trascinano dietro i più vulnerabili e gli ultimi. In questa direzione, per Volf è possibile immaginare una sorta di tavolo comune, delineare alcuni punti che, senza mirare alla creazione di un’unica religione mondia-le, costituiscano un minimo comun denominatore. Essi sono: una descrizione della realtà basata su due mondi, quello terreno e quello trascendente; la concezione dell’essere umano come persona unica e irripetibile; la pretesa di esprimere una Weltanschauung universale, che va oltre le culture e le religioni locali; la capacità di trascendere i confini politici ed etnici e perciò di incarnarsi in ogni cultura; il darsi come obiettivo il bene dell’uomo su questa terra, ma guardando all’aldilà; la capacità perciò di trasformare le realtà terrene, sapendo al contempo dare spazio all’ascetismo e al profetismo, pena la perdita della propria identità.

Riferendosi soprattutto agli studi di Charles Taylor e Ian Assmann, Volf delinea queste caratteristiche di base che non intendono designare l’essenza delle religioni, ma costituiscono a suo modo di vedere affinità strutturali condivise. Nella consapevolezza che con la globalizzazione le religioni non stanno affatto scomparendo, nonostante quanto predetto dai teorici della secolarizzazione, un discorso che riguarda tutte le grandi religioni qui esaminate: il cristianesimo, l’ebraismo, l’islam, il buddhismo, l’induismo, il confucianesimo. Ma perché le religioni possano dare un’anima alla globalizzazione devono – come suggerisce l’enciclica Fratelli tutti– superare l’impulso alla concorrenzialità reciproca e alla violenza che ancora contengono, nonché rinunciare a divenire «marcatori di identità etniche o nazionali».

Nella prospettiva delle religioni mondiali, la vera sfida non è quella di acquisire un vantaggio competitivo sulla scienza e sulla tecnologia né di conservare la stessa quota di mercato, e nemmeno quella di saper fornire beni terreni – come la salute, la longevità e il benessere economico – più di quanto sappia fare la globalizzazione, ma è la capacità di collegare le persone con l’ambito trascendente, di condurre esistenze degne di esseri umani, modulate non solo in base al proprio appagamento ma alla solidarietà. Solo così potranno fiorire e far fiorire, essere una benedizione per l’uomo e per il mondo.

Anticipazione. Educare lo spettatore alla teologia del cinema

Perché anche un film a esplicito soggetto religioso può risultare spiritualmente insignificante, e un film di tema e taglio profano può essere di di altissima impronta religiosa. La collana della FEdS
L’attore Enrique Irazoqui, “Il Vangelo secondo Matteo” (1964) di Pier Paolo Pasolini

L’attore Enrique Irazoqui, “Il Vangelo secondo Matteo” (1964) di Pier Paolo Pasolini

La collana “Lo Spirito del cinema”, che la Fondazione Ente dello Spettacolo inaugura con il testo del cardinale Gianfranco Ravasi Come in uno specchio. Per una teologia del film (pagine 48, euro 8,00), di cui pubblichiamo una parte, si propone di indagare la testimonianza cinematografica nel suo rapporto con l’esperienza del Sacro. Ogni pubblicazione si interrogherà sullo statuto teologico del cinema proponendo due vie per avvicinare questa alta vetta: il sentiero dell’analisi filmica e quello delle diverse discipline della riflessione credente. Rendono prestigiosa la nuova collana i testimoni che la alimenteranno, capaci di offrire la descrizione delle intersezioni di questi due originali cammini.

Era l’anno 1895 e per la prima volta i fratelli Louis–Jean e Auguste Lumière facevano scorrere alcune immagini in movimento, dando origine a quella che sarebbe stata pomposamente chiamata “la settima arte”, la cinematografia. Pochi sanno, però, che alcuni mesi dopo, il 26 febbraio 1896, un operatore, Vittorio Calcina, per conto dei fratelli Lumière, aveva ottenuto il permesso di varcare le soglie del Palazzo Apostolico con le sue apparecchiature destinate a filmare Papa Leone XIII nell’atto di benedire. Da lì a poco un collaboratore di Edison aveva potuto riprendere lo stesso vecchio pontefice mentre passeggiava nei Giardini Vaticani, a beneficio dei fedeli americani desiderosi di vedere il Papa “di persona”. Nel 1897, sul candido lenzuolo che allora fungeva da schermo passava la prima trascrizione in immagini mobili de La passione di Albert K. Léhar, un’esperienza che nel 1899 ripeterà un più noto regista, Georges Méliès, col film cristologico Le Christ marchant sur les eaux, cui seguirà Jeanne d’Arc. Da quei momenti iniziali si snoderà un itinerario che attraverserà tutto il Novecento e tutte le nazioni del mondo e approderà alle incessanti produzioni filmiche, alle variazioni di genere introdotte dalla televisione, alle voragini abissali nel nadir delle perversioni, delle violenze, della pornografia, ma anche allo zenit dei capolavori di umanità e spiritualità, alle esaltazioni dei colossal fino alle inedite creazioni digitali attuali, alla valanga della retorica di certi film “biblici” e agiografici, al moltiplicarsi dei festival e così via. Non è possibile né è nostro compito ora ricostruire questa storia, sia pure soffermandoci solo sulla filmografia che coinvolge la fede. Ci accontenteremo, perciò, di presentare una trilogia schematica, simile a un trittico mobile e di taglio impressionistico. Nella prima scena abbozzeremo un essenziale cenno teorico e teologico; nel secondo quadro faremo salire sulla ribalta, in una sorta di galleria di ritratti minimi, alcuni protagonisti – anche inattesi – della dialettica tra cinema e fede. Infine ci rivolgeremo ai non molti ma significativi approcci pastorali ufficiali offerti dal Magistero, mentre la Chiesa era coinvolta vivacemente nella trionfale affermazione della “settima arte”.

La matrice del cinema si lega sostanzialmente a due categorie fondamentali anche nella teologia, l’immagine e la parola, colte nella loro dinamicità ed efficacia. Alla giusta reticenza aniconica del Decalogo che proibisce ogni rappresentazione di «ciò che è nel cielo, sulla terra e nelle acque sotto terra» ( Esodo 20,4) per liberare il Dio persona da ogni forma oggettuale idolatrica, subentra la svolta neotestamentaria. Nelle Scritture cristiane e nella Tradizione la domanda di fondo sulla rappresentabilità del sacro è subito evasa in senso favorevole, non solo perché il linguaggio teologico è per sua stessa natura simbolico e analogico – come per altro aveva già intuito il libro della Sapienza, convinto che «dalla bellezza e magnificenza delle creature analógôs [per analogia] si può ascendere al loro Autore» (13,5) – ma anche perché il cristianesimo ha nel suo cuore l’Incarnazione che vede nel volto umano di Gesù di Nazareth una eikôn, un’icona, un’immagine del Dio invisibile, come scriveva san Paolo ai Colossesi (1,15). In questa linea si illumina anche la scelta iconica della Chiesa che si opporrà con forza all’iconoclasmo nel Secondo Concilio di Nicea (787), generando e sostenendo quello straordinario patrimonio artistico che avrà il suo approdo necessario anche nella stessa cinematografia. Non è secondario, poi, il fatto che i due linguaggi, il filmico e il religioso, sono per loro natura performativi. Pur con tutte le distanze e le differenze del caso, la “sacramentalità” dell’atto liturgico ha un’analogia nell’efficacia dell’ “azione” cinematografica che cerca di “attuare” nello spettatore ciò che rappresenta. Ci sono, infatti, nei film di autentica qualità artistica e spirituale alcune suggestioni irrevocabili che, dopo il congedo dallo spettacolo, continuano a vivere nell’interiorità e nella stessa esistenza dello spettatore.

 

 

L’altra componente che intreccia fede e film è la parola. Naturalmente non intendiamo solo il sostegno che il dialogo offre alla rappresentazione, ma il racconto visivo. Ora, si comprende che la Bibbia sia divenuta un soggetto appetibile dal cinema perché è per sua natura “storia della salvezza” e quindi narrazione. È suggestivo un aforisma giudaico che afferma: «Dio ha creato gli uomini perché Egli – benedetto sia – ama i racconti ». Ci sono, così, pagine bibliche che sembrano già un soggetto cinematografico, come nel caso delle 35 principali parabole di Gesù. Altri testi si presentano quasi come una sceneggiatura pronta per le riprese: si provi a leggere, ad esempio, il celebre racconto dell’adulterio di Davide e dell’assassinio di Urìa presente nei cc. 11–12 del Secondo Libro di Samuele. In quest’ottica si sono sviluppati alcuni capolavori come il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) ma anche una serie di colossal di grande impegno finanziario e tecnico ma di modesta qualità religiosa. Pensiamo alla Più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965), a Il grande pescatore di Frank Borzage (1959) o al Re dei re di Cecil B. DeMille (1927) remake di Nicholas Ray nel (1961); quest’ultimo ebbe anche il merito di aver diretto un più significativo film divenuto un “classico” della cinematografia biblica, I dieci comandamenti (1956). Non si badava a spese e a effetti, ma alla fine si otteneva un’iconografia enfatica e solo esteriormente religiosa, anzi, in alcuni casi destinata a rasentare il sadismo, come nell’esagitato, La Passione di Cristo (2004) di Mel Gibson (90 minuti di torture su 126 di film!). Né si devono escludere le non rare provocazioni blasfeme che attingevano la loro capacità di scandalo proprio nell’uso improprio del testo sacro ( L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese del 1988, in verità meno negativa di quanto sembrasse, divenne al riguardo un emblema. Anche per il cinema si può, comunque, riproporre l’antica querelle che ha tormentato critici e teologi riguardo alla definizione dell’arte sacra o dell’arte religiosa (che non sono necessariamente sinonimi). In realtà, bisognerebbe superare le classificazioni troppo rigide perché anche un film a esplicito soggetto religioso può risultare spiritualmente insignificante, e un film di tema e taglio profano può essere di altissima impronta religiosa.

Il bello della teologia

di: Roberto Mela

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Se alcuni autori hanno avuto un grande successo nel far risorgere lingue “morte” come il latino e il greco, perché non potrebbe essere anche il caso della teologia? Non si può continuare a pensarla confinata nei seminari, come ritengono quasi tutti, con compiti funzionali. «Solo una teologia bella, che abbia il respiro del Vangelo e non si accontenti di essere soltanto funzionale, attira» afferma papa Francesco (Discorso alla Commissione teologica internazionale, 28/11/2019).

Il libro di Armando Matteo nasce da questa sana “invidia”, dall’ammirazione per la fortuna riscossa da opere di autori coraggiosi. L’autore è convinto che è possibile trasmettere la “novità” di Gesù ai confini dei cuori degli uomini e delle donne dei nostri tempi rendendola interessante, vitale. Far sentire loro che quando Gesù parlava, parlava di Dio agli uomini e degli uomini a Dio, ai quali egli rimane molto interessato.

Il “mistero” e la Luce

La “teologia” è un discorso (logos) su Dio (theos), un discorso che riguarda Dio ma anche l’uomo e la sua felicità. Essa nasce dall’avvertire un mistero che circonda l’uomo circa la sua provenienza, il senso del cammino, l’esito finale del proprio andare. Il “mistero” non è qualcosa di inconoscibile a cui arrendersi più o meno in partenza, ma ciò che proprio per la sua vastità e inesauribilità richiede sempre nuovi sforzi di comprensione e di attenzione. Una realtà – afferma Matteo – a cui approcciarsi come i topi, chiudendo gli occhi e serrando la bocca per percepirne a poco a poco il contenuto.

Dall’inizio dell’universo gli uomini hanno vinto l’angoscia trovando le parole per dire il mondo, esprimendo con esse non solo le denominazioni delle cose, ma anche il sapore del mondo. Ciò ha potuto accadere perché una condizione di possibilità vi era data: Dio, la cui etimologia rimanda al significato primordiale di “Luce”. Dio è la Luce, il Luminoso che dà possibilità di accostarci al mistero e alla realtà in genere illuminandone il senso profondo.

On the road

Gesù compare sulle strade della Palestina. Un «giovane ebreo» con cui confrontarsi «corpo a corpo», in modo necessario, unico e assoluto (P. Sequeri). Dio-uomo on the road ha rivelato il Padre con le sue parole e i suoi gesti, anche “scandalosi”, di accoglienza e di guarigione. Un Dio che per tutti è amore, che non lascia nessuno indietro, non trascura alcun uomo.

Gesù svela Dio e lo fa nell’estrema paradossalità della croce. Egli non si tira indietro dal dono totale di sé e, dopo la Pasqua, i suoi discepoli lo hanno sperimentato vivo e risuscitato dal Padre. Ad essi ora è data la possibilità di scrutare Dio, il mistero dei misteri, dando origine alla teologia, il discorso su Dio.

I Vangeli, la “bottega” della teologia

I Vangeli si presentano come la prima “bottega” della scienza teologica. Con stili diversi, i quattro evangelisti hanno ricuperato i detti e i fatti riguardanti Gesù. Con un linguaggio vivo, attraente, che attinge dal vissuto concreto della gente – specialmente con le parabole e altri strumenti linguistici –, Gesù e gli evangelisti toccano il cuore degli uomini nel variare delle loro culture, cioè “gli occhiali” con cui leggono e vivono la realtà in cui sono immersi.

La scelta del greco come lingua di scrizione mostra chiaramente il loro primario interesse ai destinatari dei loro scritti. Si tratta di mettere in rapporto Gesù con i lettori e viceversa. «È Gesù che per primo agisce in modo che la rivelazione che egli offre a riguardo del mistero di Dio non sia mai espressa in modo indifferente ai vissuti e agli immaginari del destinatario. Ciò che è in gioco nell’accoglienza o meno di quella relazione è esattamente la possibilità di un nuova relazione con la propria esistenza da parte chi ascolta in quanto vi è più radicalmente in gioco la possibilità di una nuova relazione con Dio. E viceversa. Vi è in gioco la possibilità di una nuova relazione con Dio proprio perché ne va di una nuova riuscita relazione con la propria esistenza» (pp. 59-60).

Gesù annuncia che Dio è per tutti amore e la fede è «imparare a vedere il mondo con gli occhi stessi di Gesù, a considerarne la totalità del suo punto di vista, ad apprezzarne la consistenza e bontà a partire dai suoi indici di valore (p. 60). I Vangeli sono stati scritti per far conoscere Gesù e affinché il cuore degli ascoltatori/lettori possa “ardere” e decidersi per lui. Si è creato uno spazio di un effettivo ed efficace dinamismo di presenza di Gesù, una scrittura performante, soprattutto con la “creazione” magnifica di singoli personaggi modelli di ogni possibile difficoltà a dare credito alla verità che emerge dai gesti e dalla predicazione di Gesù.

Dio non è lontano da nessuno e, dandogli credito, io posso ripristinare una relazione di prossimità con la mia vita. Dio ama tutti e inquieta per liberare. Liberando inquieta, inquieta liberando. Nei Vangeli incontriamo il linguaggio caldo e sereno delle cose, un linguaggio tratto dalla vita quotidiana. Un eloquio che illumina, scioglie, riscalda, purifica e incendia. Il lettore è inviato sempre di nuovo a mettere in questione la propria vita e il suo rapporto col mistero di Dio.

Animale non stabilizzato

L’autore riassume così il compito del teologo cattolico romano: «Comunicare Gesù assiduamente, lavorando in vista del sorgere di un desiderio della fede negli uomini e nelle donne della generazione cui egli appartiene, scrupolosamente individuando nel loro cuore gli spazi di apertura e quelli di resistenza alla decisione della fede. Promuovendo gli uni, smussando gli altri» (p. 62).

Animale non ancora stabilizzato, l’uomo è privo di istinti, cioè di risposte rigide agli stimoli esterni. Questo fatto lo mantiene libero, capace di progresso nella comprensione e nel dominio di ciò che lo circonda, capace di guidare in libertà la costruzione della propria vita. La libertà fondamentale dell’uomo gli dà la possibilità di aprirsi ai discorsi che danno senso alla propria esistenza.

La scoperta dei propri limiti, la capacità di lamentarsi, spinge l’essere umano in avanti, essendo la coscienza del proprio limite il suo tratto tipico. L’uomo è «un animale non ancora stabilizzato. Insomma, un animale semplicemente libero. Più concretamente: animale che si lamenta, comunque». (p. 70). E questo dà la possibilità del cambiamento, della mutazione, della trasformazione e del miglioramento. Cambiano in tal modo le culture, gli “occhiali” con cui l’essere umano guarda il mondo.

Il compito della teologia

Quale dunque il compito della teologia, del discorso divino, della scienza divina? È quello di fare da ponte tra il messaggio che i Vangeli rendono disponibili e le differenti stagioni della mai sopita evoluzione culturale degli uomini. Fare ponti perché la storia di Gesù, la suastoria (his- story), diventi quella dell’uomo e viceversa.

Nei quattro capitoli seguenti del libro (pp. 81-154) l’autore scorre velocemente la storia della teologia. I padri, alla luce di Platone, proposero la sapienza. Con uno sguardo positivo ad Aristotele, i dottori proposero una teologia per il Medioevo, sapendo che la mente non mente. Nell’età della ragione gli apologeti dovettero combattere sulla difensiva, situazione in cui è difficile vincere. Occorre scommettere per credere (Pascal). I mistagoghi, infine, agiscono nel regno libero della libertà. Gli “occhiali” postmoderni fanno dire all’uomo che è possibile toglierli tutto, ma non la propria libertà. E allora sarà l’occasione di chiedere a tutti: Cosa è veramente degno della mia libertà? Solo l’amore è credibile… Anche «nella postmodernità – cioè nel regno libero della libertà – l’amore possiede risorse sorprendenti» afferma l’autore (p. 152).

Teologia bella

L’ultimo capitolo della sua fatica (pp. 155-170) Matteo lo dedica al panorama odierno che pare mostrare una pressoché totale estraneità delle persone al messaggio evangelico e alla pratica religiosa. Pare interrotta la trasmissione generazionale della fede. Sembra persa la memoria collettiva della fede.

Molti testimoni oggi, a partire da papa Francesco e da molti teologi, si pongono come antenne per Dio, che sembrano mancare.

Tutti i credenti, però, devono cercare modalità nuove di trasmissione della fede, trasformando gli attuali luoghi ecclesiali. Da luoghi di celebrazione della fede dovranno «diventare soprattutto luoghi di generazione alla fede. Se uno non si incrocia e non si innamora di Cristo, lì dove i credenti pubblicamente ne celebrano la fede, sarà difficile che possa capitare altrove. Lì dove i cristiani si incontrano, lì si deve operare affinché chiunque possa incontrarsi con Gesù e la sua parola su Dio» (p. 166).

Da parte loro, i teologi dovranno sforzarsi di dare alla luce una teologia bella, capace di parlare in modo bello della singolare bellezza di Gesù, creando ponti tra la rivelazione del mistero di Dio offerta in Gesù e la “filosofia di vita” di ogni generazione presente al mondo (e che si esprime spesso in romanzi, saggi filosofico-sociologico-psicologici, film, canzoni, opere d’arte, app dei telefoni, moda dei capelli e dei vestiti ecc.).

Quale spazio c’è per un parola su Gesù? Per un parola di Gesù? Le persone lo ascolteranno se sentiranno parlare loro di una persona interessata alla loro storia di felicità. Una teologia bella, evangelica, sana e sanificante che fa interagire quotidiano e vangelo, facendo scaturire vita felice.

Credere o non credere, questo è il problema”, ricorda Matteo nella sua conclusione, dove commenta alcuni incontri di Gesù con persone che rende felici (Levi/Matteo, la peccatrice, Zaccheo, il centurione), ma anche delusi, seppur amati (il giovane ricco) (pp. 171-182).

Chiude il volume una piccola bibliografia di riferimento (pp. 183-186).

La percezione dell’amore

Mi piace riprendere la splendida pagina di von Balthasar posta a chiusura del volume (p. 153). L’amore “ostinato” della mamma schiude il bimbo e lo sveglia all’amore e alla conoscenza. Egli raggruppa tutte le vacue impressioni sensibili attorno al nucleo del tu. «Così Dio si manifesta all’uomo come amore: è Dio che illumina l’amore e lo fa risplendere e accende nel cuore umano la luce dell’amore, quella luce che è appunto in grado di vedere questo amore – l’amore assoluto: “Poiché Dio, il quale disse che dalle tenebre splendesse la luce, egli stesso rifulse nei nostri cuori, perché si rendesse chiara la cognizione della gloria di Dio nel volto di Gesù Cristo” (2Cor 6[sic!]; lege 2Cor 4,6). Da quel volto ci sorride paternamente-maternamente la Causa prima dell’essere. In quanto siamo sue creature, il germe dell’amore – come immagine (imago) di Dio – è assopito dentro di noi. Ma come nessun bambino si sveglia all’amore se non è amato, così nessun cuore umano potrà destarsi alla comprensione di Dio senza il libero dono della sua grazia – nell’immagine del suo Figliolo» (cit. da La percezione dell’amore. Abbattere i bastioni Solo l’amore è credibile, Jaka Book, Milano 2010, 105-106).

  • Armando MatteoEvviva la teologia. La scienza divina, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2020, pp. 192, € 16,00, ISBN 9788892222724.
  • Settimana News

Elogio della teologia

di: Andrea Lebra

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Non sono né un teologo, né un prete, né un monaco, né un insegnante di religione. Solo un credente che – come direbbe Erri De Luca in Ora prima, Edizioni Qiqajon 1997, pag. 7 – «in obbedienza al participio presente del verbo» credere cerca di rinnovare «il suo credo continuamente». Di tanto in tanto e mai con approcci meramente intellettualistici privi di una reale rispondenza con la vita di fede, frequento anche testi di teologia cristiana.

Quando, nei giorni scorsi, ho visto in libreria Evviva la teologia – La scienza divina (Edizioni San Paolo, 2020), l’ho acquistato a occhi chiusi, avendone letto in caratteri cubitali il nome dell’autore: Armando Matteo.

Docente di teologia fondamentale alla Pontificia Università Urbaniana, Matteo è davvero – come scrive Brunetto Salvarani in Dopo – Le religioni e l’aldilà, Editori Laterza 2020, pag. XXIII – «un teologo capace di parresìa». Per averci negli anni regalato saggi particolarmente incisivi nell’analizzare la complessità delle attuali condizioni del credere e nel tradurre i contenuti della fede cristiana nel linguaggio e nella sensibilità degli uomini e delle donne della post-modernità, mi sembra che lo si possa a ragione inserire tra i teologi italiani che non si accontentano «di una teologia da tavolino» (Francesco, Evangelii gaudium n. 133).

Obiettivo di “Evviva la teologia”

Convinto che la teologia cristiana nella versione cattolica non sia «solo una cosa da preti e di chi decide di farsi prete» (pag. 8), Matteo, con questo suo ultimo volume – decisamente godibile per stile di scrittura e semplicità di linguaggio – si pone l’obiettivo non di fornire un’ennesima storia della teologia, ma di compiere, con il lettore, un viaggio per mettere a fuoco «uno stile teologico capace di stare al passo delle generazioni di uomini e di donne che ora abitano questo mondo e dunque in grado di riuscire a suscitare, esattamente nei loro cuori, un libero e vivo desiderio di porsi all’ascolto della singolare parola di Gesù circa il mistero più grande di ogni mistero: il mistero di Dio» (pag. 15).

Mistero «la cui vastità e inesauribilità richiede sempre nuovi sforzi di comprensione e di attenzione» (pag. 23). Sì, perché di Dio e del suo mistero è possibile dire qualcosa, avendo Dio detto qualcosa di sé attraverso Gesù di Nazareth.

Gesù di Nazareth: luogo generativo della teologia cristiana

Il «luogo generativo» della teologia (discorso/logos su Dio/theos) cristiana è proprio Gesù: in lui «Dio si dà in persona» (pag. 42).

È da Gesù che la teologia, ogni volta, parte e riparte. «Si aggrappa alle sue parole, ai suoi gesti, alla sua vicenda, per afferrare sempre meglio e sempre più ampiamente la novità che quelle parole, quei gesti, quella vicenda hanno immesso nello spazio del sapere umano circa il mistero di Dio, la sorte dell’uomo e la consistenza del mondo, a quel mistero profondamente intrecciate» (pag. 11).

«Senza un vigoroso corpo a corpo» con Gesù di Nazareth, «senza un confronto senza sconti con le sue parole, con i suoi gesti, con l’interezza della sua vicenda», così come i Vangeli ci narrano, «per il cristianesimo, non si dà teologia e dunque non si dà un discorso su Dio» (pagg. 36-37).

L’avvincente viaggio che il prof. Matteo compie con il lettore non può, dunque, che prendere avvio proprio da quegli scritti particolari che si chiamano Vangeli (pagg. 51-66).

Incarnare la fede nella vita, cioè mediare tra fede e culture

Ma per dire agli uomini e alle donne del nostro tempo la novità di Gesù – cioè di «quel giovane ebreo che, oltre duemila anni or sono, ha avanzato la pretesa di portare, o meglio di essere, una parola decisiva a proposito del mistero di ogni mistero: a proposito di Dio» (pag. 33) –, la teologia, in quanto strumento di mediazione tra la fede e le culture, deve essere non «disquisizione cattedratica sulla vita, ma incarnazione della fede nella vita», dal momento che – e sono parole usate da papa Francesco, incontrando il 29 novembre 2019 i membri della Commissione teologica internazionale – «solo una teologia bella, che abbia il respiro del Vangelo e non si accontenti di essere soltanto funzionale, attira» (pag. 14).

Per il docente della Pontificia Università Urbaniana chi pratica la teologia non può non avvertire il bisogno impellente di intrattenere «rapporti viscerali con le dinamiche profonde della cultura al cui interno essa si realizza» (pag. 12).

A tal fine, il teologo disponibile – sono ancora parole di Francesco – a diffondere con dolcezza e rispetto «il gusto buono del Vangelo ai fratelli e alle sorelle del proprio tempo» non si risparmierà alcuna fatica. «E così, soprattutto nel tempo che ci è dato vivere, egli leggerà e studierà e approfondirà ogni romanzo e ogni saggio filosofico-sociologico-psicologico e ogni film e ogni programma televisivo e ogni canzone e ogni opera d’arte ma anche ogni nuovo capo di abbigliamento e ogni nuova applicazione per il cellulare e ogni nuovo cambiamento di slang e ogni nuovo taglio di capelli e altro ancora che sembra promettergli un aiuto per gettare uno sguardo sul cuore dei suoi contemporanei e verificare quanto e quale possa esservi per una parola su Gesù, per una parola di Gesù» (pagg. 173-174).

teologiaMediare tra fede e cultura, tra fede e modi con i quali gli umani si rapportano con il mondo è proprio il compito della teologia. Spetta ad essa trovare, in mezzo al «fiume di culture che si succedono l’una all’altra, le parole, i gesti e i modi più pertinenti per dire la verità, l’unicità, la bontà e la bellezza di Gesù e per dire tutto ciò in modo che (…) in ogni stagione storica chiunque possa intendere quanto la propria personale storia possa beneficiare dell’intrecciarsi con quella di Gesù» (pag. 75).

Sostanzialmente la teologia serve a costruire ponti tra Gesù e il cuore della gente che si avvicenda lungo i secoli. «Un compito affascinante, sublime. Un compito faticoso, disperante» (pag. 75). Perché è indubbiamente laborioso individuare i modi efficaci per far sì che la proposta di Gesù raggiunga e scaldi il cuore degli uomini e delle donne del tempo in cui vivono.

Insomma, «finché c’è storia umana, la teologia non può andare in ferie» (pag. 76), perché «la teologia non si dà mai una volta per tutte» (pag. 12).

L’epoca dei mistagoghi e delle mistagoghe

Ben quattro capitoli del saggio sono dedicati ad indagare come i teologi, in duemila anni di storia della cristianità, si sono esercitati nel compito di mediazione tra Gesù e il suo Evangelo e «la continua opera di creazione culturale che ogni generazione che viene al mondo compie» (pag. 76).

Dai Padri della Chiesa (pagg. 81-97) ai Dottori della Chiesa (pagg. 99-117), dall’epoca degli Apologisti (pagg. 119-236) alla nostra epoca dei Mistagoghi (pagg. 137-153).

Mi voglio brevemente soffermare sull’ultima tappa del viaggio proposto da Matteo: quella del nostro tempo, che si è soliti indicare come tempo della postmodernità. Tempo nel quale la fede non si trasmette più semplicemente per tradizione, familiare o sociale, come se la si dovesse continuare a considerare come qualcosa di ovvio per tutti, ma è sempre più oggetto di scelta consapevole e criticamente avvertita, in presenza di un pluralismo crescente di credenze e di non credenze.

Quella della postmodernità è l’epoca dei mistagoghi, l’epoca di una sorta di «agenti segreti di Dio», che hanno il compito di risvegliare, nei «cuori dormienti» (pag. 80) degli umani il desiderio di Dio, accompagnandoli in percorsi specifici e strutturati che li aiutino a irrobustirsi nella vita di fede e attivando potenzialità creatrici analoghe in qualche modo a quelle messe in opera nell’epoca neotestamentaria.

A tal fine, i tempi che viviamo necessitano di un discorso teologico in grado «non solo di trovare i modi per strappare all’estraneità diffusa Gesù e il suo Vangelo e farli riverberare come interessanti alle menti e ai cuori degli uomini e delle donne postmoderne, ma anche di indicare, a questi ultimi, giardini fioriti dove poter coltivare quel seme di interesse cristiano con tanta fatica spuntato nel loro cuore» (pag. 166).

Ma, purtroppo, al momento è abbastanza facile constatare che «le attuali strutture ecclesiali quasi per nulla assomigliano a giardini fioriti, nei quali abbondante scorre l’acqua fresca della lettura dei Vangeli e sopra ogni ombra splende il sole nutriente della preghiera» (pag. 166).

La Chiesa di oggi, le nostre comunità, le nostre associazioni, i nostri movimenti, noi cristiani di oggi, io credente che, in obbedienza al participio presente del verbo credere, cerco di rinnovare continuamente il mio credo… tutti abbiamo più che mai bisogno di mistagoghi e mistagoghe con le caratteristiche delineate da Armando Matteo in questo suo bel saggio: persone che hanno la passione «di creare ponti tra il Vangelo di Gesù e l’incessante variazione dei contesti culturali lungo il succedersi delle generazioni umane» (pag. 101), persone capaci di scaldare i cuori parlando «di Gesù e a partire da Gesù» (pag. 174), persone che sanno trovare e usare le parole adatte per comunicarci che il Vangelo di Gesù «sempre permette a chiunque di essere all’altezza della parte migliore di se stesso» (pag. 181).

E anche persone – come ha scritto Francesco nella lettera indirizzata il 3 marzo 2015 al Gran Cancelliere della Pontificia Università Cattolica Argentina – che «odorano di popolo e di strada» e che, con la loro riflessione, sanno «versare olio e vino sulle ferite» degli uomini e delle donne del nostro tempo.

Un piccola testimonianza personale

Chi, dopo avere letto con grande piacere e interesse il saggio di Armando Matteo, ha steso queste note partecipa e contribuisce ad animare una piccola associazione («La Tenda dell’Incontro Giovanni Giorgis»), nata trent’anni fa per diffondere la conoscenza della Bibbia a livello popolare su iniziativa di Giovanni Giorgis, presbitero della diocesi di Mondovì (CN) e docente per 35 anni di sacra Scrittura nel seminario monregalese e alla Facoltà teologica di Torino.

Poco prima della sua morte, avvenuta cinque anni fa all’età di 90 anni, don Giorgis ci chiese di continuare l’esperienza associativa con le nostre forze e le nostre capacità.

Lo stiamo facendo, grazie alla disponibilità di amici teologi e amiche teologhe – tutti e tutte semplicemente eccellenti – che, su nostra richiesta immediatamente accolta, con grande competenza e bravura ci stanno facendo da guida nella realizzazione dei nostri programmi, offrendoci un aiuto straordinariamente efficace per irrobustirci nella nostra vita di fede e facendoci gustare la bellezza della novità di Gesù. Tutte persone che – mi sembra di poter dire con certezza – concepiscono e forniscono il loro servizio a livello teologico esattamente secondo quanto indicato in modo magistrale da Armando Matteo.

Dunque, evviva la teologia! Quando sa adoperare «ogni risorsa di intelligenza e di sentimento per ridurre, assottigliare, fin quasi far scomparire la linea di demarcazione» tra «coloro che pensano che le parole, i gesti e la vicenda di Gesù, consegnati ai Vangeli, siano affidabili e coloro che pensano che quelle stesse parole, questi gesti e quella vicenda siano inaffidabili; tra coloro, dunque, che pensano che la storia di Gesù abbia a che fare con la storia della loro felicità e coloro che pensano che la storia della loro felicità non abbia a che fare con la storia di Gesù» (pag. 173).

Settimana News

Al di là delle tentazioni

Osservatore Romano

A un anno dalla morte pubblicato l’ultimo libro scritto dal teologo Giordano Frosini sul tema della divinizzazione

05 settembre 2020

Pubblichiamo alcuni stralci della prefazione al libro di Giordano Frosini e Andrea Vaccaro, «Admirabile Commercium. La divinizzazione nei Padri della Chiesa» (Le Lettere Editrice, Firenze, 2020, pagine 364, euro 24).

Il 2 settembre dello scorso anno ha lasciato questa vita l’indimenticato e indimenticabile collega e amico Giordano Frosini. Ora è in quell’oltre, in cui credeva profondamente e in nome del quale ha esercitato il suo ministero teologico, con stile spesso ruvido e scostante, immediato e coinvolgente, che non gli impediva, anzi favoriva, la modalità raffinata e colta con cui affrontava le diverse problematiche teologiche, sociali, politiche e culturali del suo e del nostro tempo, sia nella ricerca come nella divulgazione. E proprio il tratto riservato del suo carattere gli consentiva di prendere le distanze da forme di devozione bigotte e moralistiche, spesso dominanti fra il clero e la gente che frequenta le sacrestie piuttosto che la chiesa. Una riserva escatologica che dovrebbe metterci in guardia dalle tentazioni del clericalismo (frequente anche in molti laici, politicamente corretti, a volte più che nel clero) e dal carrierismo. Rischi che il Nostro ha certamente evitato nel corso della sua esistenza terrena.

Abbiamo tra le mani uno dei lasciti della feconda produzione teologica del Frosini. Fino all’ultimo ha lavorato e scritto e l’inedito incompiuto che ora si pubblica testimonia la sua laboriosa passione speculativa ed educativa. La fatica è dedicata a una tematica rischiosa e allo stesso tempo affascinante della divinizzazione (“parola magica”), ma «dove aumenta il pericolo, cresce ciò che salva» (F. Hölderlin). La lettura consentirà a molti di imparare molto su un termine spesso utilizzato, anche dai teologi, senza adeguata documentazione e approfondimento. Allo scavo storico e storiografico si accompagna la riflessione teoretica, che attraversa tutto il libro e che qui non è il caso di riassumere. Mi limito pertanto a segnalare due motivi di cogente e rischiosa attualità, che un tema così vasto non manca di proporre alla fede in prima e alla teologia in seconda (se si vuole secondaria) battuta. Vorrei solo, inserendomi in qualcuno degli interstizi di questo saggio, introdurne la riflessione, come segno di gratitudine per l’invito rivoltomi a scriverne qualche riga di presentazione.

«Eritis sicut Deus» (Genesi, 3, 5) è la tentazione del serpente, che W. Goethe pone sulle labbra di Mefistofele: «Studiate pure, uomini, approfondite la scienza, divenite dotti e sarete come dei: conoscerete il bene e il male», e, allo studente che gli cita il versetto biblico: «Segui pure il detto antico del mio cugino serpente. Un giorno la tua somiglianza con Dio ti farà paura» (Faust i, 2048-2050). Il consiglio/tentazione segue l’invito a studiare la metafisica prima di qualunque cosa, per cercare di comprendere fino in fondo «quel che la mente umana non penetra»: «Per quel che vi entra e per quel che non vi entra c’è sempre pronto un bellissimo termine» (Faust i, 1947-1954). Ofiti post litteram, mentre abitiamo quel paradiso perduto, che ci pervade di nostalgia. La metafisica del serpente, che Nicolas Malebranche attribuiva ad Aristotele è alla base di quella “tentazione gnostica”, descritta da Giovanni Filoramo come desiderio di “diventare Dio”. In questo senso Papa Francesco coglie tutte le occasioni possibili per indurci a recitare il “non ci abbandonare nella tentazione”! rispetto al risveglio dello gnosticismo, che ai suoi occhi assume la forma dell’intellettualismo. In ogni caso il tema della divinizzazione è mistero metafisico, certo non in senso aristotelico, ma, come qui si mostra ampiamente, stoico e platonico, prima ancora che propriamente teologico. E il mistero ci rimanda all’“uno e tutto” presocratico e ad Empedocle con la leggenda della sua morte cantata dal poeta.

Ma il serpente ha due volti ed è protagonista di diverse vicende. Oltre quella della Genesi, che l’Apocalisse evoca, le antiche scritture attestano la figura del “serpente di bronzo” (Numeri, 21, 4-9), che nel suo affresco di palazzo vecchio il Bronzino, meno fedele al testo veterotestamentario rispetto a Michelangelo, ha intrecciato alla croce. E così la gnosi, se non intendiamo banalizzarla, si può dire in diversi modi. La scuola di Alessandria, qui efficacemente evocata, descrive la figura dell’autentico gnostico, che è il cristiano, proprio in quanto legge il proprio destino nella prospettiva della divinizzazione. Un luogo di Clemente (che parla di “gnosi divina”), che ritroviamo nel volume, risulta particolarmente suggestivo e significativo a questo proposito: «Questa è dunque l’attività del perfetto gnostico: essere vicino a Dio attraverso il gran sacerdote, assimilandosi per quanto si può al Signore mediante tutto il culto dedicato a Dio: esso ha per scopo la salvezza degli uomini, attraverso una sollecita benevolenza nei nostri riguardi, attraverso la sacra “liturgia” e l’insegnamento della dottrina e la pratica del bene. Anzi, oltre ad edificare e costruire sé stesso, lo gnostico forma anche chi lo ascolta assimilandosi a Dio, cioè cercando più che può di assimilare a Colui che è per natura senza passioni la sua vita che per effetto di ascesi si riduce ad assenza di passioni: e questo (ottiene) con l’unirsi e il convivere “con il Signore senza distrazioni” (1 Corinti, 7, 35)». Non si vede come questa vera gnosi possa confliggere con il magistero cattolico, che ci ricorda, per esempio nella Dei Filius del Vaticano i, che «l’uomo è creato per un fine soprannaturale».

Oriente e occidente sono chiamati entrambi a misurarsi nel dialogo che questo libro può suscitare, ove mancasse, e alimentarlo, ove già avviato, anche perché l’ultima volta che ho incontrato Giordano Frosini è stato l’11 febbraio del 2017, avendomi egli invitato ad un dibattito, organizzato dall’Istituto Maritain a Pistoia, cui ha partecipato come interlocutore il collega Lothar Vogel della Facoltà teologica valdese. Un’esperienza davvero stimolante e coinvolgente, che partiva dalla domanda se ormai si fosse raggiunta la pace fra cattolici e luterani, in seguito alla visita di Papa Francesco a Lund. Il Nostro seguì con grande attenzione la disputa e intervenne con arguzia e profonda intelligenza nel dibattito.

Il suo lascito non sarebbe vitale se consistesse solo in materiale cartaceo o informatico. Frosini ha lasciato soprattutto un gruppo di intellettuali e ormai adulti discepoli, che in modi necessariamente diversificati, ne proseguono il lavoro e ne mantengono viva la presenza, sempre e comunque con lo spirito critico che caratterizzava il maestro. Dobbiamo a uno di loro, il professore Andrea Vaccaro, la possibilità di leggere questo materiale e alla sua cura l’integrazione e l’ulteriore documentazione presente in queste pagine. La gratitudine, merce rara soprattutto negli ambienti accademici ed ecclesiastici, non può e non deve mancare in occasioni come questa. E speriamo abbia ad esprimersi anche con la lettura e lo studio di questo bel libro, con tutti i rischi che tale operazione comporta.

di Giuseppe Lorizio

 

Il valore della teologia oggi

in Settimana News / di: Massimo Nardello (a cura)

ruolo teologia

Richard Rosengarten, professore alla Divinity School dell’Università di Chicago e ex decano della medesima, ha concesso a don Massimo Nardello un’intervista sul valore pubblico della teologia.

  • Prof. Rosengarten, il pubblico dibattito di idee nelle società occidentali pluralistiche abbraccia molte forme di conoscenza, come la scienza, l’economia, la politica, la storia, la filosofia, la letteratura e così via. Secondo lei, in questo contesto pluralistico c’è un ruolo anche per le religioni e le loro teologie? Se esiste, quale potrebbe essere?

Sì, c’è assolutamente un ruolo, tra le “forme di conoscenza”, per la religione e la teologia che costituiscono il nostro pubblico scambio di convinzioni. In breve: questo ruolo consiste nel richiamare l’attenzione su ciò che noi come umani giudichiamo essere il significato ultimo e complessivo della vita e del nostro operare nel mondo.

Questo ruolo dev’essere, allo stesso tempo, coraggioso nella sua espressione e tuttavia profondamente attento e rispettoso di ciò che altre forme di pensiero e di esperienza possono insegnarci. Ma la teologia può offrirci l’àncora alle richieste trascendenti all’interno di una cultura, purché sia debitamente umile nel suo riconoscimento e nel suo impegno verso le altre forme di conoscenza.

  • Qual è la finalità di una American Divinity School e in che modo differisce dallo scopo di una facoltà di teologia confessionale come quelle che abbiamo in Italia?

Questa è una domanda complessa a livello empirico, perché le stesse American Divinity Schools differiscono per storia, eredità e affiliazione. Ma, in generale, direi che le scuole americane di teologia, in virtù della loro associazione con le università di ricerca, collocano le loro conoscenze religiose all’interno del discorso più ampio dell’università circa la ricerca della verità e il suo utilizzo per cui tale ricerca e i suoi risultati possono essere usati per il miglioramento della società.

In una prospettiva positiva, le American Divinity Schools all’interno delle università funzionano come dovrebbe funzionare la religione nel discorso pubblico nella società.

Vorrei aggiungere – sempre pensando al loro aspetto positivo – che queste scuole di solito non sono “confessionali” nel senso che esistono per promuovere l’insegnamento di una particolare tradizione che chiamiamo cristiana.

Esse piuttosto studiano e insegnano il cristianesimo come una tradizione, così che le fonti di quella tradizione sono del tutto disponibili per l’indagine. Come studente di dottorato a Chicago, ho avuto il privilegio di studiare “la storia della teologia cristiana” con Bernard McGinn, B.A. Gerrish, Langdon Gilkey, Anne Carr e David Tracy.

Benché diversi come formazione e per specifico interesse accademico, ognuno aveva la consapevolezza di insegnare “la tradizione”.

  • Vede una diminuzione di interesse per la teologia e per il discorso religioso nella società americana contemporanea? In caso affermativo, quali sono le cause?

Non vedo una diminuzione di interesse per la teologia e per il discorso religioso quanto piuttosto una loro frammentazione. Oggi c’è un’enfasi molto forte sulla teologia “contestuale”, che si propone di accentuare il locale e il particolare come fonte e oggetto della teologia.

Questo impulso è certamente buono, ma pone anche una sfida al teologo che cerca di parlare in quanto teologo. Ci sono parecchie visioni teologiche!

  • Come accademico di un paese religiosamente pluralistico sin dalle origini, cosa suggerisce alla teologia italiana e alla Chiesa cattolica, che da molti secoli sono radicate in una cultura cattolica diffusa e indiscussa?

Dalla prospettiva americana (di una persona!), l’Italia e il cattolicesimo romano rivelano una storia e un’eredità di più lungo periodo di quella americana e ciò è impressionante e stimolante. D’altra parte, ritengo che si possa scoprire in America una sorta di dinamismo e di accoglienza delle nuove formulazioni, anziché affidarsi alle pratiche tradizionali.

Direi che un cattolicesimo veramente vibrante ha bisogno di entrambi così che ciascuno può trarre vantaggio e imparare dalla sua controparte. Il cattolicesimo è veramente una religione “globale” e la considerazione più importante – sia che si consideri da Roma o da Chicago, da Milano o da Los Angeles – è di pensare come meglio favorire questa ricchissima interazione tra tradizione e trasformazione.

Teologia in Italia: problemi pratici

di: Giuseppe Guglielmi

biblioteca

Sono grato a SettimanaNews sempre attenta a fornire informazioni su quanto succede nel mondo ecclesiale non solo italiano ma anche d’oltralpe.

Da alcuni articoli apprendo ad esempio del fenomeno dei cristiani che in Germania abbandonano la Chiesa cattolica o protestante a seguito di vari motivi, tra cui il rifiuto di continuare a versare le tasse alla Chiesa. In effetti, le Kirchensteuer (tasse sulla Chiesa) rappresentano una vicenda complessa, perché se, da un lato, apportano innumerevoli vantaggi al sistema ecclesiale, dall’altro, sollevano inevitabili problemi. In un altro articolo, vengo anche a conoscenza del progetto (sempre in ambito tedesco) di unificazione del percorso dei futuri presbiteri (seminaristi) in alcune case di formazione (seminari). Anche qui, pro e contro si alternano.

Di solito, dopo queste letture ritorno con la mente a casa nostra, facendo alcuni paragoni e interrogandomi sul futuro di alcune nostre istituzioni. In particolare le mie domande si concentrano sulla situazione della teologia in Italia. Confesso che un certo sconforto mi assale. Vorrei soltanto citare due questioni su cui nei mesi scorsi, sempre su SettimanaNews, si sono già soffermati alcuni colleghi teologi.

Una teologia esclusivamente ecclesiastica

Partirei da una situazione di fatto: ovvero dall’assenza della teologia italiana dai luoghi del sapere universitario e quindi del suo unico radicamento (e trinceramento) nell’ambito ecclesiastico.

Su questo punto constato l’eccezionalità del caso italiano rispetto a molti stati europei. Non mi riferisco solo al mondo tedesco, dove una diversa tradizione culturale ha sempre fatto sì che la teologia costituisse uno tra gli ambiti del sapere pubblico; ma penso anche al mondo francofono, ispanico o ad alcuni paesi dell’Europa dell’est. Anche qui, come in casa nostra, gli effetti della rivoluzione francese hanno portato all’espulsione della teologia dall’università di stato (aggiungo solo che in Italia una tale decisione non colse impreparate o preoccupate le gerarchie cattoliche.

Queste già da tempo guardavano con sospetto l’università e avevano perciò aperto delle proprie scuole teologiche). A differenza però di casa nostra, in questi paesi la teologia (intesa come specifico corso di laurea) è perlomeno presente nelle università cattoliche.

La nostra teologia conosce invece come unico luogo di produzione del suo sapere quello ecclesiastico. Ora, tra le numerose conseguenze di tale collocazione, voglio solo citarne una: l’assenza di una teologia che coltivi una dimensione “pubblica” (cf. l’articolo su SettimanaNews di M. Nardello del 23 giugno 2019).

La nostra teologia nasce e si elabora quasi esclusivamente intra moenia, con la conseguenza che si rivolge principalmente a coloro che fanno parte dei nostri recinti, in primis i candidati al sacerdozio (seminaristi e religiosi), seguiti da un numero inferiore di giovani laici che intendono conseguire il titolo per l’insegnamento della religione cattolica e di un ancor più inferiore numero di coloro che intendono approfondire la propria fede attraverso lo studio della teologia.

Senza voler sminuire la funzione ecclesiale della teologia, e senza sottacere il fatto che a qualunque luogo appartenga (stato e/o Chiesa), la teologia obbedisce ai rapporti di forza che in ogni caso la sostanziano, mi chiedo però quali stimoli – in primo luogo a livello di ricerca e di metodi – possa mai ricevere una teologia costituita entro le sole mura ecclesiastiche. Una teologia che non abita altri luoghi del sapere, è inevitabilmente portata a non avvertire il “fiato sul collo” di altre istanze di pensiero, e questo perché, già a livello di semplici spazi, non si trova a coabitare nei medesimi luoghi dove sono presenti altri corsi di laurea.

Il che significa anche che gli stessi teologi non sono concretamente a contatto con altri colleghi di altre discipline. Il confronto resta perciò solo quello (senza dubbio imprescindibile) maturato sui libri o semmai in alcune occasioni di studio.

Non so come sarà possibile recuperare terreno su questo punto. D’altra parte, non so nemmeno quanti studenti potrebbero mai iscriversi ad una facoltà di teologia, dato che gli sbocchi lavorativi sono quasi esclusivamente legati all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole di primo e secondo grado.

Tuttavia, considerando proprio questo dato, mi chiedo se in un nuovo accordo/concordato Stato-Chiesa, non fosse auspicabile l’istituzione di corsi di laurea in “scienze religiose e teologia” all’interno dei dipartimenti di studi umanistici dell’università. Certo, si potrebbe obiettare che in tal modo la teologia fatta nelle facoltà ecclesiastiche tornerebbe ad essere ad esclusivo uso dei seminari, ma francamente non credo che l’attuale ibridazione abbia dettato una reale svolta.

studente

Theologia non dat panem

Un’altra nota dolente è rappresentata dalla mancanza di fondi che da sempre rende precario l’impegno teologico. Questa situazione affligge tutti i docenti delle facoltà teologiche: laici e sacerdoti. È risaputo che i laici che insegnano nelle facoltà teologiche italiane costituiscono solo un piccolo numero. Tra questi soltanto alcuni sono di fatto assunti dalle medesime istituzioni accademiche con uno stipendio che gli consente di vivere di questo lavoro; la maggior parte di essi deve invece lavorare su due fronti. In molti casi, alla docenza teologica si accompagna l’insegnamento nelle scuole medie o superiori.

La situazione non è rosea nemmeno per la maggior parte del corpo docente, che è costituito da sacerdoti. Questi vengono generalmente retribuiti tramite il sistema del sostentamento clero. Si tratta di una remunerazione che tuttavia non consente ai sacerdoti teologi di disporre di una sicurezza economica che permetta loro di impegnarsi a tempo pieno, magari con l’opportunità di viaggi di studio o di quant’altro possa favorire una seria ricerca. Da qui scaturisce un non sempre chiaro supporto motivazionale, con il conseguente rischio che l’impegno accademico può semplicemente diventare un’occasione per coltivare altre aspirazioni e carriere ecclesiastiche.

A proposito poi della ricerca, ho l’impressione che la produzione teologica non sempre si coniughi con una profonda ricerca scientifica. Non vorrei sembrare saccente (ed eventualmente me ne scuso in anticipo), ma, come dico un po’ scherzosamente, “fare ricerca” non significa “fare carta”. Produrre testi (libri, contributi, articoli) dovrebbe significare mettere nero su bianco quanto elaborato nel proprio percorso di studio maturato negli anni, ovvero intorno a problematiche su cui un autore più volte si è interrogato e di cui conosce perciò le problematicità e le complessità.

Non si tratta di fare sporadiche incursioni in ambiti presto abbandonati per volgersi altrove, o comunque di produrre scritti sovente dettati da eventi celebrativi e/o supportati da eventuali contributi economici che si è riusciti ad ottenere. Il rischio è altrimenti di pubblicare lavori generici, con scarso senso dell’erudizione e della ricerca storiografica o legati più semplicemente al genere manualistico.

Anche su questo secondo punto non so se sarà possibile invertire la rotta. Certo, si potrebbe partire da un maggiore investimento sui docenti stabili delle facoltà teologiche, con una conseguente riduzione di docenti invitati. I primi costituiscono di fatto la spina dorsale di un’istituzione accademica, mentre nel secondo caso si tratta di collaborazioni di certo proficue ma che, se estese eccessivamente, comportano un dispendio delle già scarse risorse economiche.

Chi è il teologo?

Sono consapevole che queste due questioni sollevate non costituiscono le uniche problematiche relative al futuro della teologia in Italia. Ma ho voluto concentrare queste mie idee sul terreno della concretezza. Per non dare però l’impressione di essere stato eccessivamente riduttivo concludo questa rapida riflessione con un ultimo (ma forse potrebbe essere il primo) punto.

Bisognerebbe riflettere, soprattutto a livello ecclesiale, sul profilo del teologo, ovvero sulla sua vocazione/professione (non a caso in tedesco si usa lo stesso termine Beruf). Da questa discussione (e naturalmente se dovesse prendere una certa piega) occorrerebbe poi procedere con il chiedersi se il teologo debba continuare a smarcarsi tra vari impegni (cf. l’articolo su SettimanaNews di M. Neri del 12 dicembre 2017) oppure se – pur non abdicando ad altre collaborazioni fruttuose per il suo stesso impegno teologico (si veda, ad esempio, la collaborazione in ambito pastorale, formativo ecc.) – debba concentrare i suoi sforzi, oltre che nella docenza, soprattutto nello studio e nella ricerca, aiutando così la comunità cristiana a lasciarsi provocare dalle istanze della nostra cultura, definitivamente segnata da un pluralismo che spinge gli stessi credenti a vivere nell’unità della fede ma non nell’uniformità del pensiero.

  • Giuseppe Guglielmi, presbitero, è docente di Teologia fondamentale presso la Facoltà teologica dell’Italia Meridionale, sezione San Luigi (Napoli).
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