Ognissanti e fedeli defunti. Riflessioni a partire dalla teologia

Quali sono i fondamenti filosofico-dogmatici delle festività che i cristiani vivono il 1 e il 2 novembre, cioè la solennità di Tutti i Santi e la Commemorazione dei fedeli defunti? Don Simone Billeci, analizzando il pensiero di Joseph Ratzinger, parte dal concetto greco d’immortalità dell’anima e quello biblico di risurrezione arrivando fino alla modernità

Domani, 1 novembre, la Chiesa cattolica celebrerà la solennità di Tutti i Santi. A ciò seguirà la commemorazione dei fedeli defunti. Appuntamenti liturgici che fanno riflettere sul duplice orizzonte dell’umanità: naturale e soprannaturale.

Il binomio naturale-soprannaturale viene storicamente utilizzato dalla riflessione teologica per esprimere i due ordines nell’uomo, la cui elevazione alla vita soprannaturale presuppone l’esistenza di un principio metafisico chiamato natura, come afferma dall’assioma gratia supponit naturam.

La capacità dell’uomo di ricevere la gratia non è qualcosa di radicalmente estraneo alla sua natura, eppure allo stesso tempo è completamente sproporzionato rispetto ad esso. La natura viene creata da Dio in modo tale che, se egli liberamente sceglie di donare la gratia, essa non si oppone a tale donazione gratuita soprannaturale; non la esige, né le è dovuta. Eppure il Creatore costituisce l’ordine naturale inserendo in esso una capacità passiva di ricevere la gratia se da lui donata.

Cosicché, come gratia supponit naturam, così resurrectio supponit immortalitatem.

L’immortalità essenziale dell’uomo

Ratzinger ha rilevato come la riscoperta dell’indivisibilità dell’uomo spinge a comprendere in modo nuovo il messaggio biblico, che non promette immortalità a un’anima separata dal corpo, ma a tutto l’uomo. Nel Nuovo Testamento, infatti, essa non compare propriamente come idea integrativa di una precedente e autonoma immortalità dell’anima, bensì come l’essenziale affermazione fondamentale sul destino dell’uomo. Se la concezione greca si basa sull’idea che l’uomo sia composto da due sostanze estranee fra loro, di cui l’una (il corpo) è destinata a dissolversi, mentre l’altra (l’anima) è per sua natura imperitura, e perciò per sua natura continua a sussistere in maniera indipendente da qualsiasi altro essere, anzi solo nella separazione dal corpo a essa essenzialmente estraneo, l’anima perverrebbe alla sua piena perfezione, viceversa il pensiero biblico, presuppone l’indivisa unità dell’uomo.

Appare chiaro, quindi, che il nucleo centrale della fede nella risurrezione non sta affatto nell’idea di restituzione dei corpi. Piuttosto, il vero contenuto di ciò che la Sacra Scrittura intende annunciare agli uomini, come loro speranza mediante la cifra della risurrezione dei morti, si può enucleare, anzitutto, nel fatto che l’idea dell’immortalità, che la Bibbia esprime parlando della risurrezione, intende un’immortalità della “persona”, dell’unica realtà uomo. Per il teologo di Tubinga si tratta di un’immortalità “dialogica” (risuscitazione, essere risvegliato!), vale a dire che l’immortalità non risulta semplicemente dal naturale non-poter-morire di ciò che è indivisibile, ma dall’azione salvante di colui che ci ama e ha il potere di far questo: l’uomo non può perire totalmente perché è conosciuto e amato da Dio.

            Dalle considerazioni sin qui fatte risulta chiarita la formula biblica dell’immortalità grazie a risuscitazione la quale, contrariamente alla concezione dualistica dell’immortalità, così come si esprime nello schema greco di corpo-anima, intende trasmettere un’idea integralmente umana e dialogica dell’immortalità. A questo punto, però, si pongono una serie di interrogativi.

A riguardo Ratzinger scrive: “limmortalità non viene forse fatta consistere in una pura grazia, benché in realtà debba spettare alla natura delluomo in quanto tale? O in altri termini: non si finisce qui per approdare a unimmortalità riservata solo alle persone pie, dunque per introdurre uninaccettabile differenziazione del destino umano? Teologicamente parlando, non si scambia qui forse limmortalità naturale dellessere uomo col dono soprannaturale dellamore eterno, che rende luomo beato? Non bisogna forse attenersi allimmortalità naturale proprio per amore dellumanità della fede, perché una sopravvivenza delluomo concepita in senso puramente cristologico scivolerebbe necessariamente nel miracolistico e nel mitologico?”.

Più precisamente: che cosa rende l’uomo propriamente uomo? E che cos’è lo specifico che distingue l’uomo? Non ci sono dubbi, per il docente di Tubinga, nell’affermare che a causa del suo carattere dialogico chiamato “risuscitazione”, l’immortalità spetta all’uomo in quanto tale, a ogni singolo, e non è nulla di soprannaturale aggiunto successivamente.

Quanto alla domanda circa il proprium dell’uomo, Ratzinger fa notare che ciò che distingue l’uomo è: “visto dallalto, il suo essere interpellato da Dio, ossia il fatto che egli è interlocutore nel dialogo con Dio, lessere cui Dio ha rivolto il suo appello. Visto dal basso, ciò significa che luomo è la creatura capace di pensare Dio, lessere aperto alla trascendenza. La questione qui non è se egli pensi davvero Dio, se si apra realmente a lui, ma si afferma che egli è fondamentalmente quella creatura che è in sé capace di farlo, anche se di fatto, per i motivi più diversi, forse non riesce mai a tradurre in atto questa sua capacità”.

Lo specifico dell’uomo è così colto da Ratzinger nel fatto che egli è dotato di un’anima spirituale, immortale; affermazioni che non si contraddicono, ma si limitano a esprimere la stessa cosa in forme di pensiero differenti. Infatti, per il teologo di Tubinga, “avere un’anima spirituale” vuol dire proprio essere voluti in maniera speciale, essere conosciuti e amati da Dio in modo particolare; avere un’anima spirituale significa essere una creatura chiamata da Dio a un dialogo eterno con lui, una creatura quindi capace a sua volta di conoscere Dio e di rispondergli. Ciò che noi – usando un linguaggio più sostanzialistico – diciamo “avere un’anima”, con un linguaggio più storico e attuale lo indichiamo come “essere interlocutori nel dialogo con Dio”.

Pertanto, quando diciamo che l’immortalità dell’uomo si fonda sul dialogo con Dio, il cui amore soltanto dona eternità, non intendiamo affermare un destino speciale riservato alle persone pie, bensì porre in evidenza l’immortalità essenziale dell’uomo in quanto tale. Così, in ultima istanza, per Ratzinger “non è possibile fare una netta distinzione fra naturale” e soprannaturale”: il dialogo fondamentale, che per primo fa sì che luomo sia uomo, converge senza soluzione di continuità nel dialogo di grazia, che ha nome Gesù Cristo. E come potrebbe essere diversamente, se Cristo è realmente il secondo Adamo”, lautentico appagamento di quellinfinito anelito che sale dal primo Adamo, ossia dalluomo semplicemente?”.

Il concetto greco d’immortalità dell’anima e quello biblico di risurrezione

Per Ratzinger, nella nostra società, il rapporto con la morte appare a prima vista stranamente contraddittorio. Infatti, se da un lato, la morte è considerata un tabù, quasi fosse qualcosa di sconveniente che debba essere possibilmente tenuto nascosto e bandito dalla coscienza, dall’altro, al contrario, si osserva un’esibizione della morte, che corrisponde alla demolizione della barriera del pudore in altri settori dell’esistenza.

Da ciò emerge che “leliminazione della paura metafisica non è riuscita interamente; si vorrebbe venirne a capo provocando possibilmente da se stesso la morte, facendola così sparire del tutto quale problema che tocca lessenza delluomo e che non può essere risolto dalla tecnica”. L’importanza crescente che l’eutanasia assume, per esempio, si fonda sul fatto che la morte dev’essere evitata quale fenomeno che interessa la persona e sostituita con la morte tecnica che non impegna personalmente; in definitiva, si vuole chiudere la porta in faccia alla metafisica prima che questa possa presentarsi. Il prezzo per questa repressione della paura è alto.

Per il teologo bavarese, infatti, dalla disumanizzazione della morte consegue necessariamente la disumanizzazione della vita: degradando la malattia e la morte, e collocandole sul piano del tecnicamente fattibile, si degrada contemporaneamente l’uomo. In particolare, fa notare Ratzinger, “nel tendere a ridurre lhumanum, sincontrano oggi stranamente due opposti atteggiamenti: a una visione positivistica e tecnocratica del mondo luomo è dintralcio, quanto lo è al naturalismo integrale, che, vedendo nello spirito il vero ostacolo, tenta sempre più di denigrare luomo quale animale mal riuscito”. Con la scelta dellatteggiamento verso la morte viene scelto insieme latteggiamento verso la vita; per cui la morte ci può far da chiave per decifrare che cosa sia in fondo luomo”.

Anche interrogando i professionisti della tradizione cristiana, considerando le diverse tendenze, si giunge per Ratzinger a risultati alquanto insoddisfacenti. In particolare, i lavori dei teologi luterani tedeschi (Althaus e Jüngel), basati sull’antitesi tra il pensiero biblico e quello greco, delineano una conclusione che ha avuto gravi conseguenze per gli interrogativi della fede cristiana e il suo annunzio. Si afferma, infatti, che la fede nell’immortalità dell’anima è nata dal pensiero idealistico-dualistico ostile al corpo del platonismo e non ha nulla in comune con il pensiero biblico, poiché quest’ultimo, al contrario, considera l’uomo nella sua interezza e unità indivisa come creatura di Dio, la quale non può essere divisa in corpo e anima.

Motivo per cui neppure la morte viene trasfigurata in modo idealistico, ma sperimentata nel suo pieno e crudo realismo come nemico che distrugge la vita. Solamente la resurrezione del Cristo porta una nuova speranza, che tuttavia nulla toglie alla morte integrale in cui non muore soltanto il corpo, ma l’uomo. Non vi può essere dubbio: la morte è totale e divora l’uomo intero. Certo, l’uomo intero sarà ridestato a una nuova vita. Comunque, la speranza biblica può essere espressa soltanto con la parola “resurrezione” e presuppone la morte integrale. Di conseguenza il concetto dell’immortalità dell’anima dev’essere abbandonato quale concetto che contraddice al pensiero biblico.

Tentando di esaminare a fondo il dato storico-filosofico nella sua coerenza oggettiva si nota, anzitutto, che il confronto (greco-biblico) tra le civiltà e i modi di pensare è sotto l’aspetto storico senza senso. Suddetta disamina per il teologo bavarese appare necessaria per dimostrare l’insostenibilità della consueta schematica platonica, su cui si fonda il cliché di tante teorie teologiche. Per Ratzinger, infatti, il vero orientamento del pensiero platonico viene completamente travisato qualora lo si qualifichi come una concezione individualistica che nega i valori terreni e induce gli uomini a rifugiarsi nell’aldilà; il concetto della forza vitale della verità, che comprende il concetto dell’immortalità, non è la componente di una filosofia che postula la fuga dal mondo.

Anima e corpo al momento della morte

Per Ratzinger, l’interrogativo sorto nella tematica dell’immortalità dell’anima e della resurrezione, trasformando gradualmente l’intero panorama della teologia, non potrebbe essere formulato più sinteticamente e più drammaticamente di quanto fatto dal teologo luterano tedesco Cullmann. Per Cullmann, infatti, se si domandasse a un cristiano, protestante o cattolico, intellettuale o non, che cosa insegni il Nuovo Testamento sulla sorte individuale dell’uomo dopo la morte, salvo pochissime eccezioni, si avrebbe sempre la stessa risposta: l’immortalità dell’anima.

Eppure questa opinione, pur diffusa, è uno dei più gravi fraintendimenti che riguardano il Cristianesimo. Pionieri di questo nuovo atteggiamento furono i teologi protestanti Stange e Schlatter, al cui pensiero aderì ampiamente Althaus. In sostanza, rifacendosi alla Sacra Scrittura e a Lutero, si rifiutava come dualismo platonico il concetto di una separazione nella morte tra il corpo e l’anima, qual è presupposta nella dottrina dell’immortalità dell’anima, e si affermava che l’unico insegnamento biblico è quello secondo cui nell’uomo perisce il corpo e l’anima, e che soltanto così si conserva il carattere di giudizio della morte.

Di conseguenza, non sarebbe cristiano parlare di immortalità dell’anima, ma si dovrebbe parlare unicamente della resurrezione dell’uomo intero, e contrapporre alla religiosità corrente del morire, e alla sua escatologia del cielo, l’unica prospettiva della speranza cristiana, cioè quella dell’ultimo giorno.

Lo stesso Althaus, tuttavia, tentò di apportare alcune rettifiche a questa tesi, che nel frattempo si stava diffondendo rapidamente, obiettando che anche la Sacra Scrittura conosce lo schema dualistico, che anch’essa non conosce soltanto l’attesa dell’ultimo giorno, ma una sorta di speranza individuale in un cielo futuro. L’idea che parlare dell’anima non fosse un discorso biblico s’impose al punto che perfino il Missale Romanum del 1970 bandì il terminus “anima” dalla liturgia dei defunti, il quale finì con lo scomparire altresì dal rituale della sepoltura.

“Ma che cosa ha potuto rivoluzionare tanto rapidamente una tradizione, che fin dai tempi della Chiesa antica era radicata saldamente ed era stata sempre considerata centrale?”, si domanda Ratzinger. Infatti, l’apparente evidenza del pensiero biblico da sola non vi sarebbe certo sufficiente. È presumibile che l’efficacia delle nuove argomentazioni sia derivata in notevole parte dal fatto che la concezione definita “biblica” dell’assoluta indivisibilità dell’uomo collima con la moderna antropologia naturalistica, la quale vede l’uomo unicamente come corpo e non vuole sapere nulla di un’anima che ne possa essere separata.

Sebbene la rinuncia al concetto dell’immortalità dell’anima elimini un potenziale punto conflittuale tra la fede e il pensiero moderno, per Ratzinger, ciò non salverebbe ancora la Sacra Scrittura, poiché per la coscienza moderna la via biblica sembra ancora molto meno percorribile.

In particolare, “lunità delluomo – sta bene –, ma chi sarebbe in grado, visti i dati odierni della scienza naturale, di immaginarsi una resurrezione del corpo? Una tale resurrezione supporrebbe una materialità radicalmente nuova, un cosmo fondamentalmente cambiato; il che sorpassa del tutto i limiti della nostra capacità intellettiva. Pure la domanda che cosa avvenga in tal caso nel periodo che precede la fine dei tempi” non può essere semplicemente ignorata. La spiegazione data da Lutero, di un sonno dellanima”, non è certo una risposta che possa convincere. Ma se non esiste unanima, se di conseguenza non vi può essere un sonno”, sorge il problema, chi allora potrebbe essere risvegliato? Come si forma lidentità tra luomo precedente e luomo che, a quanto pare, dovrà essere ricreato dal niente? Voler respingere con sdegno simili domande come filosofiche” non contribuirebbe certamente a dare una spiegazione a tutto ciò”.

Si è giunti così a comprendere che il solo biblicismo non avrebbe generato un progresso, che senza ermeneutica, cioè senza accompagnare il dato biblico con la ragione non si sarebbe ottenuto nulla. A questo punto, osserva il teologo bavarese, volendo prescindere da tentativi radicali che intenderebbero risolvere il problema opponendosi a tutte le affermazioni oggettivanti e ammettendo soltanto interpretazioni esistenziali, sono state tentate due vie: da un lato, la formulazione di un nuovo concetto del tempo e, dall’altro, l’interpretazione in modo nuovo della corporeità. In particolare, con la prima sfera concettuale, si cercò di risolvere la questione richiamando il fatto che la “fine del tempo”, come tale, non è più tempo.

Essa, quindi, non indica una futura data del calendario, bensì è un non-tempo, per cui trovandosi fuori della temporalità è vicina a ogni tempo in modo uguale. Da questo concetto, si trasse la facile conclusione che, essendo anche la morte un “uscire dal tempo”, essa conduca all’a-temporalità. Si impose così la tesi per la quale il tempo è una forma della vita fisica; la morte significa uscire dal tempo per entrare nell’eternità, nel suo unico oggi. A questo proposito, per Ratzinger, emergono due considerazioni.

La prima: “non si tratta forse qui di una velata restaurazione della dottrina dellimmortalità che, dal punto di vista filosofico, si fonda su supposizioni un tantino avventate? Infatti qui si presume la resurrezione già per luomo appena morto, per luomo che sta per essere portato alla tomba”. Infatti, l’indivisibilità dell’uomo e il suo legame con la sua vita fisica appena spenta, ovvero quell’indivisibilità che era stata il punto di partenza della tesi, sembra ora non avere più alcuna importanza.

Sebbene simili pensieri possano essere sensati, Ratzinger si chiede ancora: “con quale diritto si possa parlare ancora di corporeità” quando si nega esplicitamente ogni rapporto con la materia, alla quale si concede di partecipare alleternità soltanto in quanto è stata un momento estatico dun esercizio umano di libertà”. In ogni caso, anche in questo modello il corpo è abbandonato alla morte, mentre contemporaneamente viene affermata una sopravvivenza delluomo. Per cui, la confutazione del concetto dellanima perde la sua credibilità, poiché implicitamente vi si ammette lesistenza di una realtà” personale, separata dal corpo, il che è esattamente quanto aveva voluto esprimere il concetto dellanima. Riguardo al problema della corporeità e dellesistenza dellanima rimane, dunque, una strana mescolanza di concezioni, che non si può certo accettare come definitiva”.

La seconda considerazione riguarda la filosofia del tempo e della storia, la quale, per il teologo bavarese, rappresenta la leva del tutto: “è davvero soltanto così che esiste quellalternativa al tempo fisico e al non-tempo che viene identificata con leternitàÈ logicamente possibile collocare luomo, il quale ha vissuto il periodo determinante della sua esistenza nel tempo, nella struttura della pura atemporalità? Può, pertanto, uneternità che ha un inizio essere eternità? Non è, qualcosa che ha un inizio necessariamente non-eterno, temporale? Ma come negare, che la resurrezione delluomo ha un inizio, cioè che avviene dopo la sua morte?”.

È chiaro, per Ratzinger, che se lo negassimo, la logica ci costringerebbe a concepire l’uomo come già risorto nell’ambito dell’eternità che non ha inizio; il che significherebbe contraddire a ogni seria antropologia e cadere praticamente proprio in quel platonismo che intendiamo combattere. Anche il richiamo al concetto medievale dell’aevum del teologo tedesco Lohfink, sostenitore della tesi della resurrezione nella morte stessa non elimina gli interrogativi precedenti, piuttosto “occorre qui denunciare nuovamente un platonismo accentuato sotto un duplice aspetto: in primo luogo, in simili modelli il corpo viene privato definitivamente della speranza della salvezza e, in secondo luogo, con laevum limpostazione della storia è minore rispetto alla dottrina di Platone, soprattutto perché manca di logica”.

Lindistruttibilità della vita che si apre nella fede

Per poter giudicare la reale importanza dell’influsso greco sul pensiero cristiano, e per essere in grado di formulare qualche affermazione sensata sullo sviluppo di quest’ultimo, è indispensabile, per Ratzinger, riflettere su quale sia stato l’atteggiamento greco nei confronti del nostro problema. Il retaggio dell’antichità non ha trasmesso alcuna concezione chiara, circa la sorte dell’uomo dopo la morte; da qui, la Chiesa antica, non poté trarre le sue risposte al riguardo. Piuttosto, le concezioni sviluppate nella Chiesa antica sulla provenienza dell’uomo tra la morte e la risurrezione, si fondano sulle tradizioni giudaiche, circa l’esistenza dell’uomo nello sheol, tradizioni che il Nuovo Testamento ha trasmesso e incentrato sulla cristologia.

Nessun’altra concezione può reggere di fronte ai dati di fatto storici. Il che significa che la dottrina dell’immortalità dell’anima, qual è insegnata dalla Chiesa antica, ha due aspetti. Da una parte, infatti, “essa è determinata dal centro cristologico, che garantisce al credente lindistruttibilità della vita che si apre per lui nella fede; essa basa questa affermazione teologica sul concetto dello sheol quale suo sostrato antropologico e poggia quindi su una concezione di fondo universale-umana, che tuttavia, sebbene nel frattempo si sia sviluppata ulteriormente rispetto alle concezioni arcaiche, non era stata approfondita sufficientemente per quanto riguarda le sue implicazioni antropologiche. Motivo per cui non dispose neppure di una terminologia unitaria. Come nella tradizione giudaica, il veicolo dell’“essere con Cristo”, dellesistenza della persona umana che perdura oltre la morte, è chiamato quasi ovunque anima” oppure spirito” ”.

Dall’altra parte, ambedue i termini erano influenzati dai sistemi gnostici largamente diffusi, in cui la psiche (anima) era considerata di grado inferiore rispetto allo spirito dei “pneumatici”. A questo punto, come rileva Ratzinger, è chiaro che proprio quando si trattava di conservare la certezza centrale dell’esistenza col Cristo che perdura oltre la morte, e dell’attesa della definitiva resurrezione della carne, si avvertisse la necessità di dare a questa affermazione una base antropologica.

Altrettanto evidente è che la fede cristiana esigeva dall’antropologia delle motivazioni che nessuna delle antropologie esistenti poteva darle, ma di cui avrebbe potuto utilizzare i concetti adeguatamente rielaborati. Infatti, occorreva sviluppare un’antropologia che da un lato, riconoscesse l’uomo quale opera di Dio, creato e voluto da Dio come un intero, ma che, dall’altro lato, distinguesse in questo uomo tra ciò che è perituro e ciò che rimane. A sua volta, questa distinzione doveva essere fatta in modo da lasciare aperta la via verso la resurrezione, ovvero verso la definitiva unità dell’uomo e della creazione.

Una simile antropologia avrebbe dovuto conciliare in sé proprio ciò su cui Platone e Aristotele divergevano. Se, da una parte, occorreva accogliere l’inscindibile unità tra il corpo e la psiche insegnata da Aristotele, dall’altra parte bisognava evitare di interpretare la psiche nel senso di un ἐντελέχεια. Altresì, bisognava evidenziare il particolare carattere spirituale della psiche senza dissolverla in una concezione universalistica dello spirito.

Di fronte alla difficoltà di una simile impresa non può meravigliare che questa sintesi sia maturata soltanto lentamente; essa troverà la sua forma definitiva solamente in Tommaso d’Aquino. Con l’Aquinate, infatti, come sottolinea Ratzinger, si è giunti ad un’affermazione estremamente importante: nell’uomo, lo spirito è talmente uno con il corpo che gli si può attribuire a pieno diritto il termine di “forma”. E, all’inverso, la forma del corpo è tale da essere spirito, e come tale fa dell’uomo una persona.

Con ciò, quello che dal punto di vista filosofico sembrava impossibile è stato ottenuto, ed è resa giustizia alle istanze apparentemente perfino contraddittorie della dottrina della creazione e del concetto ormai cristallizzato dello sheol: l’anima fa parte del corpo quale forma, ma ciò che è forma del corpo è insieme spirito e fa dell’uomo una persona schiudendo a lui la realtà dell’immortalità. Trattandosi qui di un principio centrale, il teologo bavarese ribadisce come il concetto dell’anima, qual è stato usato nella liturgia e nella teologia fino al Concilio Vaticano II, abbia in comune con l’antichità altrettanto poco quanto il concetto della resurrezione; esso, infatti, è un concetto specificamente cristiano e solo per questo motivo ha potuto essere formulato sul terreno della fede cristiana, di cui esprime la visione di Dio, del mondo e dell’uomo nell’ambito dell’antropologia. In realtà, lo struggente desiderio greco della visione, il concetto greco che contemplare è vivere, che la conoscenza, l’assimilazione della verità è vita – questa grande conquista dello spirito greco – viene qui accolta e trova qui conferma.

E richiamandosi ad un’omelia di Gregorio di Nissa, Ratzinger osserva che “il pensiero platonico della vita che scaturisce dalla verità è qui approfondito nella sua versione cristologica e trasformato in una concezione dialogica dellesistenza delluomo, che contiene contemporaneamente affermazioni del tutto concrete su ciò che conduce luomo sulla via dellimmortalità e tramuta quindi la teoria apparentemente speculativa in unindicazione pratica: quella purificazione” del cuore che si compie nella pazienza della fede e nellamore che da questa nasce, trova sostegno nel Signore, il quale solo rende possibile il cammino paradossale sulle acque e conferisce con ciò un senso allassurda esistenza delluomo”.

Tale concezione fondamentale, caratteristica per la tradizione del pensiero cristiano, appare nell’Aquinate inserita in un’interpretazione della dinamica dell’intero creato verso Dio. Infatti, nell’anima che appartiene, da un lato, interamente al mondo materiale, ma dall’altro lato trascende questo mondo, il mondo materiale acquista consapevolezza di se stesso, e ciò proprio perché nell’uomo esso tende a Dio; ragion per cui è accolta la concezione dialogica, nata dalla visione cristologica dell’uomo ed è insieme collegata al problema della materia, dell’unità dinamica di tutto il mondo creato.

La destinazione creaturale delluomo allimmortalità

            Se si afferma che la vita dell’uomo, oltre la morte, è determinata dialogicamente e il dialogo è concretizzato in base alla cristologia, a questo punto, per il teologo bavarese, non possiamo non domandarci se non ci abbandoniamo con ciò a un soprannaturalismo, che o non risponde più alle domande comuni a tutti gli uomini, oppure estende la cristologia all’indefinito al punto da farle perdere quanto le è specifico. Infatti, se l’immortalità è concepita soltanto come gratia, o addirittura come il privilegio dei soli devoti, essa si adegua nel miracoloso e perde la sua base razionale; per Ratzinger, piuttosto, si delinea che la ricerca di Dio non è per l’uomo un qualsiasi capriccio intellettuale; se viene intesa in base alla formula anima forma corporis, essa tocca il centro del suo essere.

L’uomo, quale creatura, è fatto in un modo che, per sua natura, comporta l’indistruttibilità. Così, “non è nellessere se stesso e nellincomunicazione che luomo raggiunge limmortalità, bensì proprio nel suo rapporto, nella capacità di comunicare con Dio, dobbiamo ora aggiungere che questa apertura non è un in più” nellesistenza, la quale potrebbe anche essere vissuta indipendentemente da essa, bensì che questa apertura rappresenta quanto vi è di più profondo nelluomo, ossia propriamente ciò che noi chiamiamo anima”. Alla medesima conoscenza si può giungere pure da unaltra direzione e dire per esempio: un essere è tanto più se stesso quanto più è aperto, quanto più è comunicazione. Il che, a sua volta, porta alla conoscenza, che luomo è “se stesso”, cioè è “persona” in quanto è aperto al tutto e al più profondo dellessere”.

            Una simile apertura, per Ratzinger, è data all’uomo, e pertanto non è un prodotto di un suo sforzo proprio. Tuttavia, essa è data all’uomo in quanto persona, in modo da far ora parte della personalità dell’uomo, secondo l’intenzione della creazione. E richiamandosi all’insegnamento di Tommaso, egli afferma: “a questo si riferisce Tommaso quando dice che limmortalità appartiene alluomo per natura. Alla base di questa sua affermazione ritroviamo coerentemente il suo concetto della creazione, che dice come una tale natura può essere comunicata soltanto dal Creatore, ma che di questo dono luomo diviene proprietario, diventando partecipe di quanto gli è stato conferito. Il che costituisce, invero, già una risposta alla domanda: che cosa accade però, quando luomo viva contrariamente alla sua natura, quando sia chiuso invece che aperto? Che cosa, se nega il suo rapporto con Dio o addirittura non se ne rende conto?”.

            Adesso si chiarisce la portata del concetto della creazione, e si evidenzia insieme il luogo dove inizia la novità, la particolarità della cristologia. Infatti, l’uomo, quale è, vorrebbe procurarsi l’immortalità da se stesso, ma nel tentativo di procurarsi da sé l’eternità egli non può, in ultimo, che fallire, sprofonda nel non-essere, e addirittura consegna già la sua vita alla morte.

Quanto alla correlazione tra il peccato e la morte, Ratzinger osserva: “una simile esistenza, in cui luomo intende sostituirsi a Dio e vuole affermare la propria autonomia, la propria indipendenza e essere dunque soltanto se stesso, simile a un Dio”, diviene unesistenza da sheol, un essere nel non-essere, una vita dombra che è esclusa dalla vita vera. Ma ciò non significa che luomo possa revocare o annullare da sé la creazione di Dio. Ciò che ne consegue non è il puro nulla. Luomo, al pari di ogni altra creatura, può muoversi sempre solamente dentro la creazione, ma non può né produrla da sé né può precipitarla nel puro nulla. Ciò che egli ottiene in questo modo non è quindi lannullamento dellessere, ma un essere in contraddizione con se stesso, una potenzialità che nega se stessa: lo sheol”. La connaturale ordinazione alla verità, a Dio, la quale esclude il non-essere, sussiste anche quando venga negata o dimenticata”.

            Solo a questo punto, per Ratzinger, s’innesta l’affermazione propriamente cristologica. L’evento cristiano, infatti, significa che Dio annulla questa auto-contraddizione senza distruggere la libertà dell’uomo con un atto arbitrario dall’esterno. Più segnatamente, “nella vita e nella morte del Cristo è manifesto che Dio stesso si reca nello sheol, instaura la comunicazione nel luogo dellincomunicabilità, guarisce il cieco (Gv 9) e crea così la vita della morte, in mezzo alla morte. E qui linsegnamento cristiano sulla vita eterna diviene nuovamente unaffermazione assolutamente pratica. Limmortalità non può essere prodotta e, sebbene sia dono della creazione, non è semplicemente un fatto naturale. Se viene considerata tale, essa si trasforma, al contrario, in infelicità. Essa si fonda su un rapporto che ci viene offerto, ma che proprio per essere offerto, ci coinvolge personalmente: esso richiama a una prassi del ricevere, al modello della discesa di Gesù (Fil 2,5-11) contro leritis sicut Deus, contro la totale emancipazione, nella quale sarebbe vano voler cercare la salvezza. Se la capacità di conoscere la verità e la capacità di amare sono il luogo delluomo in cui si apre per lui la vita eterna e dove questa riceve un senso, questa vita eterna diviene la tematica dell’“oggi” e la forma corporis pure nel senso che non estrania luomo al mondo, ma lo toglie dallinformalità anarchica e lo rende persona”.

Luomo spirituale e il suo rapporto con Dio nel tempo

A questo punto, per il teologo bavarese, occorre riflettere su quale modo l’uomo disponga del tempo in quanto uomo, e se su questa base sia possibile concepire un modo d’essere dell’uomo fuori dalle condizioni fisiche dell’essere. Così, approfondendo la domanda, emerge che la temporalità è presente nell’uomo in diversi strati, e quindi pure in diversi modi. A tal riguardo, l’aiuto più valido, per una simile analisi, può venire dal Libro X delle Confessiones di Agostino, in cui egli passa attraverso i vari strati del proprio essere e vi incontra la “memoria”.

Da suddetta analisi, Ratzinger osserva che l’uomo, in quanto corpo “partecipa al tempo fisico che, secondo la velocità rotatoria dei corpi, viene misurato con parametri, i quali essendo a loro volta movimento, sono insieme relativi. Tuttavia luomo non è soltanto corpo, ma anche spirito. Essendo entrambi in lui inscindibili, la sua appartenenza al mondo materiale si ripercuote necessariamente pure sul suo essere spirituale; tuttavia questultimo non è analizzabile in base ai soli dati di fatto fisici. Sebbene la sua partecipazione al tempo fisico impronti il tempo del suo spirito, nelle sue funzioni spirituali egli è tuttavia temporale” in una maniera diversa e più profonda di quanto lo sono i corpi fisici”.

            Dunque, l’uomo non ha un solo tempo fisico, ma ha pure un suo tempo antropologico o “tempo umano”, collegandosi al “tempo-memoria” del santo d’Ippona e benché questo tempo-memoria sia improntato dal rapporto dell’uomo col mondo fisico, non è totalmente legato a quest’ultimo e non si fonde neppure totalmente con esso. Il che significa che quando lascia il modo del βίος, il tempo-memoria si scinde dal tempo fisico per perdurare in seguito come puro tempo-memoria, ma non si trasforma in eternità. In definitiva, ciò significa che un parallelismo eternamente senza rapporti reciproci e quindi pure statico tra il mondo materiale e quello spirituale, contraddice alla ragion d’essere della storia, contraddice alla creazione di Dio e contraddice alla parola della Bibbia.

Gesù modello d’empatia integrale

(Fonte Fonte_globalworship_tumblr_com)

L’empatia di Gesù è evidente e presente in molti passaggi del Nuovo Testamento. è riscontrabile in maniera chiara nella narrazione della guarigione dei due ciechi di Gerico (Mt 20,29-34). In tale circostanza l’empatia autentica di Gesù davanti ai due uomini che implorano la guarigione, è percepibile nelle sue azioni e parole. Pertanto, è fondamentale, per il nostro cammino di crescita come credenti, comprendere e riconoscere come Gesù possa essere modello di empatia integrale: cioè di empatia cognitiva, affettiva, compassionevole, prosociale, salvatrice e spirituale.

Empatia cognitiva: Gesù comprende profondamente la difficile situazione sociale in cui versano i malati emarginati che si rivolgono a lui per essere sollevati dalle loro sofferenze e guarire dalle loro malattie. Perciò, Gesù vede e si rende conto del dolore dei due ciechi di Gerico che soffrono per il rifiuto e l’intolleranza della «folla che li rimproverava» (v. 31). Gesù “si mette nei loro panni”. Pertanto, al loro grido (v. 30), sceglie di fermarsi e di porsi in ascolto delle loro sofferenze (v. 32).

Empatia emotiva: Gesù accoglie con empatia i malati. Egli sente con le sue emozioni e i suoi sentimenti la loro sofferenza. Pertanto, con la sua domanda: «Che cosa volete che io faccia per voi?» (v. 32), Gesù dimostra un’accoglienza incondizionata e un ascolto empatico, lasciandosi toccare il cuore dal grido di disperazione e dall’angoscia di questi uomini: «Signore, che i nostri occhi si aprano!» (v. 33).

Empatia compassionevole: La comprensione empatica, cognitiva e affettiva della sofferenza dei ciechi commuove profondamente Gesù fin “nelle sue viscere”. Tale sentimento scatena in lui una compassione e una motivazione viscerale per dare un senso e una speranza alla loro vita. Pertanto, l’espressione «Gesù ne ebbe compassione» (v. 34), che si ritrova anche in altri passaggi del Nuovo Testamento, rivela in maniera chiara questa empatia compassionevole di Gesù.

Empatia salvatrice, spirituale e prosociale: La compassione di Gesù lo porta a compiere azioni e gesti autenticamente empatici, volti a sollevare questi uomini dalla loro sofferenza; ma anche per dare testimonianza della salvezza del regno del Padre celeste. Perciò, nel caso dei due ciechi, l’empatia salvatrice, spirituale, prosociale di Gesù si manifesta nell’atto di guarigione: «Toccò loro gli occhi ed essi all’istante ricuperarono la vista e lo seguirono» (v. 34).

L’empatia integrale di Gesù diventa quindi un modello ispirante per la praxis morale del discepolo di Cristo. Infatti, ci invita integrare sempre di più l’empatia cristiana, interiorizzando i valori del Vangelo e dell’amore-carità che contribuiscono allo sviluppo del nostro giudizio morale. Dobbiamo essere anche convinti che l’empatia di Gesù curi e guarisca le nostre ferite personali e relazionali. Così, davanti alle fragilità dei nostri fratelli e sorelle, arricchiti e fortificati da questa crescita umana e spirituale, potremo anche noi essere testimoni dell’empatia integrale di Gesù e della sua Speranza salvatrice.

Mario Boies, C.Ss.R., M.Ps. – (Fonte: alfonziana.org)

La teologia batte la crisi

L’associazione teologica italiana (Ati) è tornata nella sua città natale, Napoli, per il suo 27° congresso nazionale che si è aperto lunedì e si chiude oggi presso gli ampi spazio del Pontificio Seminario campano interregionale. L’Ati nacque infatti nel gennaio del 1967 nel corso di un incontro presso la Casa di esercizi Sant’Ignazio a Cappella Cangiani dall’idea di due gesuiti professori alla Gregoriana, l’italiano Maurizio Flick e l’ungherese Zoltan Alszeghy. E un legame visibile con la Compagnia di Gesù è rimasto nella collaborazione dell’Ati alla Rivista di Teologia, edita dalla Pontificia Facoltà teologica dell’Italia Meridionale, sezione San Luigi, quella dei gesuiti appunto. «Fare teologia. Per questo mondo, per questo tempo» è il tema dell’appuntamento di questo anno, che è stato anche un’occasione per fare il punto sulla situazione italiana, dopo 18 mesi così complicati – anche con un contributo a sorpresa, la visita ieri dell’arcivescovo Mimmo Battaglia. «L’Ati attualmente ha 224 membri, uomini e donne, qualcuno dall’estero – spiega il suo presidente don Riccardo Battocchio, della diocesi di Padova ma oggi rettore dell’Almo Collegio Capranica a Roma – 25 sono entrati negli ultimi due anni, quindi un numero incoraggiante. Il che corrisponde a quello che si constata fuori dall’associazione. Nonostante il calo della partecipazione alle vita della comunità, alla Messa domenicale, non si registra un calo proporzionale degli iscritti agli Istituti superiori di scienze religiose o alle Facoltà di teologia. C’è un calo, ma minore. Di teologia poi si scrive e si legge nei luoghi più diversi, su Internet ma non solo, e un argomento affrontato in queste giornate a Napoli è stato proprio come la teologia accademica si può confrontare con questo interesse diffuso che si esprime attraverso una proliferazione di iniziative».

Per quanto riguarda invece un altro tipo di proliferazione che porta piuttosto a una dispersione, quello delle numerose istituzioni formative di teologia sul territorio, don Battocchio ricorda che «è in atto con fatica un ripensamento, a livello Cei c’è un tentativo di creare collegamenti, poi negli anni scorsi c’è stata una riduzione sensibile degli Istituti superiori di scienze religiose. È poi in corso una revisione degli Istituti teologici legati ai seminari in modo che le facoltà teologiche siano soggetti più stabili e robusti, dal punto di vista della sostenibilità economica e del personale docente. Un problema rilevante è che chi non appartiene al clero o non è magari un insegnante di religione fa fatica a insegnare stabilmente in una facoltà teologica, per motivi economici. Magari c’è un laico che ha ottime competenze e qualità ma la facoltà teologica non ha i soldi per assumerlo».

L’attenzione al contesto, dove fare teologia oggi, il suo carattere pubblico, il metodo, sono temi che hanno caratterizzato il dibattito di questi giorni. In riferimento alla pandemia, altro tema ineludibile pensando al presente, don Battocchio nel suo intervento introduttivo ha raccontato che nell’ultimo anno e mezzo gli è stato chiesto in alcune occasione che cosa l’Ati avesse da dire in proposito. Ricordando che il lavoro dell’associazione si situa su un altro piano, lo ha poi illustrato così: «Nel racconto Due vite di Emanuele Trevi, vincitore del Premio Strega 2021, a un certo punto fa capolino la teologia “nell’unico modo in cui l’immaginazione di un uomo d’oggi può praticarla, cioè realizzando la perfetta, ineluttabile identità del divino e del patologico”. L’idea viene da James Hillman, per il quale gli dei degli antichi sono diventati oggi malattie. Noi, qui, crediamo di poter immaginare, grazie alla testimonianza biblica, una teologia che non nega il rapporto fra il divino e la malattia, riconoscendo però la pienezza del divino e dell’umano in colui che “ha preso le nostre infermità e si è caricato delle malattie” ( Mt 8,17). Abbiamo anche la consapevolezza che questa teologia, quella che cerca di corrispondere al farsi carico da parte di Dio della nostra condizione umana “malsicura e barcollante”, sia un bene da offrire a questo mondo, in questo tempo».

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Romano Guardini e il senso della teologia

Governare la vasta e variegata produzione bibliografica di Romano Guardini, da molti considerato come un padre della Chiesa dei nostri tempi, riuscendo a suggerire chiavi ermeneutiche e percorsi di sistematizzazione, è un’operazione complessa che richiede un lungo tempo di faticosa applicazione e illuminata comprensione. Massimo Naro, teologo sistematico presso la Facoltà Teologica di Sicilia a Palermo, da anni si occupa di Romano Guardini e ha pubblicato sul teologo italo-tedesco preziosi articoli scientifici e un robusto volume per i tipi della Rubbettino dal titolo Archetipo e Immagine (2018). L’ulteriore studio, Scienza della realtà, si concentra sull’epistemologia teologica di Guardini ricercando ciò che conferisce unità all’opera e al pensiero del teologo.

Il volume, dopo una breve Introduzione (7-8), si sviluppa in due capitoli: Riprodurre la conoscenza propria di Dio: natura e compito della teologia (9-31) e Capovolgere l’analogia: un contributo all’epistemologia teologica (37-67). Seguono la Conclusione (71-74) e l’Indice dei nomi (75-76).

Secondo Massimo Naro ciò che dà unità all’opera e al pensiero di Guardini è «l’interesse verso il rapporto tra l’uomo e Dio» (10), illuminato dalla rivelazione e riletto e ricompreso in Cristo. «Il dirsi e il darsi di Dio – spiega Naro – avvengono in Cristo, anzi sono Cristo» (11), che è, insiste il teologo siciliano, sulla scorta di von Balthasar, «l’universale concretissimo […] che ci permette di conoscere Dio nel suo rapportarsi all’uomo» (11).

Teologia dell’aggettivo possessivo
Quale è quindi la natura della teologia? Quale il suo compito? Per Naro, la teologia è «cristocentrata» (13) e possiede una vocazione transdisciplinare. Tra i meriti di Guardini, secondo Naro, c’è «la pretesa di riportare la ragione dentro l’atto di fede […] concependo la dimensione naturale immersa nel soprannaturale» (16). Un’autentica conoscenza teologica, come mostrerà anche Lonergan, dipende infatti dall’atto di fede e anche Naro concorda sul fatto che essa risulta «veramente teologica nella misura in cui è teologale» (21).

Si tratta di un passaggio decisivo. Lo stesso Guardini nel saggio Sacra Scrittura e Scienza della fede, annotava che «la conoscenza teologica dipende dalla vita di fede, dalla preghiera, dalla condotta cristiana, dalla santità della vita». Non prescindendo da questo fondamento spirituale, Guardini «si proponeva di elaborare una teologia che fosse epistemologicamente ulteriore rispetto a tutti gli altri saperi» (24), una sorta di scienza della realtà o ancora della «reale relazione di Dio con l’uomo in Cristo Gesù» (25), «logos umanato» (26).

Insieme al teologo E. Ortigues, Naro definisce questa teologia guardiniana come la “teologia dell’aggettivo possessivo”, non del “Dio per sé” ma del “Dio mio”, aggiungendo che è proprio «il dirsi e il darsi di Dio che detta il compito alla teologia» (28). Ne viene fuori una teologia teologale nella quale la vigilanza della fede può operare il passaggio dall’apologetica medievale alla teologia fondamentale moderna. Guardini intuisce che nella fede si realizza una nuova comprensione dell’oggetto, come dirà Lonergan ne Il metodo in teologia: se l’oggetto indagato è autentico avviene una conversione del soggetto all’oggetto. Questo vuol dire che la conoscenza teologica può aprirsi alla dimensione contemplativa (cf. 30).

Approfondendo la teologia di san Bonaventura, Guardini scopre inoltre che occorre valorizzare la «portata esistentiva della teologia», la sua natura relazionale. Naro definisce questo metodo guardiniano come un «procedimento agapico»: «per teologare occorre percorrere la via dell’amore» (33), per poi spiegare che «la teologia ci permette – analogicamente – di apprendere che tra l’uomo e Dio intercorre una relazione iconica, in virtù della quale Dio viene (ri)conosciuto nell’uomo» (33).

Analogia
Tra i contributi più originali di Guardini alla teologia c’è l’aver capovolto il classico uso dell’analogia. Il secondo capitolo del testo di Naro è dedicato a questo tema. Guardini non prescinde dalle classiche declinazioni dell’analogia, l’emanatio come descensio o exitus a Deo e l’itinerario di ritorno ascensio o anche reditus in Deum, tuttavia, come mostra Naro, il teologo italo-tedesco «ripensando la lezione di Bonaventura, mette in evidenza la valenza umana dell’analogia» (39), compiendo «il primo passo» verso «l’analogia relationis, o anche analogia amoris, dato che l’essere umano in tanto somiglia a Dio in quanto può realmente mettersi in rapporto con lui nel solco dell’essere che più gli è proprio, cioè l’amore agapico» (39). Ed è proprio in questa via dell’amore, via di ritorno nel quale l’amore desidera il possesso di Dio, che l’analogia entis diventa analogia sanctitatis, ma anche aggiunge Naro, l’analogia humana diviene analogia relationis (cf. 40).

Guardini s’inserisce all’interno di un dibattito teologico che aveva visto il teologo gesuita polacco Przywara puntare sull’analogia entis, mentre il teologo protestante svizzero Karl Barth suggerire l’analogia fidei. Per Guardini esiste «una via mediana» (51) che si snoda secondo la relazione che collega analogia e adorazione: «I concetti con cui l’uomo ragiona riguardo a Dio, nell’analogia […] sono votati a cedere il passo al silenzio adorante» (51). Si tratta in altre parole dell’indole sacrificale dell’analogia, tra teologia apofatica e teologia catafatica e apertura verso la teologia enfatica: «L’analogia è dunque allo stesso tempo discorso, adorazione e lode» (52). Questa via mediana o terza via dell’analogia è coniata da Massimo Naro come inversio analogiae. L’espressione non si trova negli scritti di Guardini, ma riesce a sintetizzare efficacemente l’operazione epistemologica compiuta dal teologo italo-tedesco, rischiarando il rapporto iconico tra Dio e l’uomo, reso presente mediante l’incarnazione del Verbo.

Tra i punti più originali dell’opera c’è l’aver proposto l’inversio analogiae sia come chiave di lettura dell’epistemologia teologica di Guardini che come esigenza teoretica della sua Weltanschauung, che si pone come processo correttivo di quel fraintendimento dell’alterità divina introdottosi con la modernità. Naro offre delle pagine dense e illuminanti che consentono agli studiosi e ai lettori di potersi orientare nel variegato scenario delle riflessioni teologiche e filosofiche, aiutando a comprendere che «teologare non significa solo conoscere Dio, ma anche conoscere il mondo a partire da Dio» (69).

Le applicazioni di questo studio sono molteplici, dalla filosofia delle religioni alla teologia. Il guadagno per l’epistemologia teologica è notevole, perché l’antropologia è ricondotta alla teologia (cf. 63), e con il capovolgimento dell’analogia, la stessa teologia si può configurare come antropologia teologica. Un’antropologia teologica che risulta «iconicamente impostata» e pensata come «relazione tra una divina immagine archetipa (Urbild) e un’umana immagine che ne è il riflesso (Ebenbild)» (65), in stretta connessione con il senso della rivelazione e la stessa divina Scrittura.

Il volume è articolato in modo organico. Lo stile è tecnico e teologico, la lingua è colta e raffinata, chiara, densa e incisiva.

Massimo Naro, Scienza della realtà. La riflessione di Romano Guardini sul senso della teologia, EDB, Bologna 2020, 77 p., € 10. Recensione pubblicata su Teresianum 72(2021)1, pp. 266-268.
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Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita

di: Franco Giulio Brambilla

betulle

Ho immaginato questa introduzione al testo inviato con il titolo: «Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita. Carta d’intenti per il “Cammino sinodale”» come un momento per illuminare il percorso e scaldare il cuore sulla strada che ci sta davanti.

Per trovare un’intuizione che accenda il nostro spirito ho fatto un piccolo esercizio di ermeneutica sull’intervento di papa Francesco all’Azione Cattolica Italiana, lo scorso 30 aprile, ultimo di una serie. Confrontando il testo distribuito in embargo e la trascrizione dell’orale, possiamo notare tre significativi innesti, che ci raccontano il tono dell’intervento. Il testo scritto illumina la mente, le aggiunte a voce parlano al cuore.

Potremmo riassumere le aggiunte a voce con tre espressioni colorite usate da papa Francesco: “togliere dall’archivio”, “non guardarsi allo specchio”, “dal basso, dal basso, dal basso”. Questi tre modi di dire che parlano al cuore rispondono a tre domande che ci indicano la traccia del nostro camminare insieme: il “Cammino sinodale” perchécomecon chi?

La prima domanda riguarda le ragioni e le passioni del “Cammino sinodale”; la seconda lo stile e i modi con cui metterci in viaggio; la terza parla dei compagni e dei tempi del percorso.

“Togliere dall’archivio”: le ragioni e le passioni

All’inizio dell’intervento all’Azione Cattolica, nel terzo punto dove il papa commenta l’aggettivo “italiana”, dopo aver letto il primo paragrafo del testo preparato, aggiunge: «E la Chiesa italiana riprenderà, in questa Assemblea [dei Vescovi] di maggio, il Convegno di Firenze, per toglierlo dalla tentazione di archiviarlo, e lo farà alla luce del cammino sinodale che incomincerà la Chiesa italiana, che non sappiamo come finirà e non sappiamo le cose che verranno fuori. […]. E la luce, dall’alto al basso, sarà il Convegno di Firenze».

Riprendere il Convegno di Firenze, sottrarlo dalla tentazione di archiviarlo! Questa è l’insistente richiesta di papa Francesco. È il filo rosso che dobbiamo prendere in mano per districarci nel tempo presente.

Una delle prime volte che papa Francesco introdusse l’assemblea dei Vescovi ci parlò dell’“eloquenza dei gesti” per cambiare stile di presenza al mondo. Il papa ci disse: «Il vostro annuncio sia poi cadenzato sull’eloquenza dei gesti. Mi raccomando: l’eloquenza dei gesti. Come Pastori, siate semplici nello stile di vita, distaccati, poveri e misericordiosi, per camminare spediti e non frapporre nulla tra voi e gli altri. Siate interiormente liberi, per poter essere vicini alla gente, attenti a impararne la lingua, ad accostare ognuno con carità, affiancando le persone lungo le notti delle loro solitudini, delle loro inquietudini e dei loro fallimenti: accompagnatele, fino a riscaldare loro il cuore e provocarle così a intraprendere un cammino di senso che restituisca dignità, speranza e fecondità alla vita» (66ª Assemblea Generale, 19 maggio 2014).

Il tema del Convegno di Firenze era il seguente: “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. Papa Francesco è entrato nel tema per una porta apparentemente dimessa. Prendendo spunto dal Giudice misericordioso dell’Ecce Homo della cupola, ha affermato: «Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo».

La centralità cristologica del suo discorso ne rivela il motore segreto: solo una Chiesa che abita questo roveto ardente trova la casa da cui può partire anche per l’avventura più grande. L’“addomesticamento della potenza del volto” toglie energia a ogni nostro slancio evangelizzatore.

Il papa ne ha declinato tre aspetti con un procedere piano, quasi meditativo: umiltà, disinteresse, beatitudine, ricavandoli sul calco dell’inno della Lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11).

Da una cristologia dell’umiliazione ha ricavato lo stile umile della missione della Chiesa. Mi ha fatto sovvenire una pagina memorabile del card. Martini che, nella lettera di presentazione del Sinodo alla sua Chiesa, scriveva: «È il volto dell’umile, che accetta di essere consegnato alla morte per amor nostro. […] In Lui, misericordia fatta carne, siamo chiamati a essere la Chiesa della misericordia; in Lui, povero per scelta, la Chiesa povera e amica dei più poveri; in Lui, appassionato per la comunione del regno, la Chiesa dell’unità intorno ai pastori da lui voluti per noi, nell’attesa fiduciosa e orante del dono della piena comunione tra tutte le Chiese cristiane; in Lui, ebreo osservante, la Chiesa che ama i suoi fratelli maggiori e si nutre sulla santa radice; in Lui, Servo umile e consegnato per amore al dolore e alla morte, la Chiesa che accetta di farsi consegnare dal Padre alla via dolorosa per amore del suo popolo, fino alla fine».[1] Stupenda consonanza di prospettiva.

Anche gli altri due tratti che devono rinnovare il volto della Chiesa approfondiscono la cristologia dell’inno: il disinteresse e la beatitudine.

Vorrei riprendere la bellezza del secondo tratto: quello del disinteresse. In sé la parola “inter-esse” è positiva, significa “stare-tra” e “abitare-in-mezzo” ed è molto vicina a “inter-cedere”, che è l’azione di chi abita tra la gente e ne porta le gioie e i dolori. Nella formula rinforzata del papa essa risuona in modo univoco: «Dunque, più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di se stesso, allora non ha più posto per Dio. Evitiamo, per favore, di “rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli” (EG, 49)». Da ciò consegue che la beatitudine del cristiano «è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile».

La linea di pensiero papa Francesco è disarmante nella sua semplicità. «Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi i tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio. E questi tratti dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme in un esempio di sinodalità». Da Cristo alla Chiesa: per la Chiesa italiana e il suo stile pastorale.

A partire da questo punto, il Discorso di Firenze ha cominciato a infondere passione ai presenti. Ad esempio, con questo passaggio, che è il punto di svolta del Discorso in Santa Maria del Fiore: «Questi tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione».

Possiamo immaginare l’eco nei presenti del passo appena citato, ingigantito subito con la ripresa di un brano molto noto di Evangelii gaudium: «L’ho detto più di una volta e lo ripeto ancora oggi a voi: “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti” (EG 49)».

Vi fu allora chi parlò di “sferzata” alla Chiesa italiana! Qualcuno oggi forse pensa che non abbia avuto molto effetto, anche se mi sembra ingiusto sorvolare sul molto che si è fatto in questi cinque anni e mezzo in tante diocesi d’Italia.

In ogni caso, una Chiesa che si lascia sporcare la veste, perché condivide la fatica degli uomini, fa risuonare un famoso testo dell’allora card. Montini, nella lettera per la Quaresima del 1962, intitolata Pensiamo al Concilio: «Per questo [la Chiesa] cercherà di farsi sorella e madre degli uomini; cercherà di essere povera, semplice, umile, amabile nel suo linguaggio e nel suo costume. Per questo cercherà di farsi comprendere, e di dare agli uomini di oggi facoltà di ascoltarla e di parlarle con facile ed usato linguaggio. Per questo ripeterà al mondo le sue sapienti parole di dignità umana, di lealtà, di libertà, d’amore, di serietà morale, di coraggio e di sacrificio. Per questo, come si diceva, vedrà di “aggiornarsi” spogliandosi, se occorre, di qualche vecchio mantello regale rimasto sulle sue spalle sovrane, per rivestirsi di più semplici forme reclamate dal gusto moderno».[2]

Montini è stato definito il “poeta della modernità”, cioè colui che s’è lasciato permeare dal linguaggio moderno così profondamente da immettervi la forza vitale del lievito evangelico, in un processo di prodigioso scambio. Non possiamo noi oggi patire e sentire la stessa onda calda per iniziare il nostro “Cammino sinodale”?

“Non guardarsi allo specchio”: lo stile e i modi

Il secondo innesto di papa Francesco nell’intervento all’Azione Cattolica è il più lungo e riveste una duplice funzione: liberarci dai nostri timori e delle nostre paure e aprirci una strada praticabile. Ascoltiamolo: «In effetti, quello sinodale non è tanto un piano da programmare e da realizzare, ma anzitutto uno stile da incarnare. E dobbiamo essere precisi, quando parliamo di sinodalità, di cammino sinodale, di esperienza sinodale. Non è un parlamento, la sinodalità non è fare il parlamento. La sinodalità non è la sola discussione dei problemi, di diverse cose che ci sono nella società… È oltre. La sinodalità non è cercare una maggioranza, un accordo sopra soluzioni pastorali che dobbiamo fare. Solo questo non è sinodalità; questo è un bel “parlamento cattolico”, va bene, ma non è sinodalità. Perché manca lo Spirito. Quello che fa che la discussione, il “parlamento”, la ricerca delle cose diventino sinodalità è la presenza dello Spirito: la preghiera, il silenzio, il discernimento di tutto quello che noi condividiamo. Non può esistere sinodalità senza lo Spirito, e non esiste lo Spirito senza la preghiera. Questo è molto importante».

Lo stile sinodale – dice il papa – non è solo discussione, non è solo maggioranza, non è solo convergenza pratica su scelte pastorali, ma un evento spirituale, un’azione dello Spirito Santo nel cuore della Chiesa, fatto di preghiera, silenzio e discernimento. Basterebbero questi elementi per dirne il carattere di evento eucaristico, ecclesiale e spirituale! L’espressione più famosa è quella di Crisostomo e ricorre nel commento al penultimo salmo del salterio. Definisce l’essere stesso della Chiesa: «Chiesa è il nome del convenire e del camminare insieme» (Ekklesía gár systématos kaí synódou estìn ónomaEx. in Psalm. 149,2; PG 55,493).

Questo mette in luce il duplice aspetto della sinodalità, il “convenire” (liturgico) e il “camminare” (evangelizzante).

Il primo dice il rapporto della Chiesa con la liturgia eucaristica, sorgente della communio. Il secondo la modalità evangelica e fraterna con cui la communio si attua nel “camminare insieme”. Potemmo dirlo in forma semplice: la comunione senza la sinodalità resta un cuore senza un volto; e viceversa: una sinodalità senza Spirito può ridursi a una forma di retorico populismo.

L’insistenza del papa sul fatto che molti immaginano una sinodalità senza Spirito Santo mi ha fatto ricordare che nella Summa Theologiae di Tommaso (STh II-II, qq. 47-52) la “sinodalità” è riconducibile al “consiglio”, come dono dello Spirito Santo, e corrisponde alla virtù cardinale della prudenza.[3]

Per Tommaso d’Aquino la prudenza cristiana è la virtù necessaria per decidere, e si applica all’ambito del bene proprio (prudenza personale), del bene della famiglia (prudenza domestica) e del bene della comunità (prudenza politica): è il primo gradino dell’agire morale equo e giusto. La prudenza (che si avvicina al tema moderno del “discernimento”) è l’arte di decidere il giusto e il bene per sé (persona), per la comunità (famiglia e Chiesa), per la società (politica).

Non esiste, tuttavia, decisione saggia e prudente, se non si nutre del dono del “consiglio”. Questo processo implica due cose: la capacità di ben consigliare in coloro che sono chiamati a dare consiglio e la docilità in coloro che devono rendersi disponibili a quanto viene consigliato. Per san Tommaso il consiglio è il dono di percepire ciò che va fatto per raggiungere un fine soprannaturale, rimane anche nella vita eterna e si può chiedere con la preghiera nella comunione dei santi. Il dono del consiglio è, infine, collegato alla beatitudine della “misericordia”. È bello vedere che virtù cardinali (prudenza), doni dello Spirito (consiglio) e beatitudini evangeliche (misericordia) siano tra loro intimamente connesse.

Il tema della sinodalità può, dunque, essere svolto illustrando queste tre dimensioni: la radice della sinodalità nella liturgia eucaristia, la sinodalità intesa come forma di corresponsabilità al governo nella Chiesa e la sinodalità come processo spirituale di comunione.

Possiamo riprendere il nesso tra prudenza-consiglio-misericordia, che mi sembra perfettamente in sintonia con l’intervento di papa Francesco. La relazione tra virtù di prudenzadono del consiglio e beatitudine della misericordia, forma rispettivamente la dimensione antropologica, teologica e cristologica della sinodalità.

La virtù di prudenza è la radice antropologica della sinodalità. La prudenza richiede un discernimento che si distende nel tempo, si confronta con gli altri, si colloca nel fiume della memoria (di una comunità, di una Chiesa locale, di una città, di un paese), sfugge all’idealizzazione e sa assumere il rischio di decidere ciò che è buono qui e ora.

La prudenza è tutt’altro che “prudente”, timorosa, reticente. Esige coraggio, lungimiranza, sguardo aperto.

La prudenza appartiene al sapere pratico, e per questo non è possibile senza il concorso di molti, soprattutto di coloro che in qualche modo sono coinvolti nel discernimento di particolari ambiti dell’agire pastorale della Chiesa. Si pensi solo alla famiglia, all’educazione, alla professione, alla vita civile. La possibilità di una decisione saggia del ministero ecclesiale non può escludere l’apporto competente per l’annuncio evangelico e la pratica pastorale del popolo di Dio, delle famiglie e dei laici. Questo apporto può essere competente solo come atto della libertà che si lascia animare dallo Spirito.

Il dono del consiglio accompagna l’esercizio della virtù di prudenza: è la dimensione teologale di ogni percorso sinodale. Il dono del consiglio è reso presente nella liturgia, la quale è il momento sorgivo di ogni “evento” sinodale, tanto che è richiamata come costitutiva nell’Ordo ad synodum.[4]

Un “Cammino sinodale” non deve perdere la connotazione “spirituale” dei modi con cui la Chiesa approda alla decisione pastorale e articola le sue scelte pratiche. Altrimenti la sinodalità corre il rischio di diventare una pura operazione organizzativa e programmatica che non esprime il mistero che è e fa la Chiesa.

Se il “consiglio” è il “dono di percepire ciò che va fatto per raggiungere un fine soprannaturale”, possiamo dire che il “consigliare nella Chiesa” è l’atto spirituale per eccellenza con cui si “immagina” la Chiesa in modo corrispondente alla sua natura eucaristica.

La sinodalità è il cammino per “immaginare la Chiesa”, le sue azioni e i suoi gesti, come plebs adunata de unitate Patris, Filii et Spiritus Sancti (san Cipriano, citato in LG, 4). Solo come plebs adunata dall’Eucaristia può diventare ecclesia synodalis, comunità che “cammina insieme” sotto l’ispirazione del dono del consiglio. Ma l’intreccio tra virtù di prudenza e dono del consiglio non basta.

La beatitudine della misericordia sta al crocevia tra virtù e dono. La finezza dell’intreccio di san Tommaso rivela ora la sua bellezza e la sua concretezza. Virtù e dono trovano nella beatitudine la via storica su cui camminare insieme. Per esprimerci con un’immagine, sono la “segnaletica” con cui la Chiesa “fa sinodo”, cioè “fa-strada-insieme”.

Se dobbiamo rispondere alla domanda “Chi è la Chiesa nel mondo?”, essa non può essere che l’intreccio tra mistero e storia, tra comunione e popolo di Dio, tra plebs adunata ed ecclesia synodalis. La figura storica del rapporto tra virtù e dono è la beatitudine della misericordia: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7). La sinodalità assume i tratti dell’inclusione, dell’accompagnamento, dell’integrazione (solo per ricordare le tre parole chiave del Sinodo sulla famiglia). Questo evento di Chiesa può diventare paradigmatico della Chiesa come evento per il tempo a venire.

Quanta misericordia è necessaria anche oggi per fare della Chiesa il luogo dei buoni legami, perché i credenti portino la gioia del Vangelo agli uomini del nostro tempo! Da tutto ciò viene naturale la conclusione di papa Francesco: «Fare sinodo non è guardarsi allo specchio, neppure guardare la diocesi o la Conferenza episcopale, no, non è questo. È camminare insieme dietro al Signore e verso la gente, sotto la guida dello Spirito Santo»!

“Dal basso, dal basso, dal basso”: i compagni e i tempi del percorso

Sorprende che, fin dall’inizio, quando papa Francesco immagina lo svolgimento del “Cammino sinodale”, lo indichi con una frase, accompagnata dal gesto della mano che sale gradualmente dal basso verso l’alto: «Il cammino sinodale, che incomincerà da ogni comunità cristiana, dal basso, dal basso, dal basso fino all’alto».

Viene spontaneo chiedersi: quanto “dal basso”? Si potrebbe rispondere: sempre più nella profondità della vita degli uomini e delle donne.

Vi sono però due indicazioni che illuminano la richiesta del papa. La prima è riferita alla laicità e si trova nel discorso all’Azione Cattolica: «Il vostro contributo più prezioso potrà giungere, ancora una volta, dalla vostra laicità, che è un antidoto all’autoreferenzialità. È curioso: quando non si vive la laicità vera nella Chiesa, si cade nell’autoreferenzialità. […]

Laicità è anche un antidoto all’astrattezza: un percorso sinodale deve condurre a fare delle scelte. E queste scelte, per essere praticabili, devono partire dalla realtà, non dalle tre o quattro idee che sono alla moda o che sono uscite nella discussione. Non per lasciarla così com’è, la realtà, no, evidentemente, ma per provare a incidere in essa, per farla crescere nella linea dello Spirito Santo, per trasformarla secondo il progetto del Regno di Dio».

La laicità è evocata come rimedio all’autoreferenzialità e all’astrattezza, cioè a una visione della missione che non assume l’umano e non scende nel concreto della vita e della storia. È un richiamo che si comprende bene in presenza di un’associazione laicale.

Nel Discorso di Firenze, però, c’è un altro passaggio, ancora più arioso, in cui il “dal basso” assume una dimensione non solo spaziale, ma culturale: «La società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media… La Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro, di unità. Del resto, le nostre stesse formulazioni di fede sono frutto di un dialogo e di un incontro tra culture, comunità e istanze differenti. Non dobbiamo aver paura del dialogo: anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia» (corsivo mio).

Questa vasta rete di scambi non potrebbe riportare la Chiesa nello spazio pubblico con un metodo nuovo e con la presenza decisiva dei laici cristiani? Pensiamo che cosa significhi tutto ciò nella rete intricata delle risorse e delle persone della Chiesa italiana.

Ecco i compagni di viaggio del cammino sinodale! Ciò potrà avvenire secondo uno stile che papa Francesco collega alla categoria di “incontro”: «Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo, né ignorarlo, ma accettarlo. “Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo” (EG, 227)».

Sotto l’apparente semplicità dell’indicazione che “dialogare” non è “negoziare” per portarsi a casa ciascuno la propria fetta dalla torta comune, sta una concezione alta del dialogo e dell’incontro (EG, 226-230). Con una precisazione inusuale per la nostra tradizione: quella di un dialogo-incontro, non solo culturale, ma che opera con altri soggetti sociali anche sulle prassi concrete: «Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà. E senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo».

È forse questo il punto più avanzato del Discorso di Firenze, che mi sembra richieda una profonda conversione di mentalità. La potenza creativa del genio italiano va liberata in modo nuovo, ma ciò non può avvenire senza la corresponsabilità e il concorso di molte forze sociali, culturali e caritative.

Papa Francesco lo riprende nella perorazione finale: «Perciò siate creativi nell’esprimere quel genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile. Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese».

Ciò non esclude che la Chiesa debba offrire anche un “contributo critico” agli aspetti della cultura e della prassi che rappresentano una minaccia per l’ecologia integrale dell’uomo, com’è disegnata nella Laudato si’. Tuttavia, il necessario elemento critico del confronto con le visioni e le prassi culturali cambia totalmente di segno, come appare in questo passo: «Lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta. La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose». E non è un caso che a questo punto viene fatto appello soprattutto ai giovani per costruire in modo corale il futuro del Paese, prospettando davanti a loro la sfida del nuovo, perché «oggi non viviamo un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca».

Lo scambio simbolico tra il lievito del Vangelo e la pasta dell’umano, nelle sue variegate componenti culturali e sociali, nella vita personale e nelle comunità ecclesiali, apre un compito immenso ed affascinante, per cui merita veramente dedicare il tempo necessario per un coraggioso salto di qualità nelle Chiese italiane.

La «Carta d’intenti per il “Cammino sinodale”», inviata in anticipo, suggerisce il contesto del tempo di pandemia, il cambiamento di prospettiva e i tempi del percorso sinodale. La recente pubblicazione da parte della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi è armonizzabile con il “Cammino sinodale” delle Chiese in Italia. Infatti, la XVI Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi del 2023, dal titolo: “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”, disegna un percorso di ricerca e confronto sulla “sinodalità” che riflette sul metodo con cui si svolgerà anche il “Cammino sinodale” italiano, il quale si colloca nell’orizzonte più vasto dell’annuncio del Vangelo in un tempo di rinascita.

Roma, 25 maggio 2021

Franco Giulio Brambilla,
vescovo di Novara,
vicepresidente della Conferenza episcopale italiana


[1] C.M. Martini, Lettera di presentazione alla Diocesi, Diocesi di Milano, 47° sinodo, Centro Ambrosiano, Milano 1995, 15-46: 21.

[2] G.B. Montini, «Pensiamo al Concilio», in Giovanni Battista Montini, Arcivescovo di Milano, Discorsi e scritti sul Concilio (1959-1963), a cura di A. Rimoldi, Presentazione di G. Cottier (Quaderni dell’Istituto 3), Brescia – Roma, Istituto Paolo VI – Studium, 1983, pp. 102-103 (n. 55).

[3] Ha svolto in modo mirabile questo intreccio, in un intervento divenuto famoso, C.M. Martini, «Il consigliare nella Chiesa», in Consigliare nella Chiesa. Organismi di partecipazione nella diocesi di Milano, Centro Ambrosiano, Milano, 2002, 13-25.

[4] G. Alberigo, «Sinodo come liturgia?», in Il Regno-Documenti LII (2007) 13, 443-456: 450-453.

La voce del popolo: ottavo sacramento

di: Victor Codina

codina

Nel 1984, il vescovo mistico, profeta e poeta, Pedro Casaldáliga, nel contesto della sua travagliata diocesi amazzonica di São Félix de Araguaia, scriveva: «Lo Spirito/ha deciso/di amministrare/ l’ottavo sacramento:/la voce del Popolo».

Questa affermazione, che poteva scandalizzare i cristiani che intendevano in modo puramente aritmetico la definizione di Trento circa il numero settenario dei sacramenti, è pienamente ortodossa ed evangelica.

Nei sacramenti avviene un incontro di fede con il Signore e secondo la parabola del giudizio finale del Vangelo di Matteo 25,31-46, il Signore è presente nei poveri che hanno fame e sete, nei forestieri e negli ignudi, nei malati e nei carcerati, che costituiscono il cuore del Popolo, l’Otto biblico. Al termine della vita saremo giudicati sull’amore, l’opzione per i poveri è implicita nella nostra fede cristologica, poiché è ciò che fece Gesù durante tutta la sua vita.

Nel 2016, il teologo cristiano statunitense Paul Knitter, nel contesto del dialogo interreligioso, confessava che il buddismo lo aveva aiutato a continuare ad essere cristiano ed è grato per aver scoperto nel buddismo un ottavo sacramento: il sacramento del silenzio.

In un mondo pieno di rumore, voci, parole e di propaganda mediatica che ci assorda e deforma, dobbiamo fare silenzio per poter ascoltare la voce interiore e aprirci al Mistero. Questo silenzio fa parte della tradizione apofatica, monastica e mistica della Chiesa cristiana.

Siamo di fronte a due posizioni contraddittorie? È stata superata l’affermazione di Casaldáliga, debitrice di un contesto di lotta contro le dittature latinoamericane e di dialogo con il marxismo, in piena euforia della teologia della liberazione, quando ormai è già caduto il muro di Berlino e sono cadute sia le sinistre politiche e il cosiddetto socialismo del XXI secolo sono in crisi? Dobbiamo passare da Marx a Budda? Dobbiamo abbandonare i vangeli sinottici narrativi per il più mistico vangelo di Giovanni? Dobbiamo sostituire Casaldáliga con Knitter?

Le due affermazioni dell’ottavo sacramento, lungi dall’essere contraddittorie o disgiuntive, si completano e si integrano a vicenda.

Senza un clima di profondo silenzio e di apertura alla trascendenza del Mistero, il povero e la prassi della giustizia possono diventare un inganno, una ideologizzazione del popolo, un rischio di un’analisi chiusa della realtà, una sottile affermazione dell’io, una falsa utopia rivoluzionaria di un cambiamento di strutture senza conversione personale, che può bruciare invano generose illusioni giovanili.

Ma possiamo anche pensare che un silenzio oceanico e cosmico, aperto al Tutto, se non approda ad un’apertura ai deboli, se non ascolta la voce dei poveri, se si chiude alla storia, alla giustizia e alla solidarietà, può essere ambiguo, egoistico, narcisista e ombelicale, e diventare una nebulosa esoterica e liquida, cessa di essere un sacramento.

Il silenzio autentico deve aprirsi oggi alle vittime di un sistema economico omicida e distruttivo della casa comune, alle vittime della pandemia, alle vittime della violenza, ai profughi che muoiono nel cimitero del Mediterraneo, alle vittime del maschilismo e degli abusi sessuali…

Il silenzio orante di Mosè davanti al roveto ardente, culminò nella liberazione del suo popolo schiavo del faraone egiziano.

La contemplazione di Thomas Merton nel monastero trappista del Kentucy lo rese un pacifista impegnato contro la guerra del Vietnam e in un difensore del dialogo interreligioso.

Gesù di Nazareth, che trascorreva lungo tempo nel silenzio della preghiera davanti al mistero del Padre, è lo stesso che predica il Regno, guarisce i malati, perdona i peccati, sfama la gente, chiama i discepoli, dà la vita fino alla morte per il popolo ed effonde il suo Spirito.

La migliore tradizione umana e spirituale dell’umanità ha integrato queste due dimensioni irrinunciabili: Gandhi, Tagore, Mandela, Luther King, Romero, Roncalli, Hildegarda, Eckhart, Madeleine Delbrêl, Dag Hammarskjöld, Madre Teresa, Foucauld, Elie Wiesel, Ahmad Al-Tayyeb, Dorothy Stang…

Il popolo povero e il silenzio potranno essere un ottavo sacramento solo se sono espressione dello Spirito di Gesù che ci convoca al Regno, ci apre al mistero silenzioso del Padre e ci chiama a dare la vita per gli altri, come fece Gesù di Nazaret.

Siamo tutti fratelli nel silenzio orante e nel nostro impegno quotidiano per la giustizia e la casa comune.

Non esistono “due-ottavi sacramenti”, ma uno solo: ascoltare in silenzio la voce dello Spirito, soprattutto attraverso il grido del popolo.

Settimananews

Si chiude la pubblicazione dell’«Opera Omnia» di Raimon Panikkar. Infinitamente ignorante perché infinitamente colto

A Tavertet, in Catalogna, un villaggio di montagna affacciato sugli immensi balconi di roccia viva dei Pirenei, spunta una casina di legno e pietra, con grandi vetrate, che pare un vascello volante. Lassù, penzoloni su un lago di nuvole bianchissime, Raimon Panikkar ha vissuto l’ultima fase d’una esistenza unica o, come amano dire i tedeschi, nicht klassifizierbar, non catalogabile. Non a caso amava citare il Salmo 24, laddove Davide domanda perdono al Signore, riconoscendo d’essere «povero», ma «unico» (quia unicus et pauper sum). La sua vita, unica per davvero, pareva quasi gareggiare con la logica della non contraddizione e avvicinarsi a quella che Giovanni Gentile definiva «unità superiore», «dove i contrari coincidono senza demolirsi». Di sé stesso Panikkar diceva: «Non mi considero mezzo spagnolo e mezzo indiano, mezzo cattolico e mezzo indù, ma totalmente occidentale e totalmente orientale».

Panikkar è stato filosofo, mistico, teologo, chimico, sacerdote, docente acclamato delle più importanti università dell’India, degli Stati Uniti e dell’Europa, ma soprattutto maestro.

Martin Heidegger definì la sua intelligenza «elettrica», col suo solito verbo avaro di spiegazioni. Ne avanziamo una noi: l’électron è per i greci la specialità di alcuni corpi d’attrarne a sé altri. L’intelligenza di Panikkar ha saputo attrarre a sé, con un’empatia straordinaria, mondi, lingue, persone, tradizioni religiose («vero cuore delle civiltà») dai più disparati angoli della Terra. Inesauribilmente ignorante, perché inesauribilmente curioso, colto; di quella beata, infinita agnosía tanto cara al suo Evagrio Pontico.

Se diamo per buono ciò che Nietzsche scrisse in Al di là del bene e del male, vale a dire che «ogni filosofia è il confessarsi del suo autore», legheremo necessariamente la rara unicità del pensiero di Panikkar, insieme al suo vivace coinvolgimento nel dialogo interreligioso, alla sua stessa vita e ai fatti della sua storia familiare.

Negli anni finali dell’esperienza terrena, consapevole che il suo tempo stava giungendo alla fine, Panikkar ha consegnato i suoi diari a Milena Carrara Pavan, la persona che gli è stata più vicina negli ultimi vent’anni di vita, curatrice dell’Opera Omnia e attuale presidente della fondazione Vivarium. Con una lettera molto profonda, Panikkar ha affidato a lei la sua memoria. Alcuni brani di questi diari sono stati pubblicati sotto il titolo L’acqua della goccia. Frammenti dai Diari di Raimon Panikkar (Milano, Jaca Book, 2018), che costituisce il riferimento principale di qualsiasi tentativo di biografia.

Nel suo Panikkar, un uomo e il suo pensiero, Maciej Bielawski ha definito il filosofo catalano figlio «di una simbiosi», che condizionò anche le sue prospettive sul Reale. Tale «simbiosi» nacque ben prima che Raimon avesse la maturità intellettuale per scriverne. Nacque nell’abbraccio di radici lontane, che fu proprio la sua famiglia.

Suo padre, Menakath Allampadath Ramuni Panikkar, nobiluomo del Kerala, laurea in chimica a Madras, sposò, secondo la tradizione indiana, una giovane di famiglia altrettanto importante. Da questo primo matrimonio nacque un figlio, che Raimon conoscerà soltanto nell’età adulta, durante una delle sue «scorribande in moto, per l’intero territorio indiano». Poco dopo, il padre di Raimon fu costretto a lasciare l’India per non rimanere compromesso in una grave imputazione terroristica che coinvolse un suo fedele compagno. Si trasferì in Inghilterra e divenne uno dei leader del movimento di liberazione dell’India dal dominio coloniale. In un colloquio con Raffaele Luise, Raimon accennava alla vicenda: «Ci mancò poco che la mia famiglia entrasse nella “grande” storia. Ma, qualche tempo dopo, giunse nella capitale inglese Gandhi e mio padre lasciò al suo eccezionale carisma la direzione del movimento».

Fu così che Ramuni Panikkar si trasferì in Spagna, dove impiantò una piccola fabbrica per la lavorazione delle pelli e conobbe Carmen Magdalena Alemany, figlia cattolica della ricca borghesia catalana, che riuscirà a sposare essendo il suo precedente matrimonio non celebrato con rito cattolico. Dalle nozze nacquero Salvador, Mercedes, José Maria e il nostro Raimon. Fu Carmen a trasmettere ai figli la passione per la musica, ma soprattutto l’apertura mentale e l’attitudine filosofica e religiosa (anche Salvador era un filosofo).

Raimon frequentò il Collegio di Sant’Ignazio di Sarría dai gesuiti, diplomandosi a pieni voti e con «premio straordinario» nel 1935. Sulla sua prima formazione non ci è dato sapere di più.

Il 24 agosto 1936, per via dello scoppiare della guerra civile spagnola, la famiglia scappò su una nave inglese grazie ai contatti e alla cittadinanza britannica del padre. Da quel momento iniziò una peregrinazione tra Marsiglia, Parigi, Siegburg, che si concluse a Bonn. Nel 1937 Ramuni, con la moglie e i due fratelli più piccoli, tornò in Spagna per badare all’industria chimica di famiglia, mentre Raimon, rimasto con Mercedes a Bonn a studiare chimica, entrò a contatto col clima intellettuale tedesco e ne rimase folgorato: cominciò a interessarsi, al fianco delle scienze, di filosofia e teologia, vecchie passioni di sua madre. I suoi successivi dottorati in lettere, filosofia e teologia saranno frutto di questa folgorazione.

Stando alla biografia di Bielawski e a una «confidenza» di Milena Carrara Pavan, la notizia della chiamata sacerdotale del figlio provocò all’anziano Ramuni un grave evento cardiovascolare. Si rifiutò di presenziare alla sua prima messa, «salvo poi nascondersi dietro una colonna della chiesa».

Tra il 1954 e il 1966, a 36 anni, durante una sua missione apostolica in India, Raimon si riconciliò intimamente con la figura paterna: riscoprì il suo induismo, lo riconobbe come parte delle proprie radici, senza sentirsi infedele alla sua fede di partenza. L’intuizione advaita, maturata nel cuore di Panikkar, anche grazie alla diretta testimonianza d’amore e armonia dei genitori, gli permise di superare il doloroso dualismo, che tanta sofferenza aveva causato ad alcuni suoi compagni di strada, Jules Monchanin, Henri Le Saux, Bede Griffiths, monaci cristiani compenetrati anch’essi nella spiritualità orientale, ma con molti più rovelli.

Alla già citata Milena Carrara Pavan dobbiamo il merito d’aver curato, insieme a tutta l’Opera Omnia, anche il XII e ultimo volume, Spazio, tempo e scienza (Milano, Jaca Book, 2021, pagine 528, euro 30), in cui convergono vari contributi apparsi su libri e riviste nel primo periodo della vita di Panikkar, quando l’interesse per il tema della scienza era più vivo che mai: vi si indagano la dimensione del tempo legata alla concezione scientifica della realtà, il profondo conflitto e l’alterazione dei «ritmi di vita» provocati all’interno dell’uomo dalla civiltà tecnologica, la relazione intima tra uomo e tecnologia, «frutto dell’interesse per la terra e per la materia», la possibilità di una integrazione nel progresso e di una emancipazione vista non come rifiuto, ma come superamento da certi condizionamenti.

Nel libro c’è un passaggio che spiega molto di Raimon Panikkar e di un’esistenza spesa quasi interamente nel tentativo d’abbracciare tutto, capire tutto e «vedere il più possibile»: «La sintesi ci dà (…) il significato delle cose, e l’aspirazione umana alla sintesi altro non è che l’anelito di trovare un significato totale alla vita. (…) una filosofia non-cristiana non per questo è falsa, ma una sintesi non-cristiana è necessariamente falsa in quanto carente dei dati fondamentali per la costruzione della sintesi». Questo discorso, per Panikkar, non vale soltanto per la fede cristiana, ma per tutte le fedi, le culture, i saperi, le tradizioni. Perché la sintesi sia «totale» è necessario, come sostiene nella splendida «metafora della finestra», ascoltare la descrizione di ciò che vede il nostro vicino «dalla sua finestra», scoprire che «c’è dell’altro», che non siamo in grado di vedere l’intera realtà dal nostro davanzale, che è necessario scambiarsi i rispettivi «punti di vista» per completare il mosaico del mondo e della vita.

di Roberto Rosano

Osservatore

Riavvicinamenti

di: Roberto Oliva

riavvicinarsi

Dio si fa precario come noi: «il Verbo di Dio è diventato carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi». Sebbene Dio non ne avesse bisogno, per eccesso di amore vuole diventare simile a chi ama: cioè a noi. L’amore rende simili.

Non è voluto diventare genericamente uomo (il prologo di Giovanni  non dice antropos), ma uomo fragile (il testo originale dice sarx). Dio ha scelto, per amore, di diventare sarx, mortale e vulnerabile come ciascuno e ciascuna di noi: non per una breve comparsa ma “accampandosi” nella nostra umanità (il testo dice eschenosen en emon): mise la tenda in mezzo a noi. Nella tenda dimora chi è nomade, di passaggio non chi si radica in sontuosi e sicuri palazzi. La tenda è immagine dell’umanità che mai come in questo tempo si è riscoperta precaria, di passaggio ma preziosa ai suoi occhi.

La presenza di Dio (shekinà dell’Esodo) non è più racchiusa in un accampamento costruita da mani d’uomo, né nell’arca, né in un Tempio adornato di belle pietre bensì nelle mani con cui Gesù ha lavorato, nell’intelligenza con cui ha pensato, nella volontà con cui ha agito e nel cuore d’uomo con cui ha amato (GS 22).

Con la nascita di Gesù infatti Dio dimora stabilmente in mezzo a noi: è tra noi, è come noi, è in noi. «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro … e asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 21,3-4). Quale gioia più grande di questa? Dio supera ogni distanziamento sociale per compiere il più bel ri-avvicinamento sociale di cui abbiamo veramente tanto bisogno.

Qualcuno si chiede: e se Gesù fosse nato oggi? Per il suo grande amore verso di noi, avrebbe indossato una mascherina ma non si sarebbe sottratto al ri-avvicinamento sociale. L’amore lo spinge ad abitare non solo l’infinito del Cielo ma anche questa umanità: impaurita, disorientata e ammalata. È veramente Natale se riconosciamo che non c’è distanziamento tra noi e Dio: nessun peccato, nessuna fragilità, nessuna condizione irregolare, nessuna ferita, nessuna solitudine, nessun virus può tenere distante la tenerezza di Dio dalla nostra vita.

Prenderci cura della nostra debolezza

Ormai noi siamo la sua casa: la nostra carne diventa la sua carne, la nostra debolezza diventa la sua debolezza. E se il dolore di questi giorni ha provocato la solitudine lacerante dei nostri nonni e nonne morti senza l’ultima carezza dei loro cari, il ri-avvicinamento sociale di Dio ci metta nel cuore la nostalgia della fragilità altrui. La pandemia ci ha fatto riscoprire – togliendocela – la ricchezza delle relazioni affidandoci alla terribile povertà della solitudine.

La tenerezza del neonato Gesù ci offre la possibilità di cambiare rotta: superare le brutture del passato e aprirci fiduciosi al futuro. Se la pandemia ci ha tolto tanto: agende, relazioni, programmi, calcoli, soldi, affari ecc. non ci ha sottratto però la preziosità della nostra vulnerabilità, grazie alla quale è ancora possibile amare ed essere amati.

Vogliamo prenderci cura della nostra debolezza, senza vergogna! Vogliamo lasciarci scomodare dalle nostre vulnerabilità senza rimuoverle. Questo Natale che passerà alla storia ci sta paradossalmente affidando l’opportunità di recuperare la vulnerabilità e la debolezza che fu anche del neonato di Betlemme, l’opportunità di diventare inermi ma teneri come Dio, dal quale impariamo la più grande lezione: non c’è virus che blocca l’amore, se non la presunzione di sentirci forti e capaci di tutti.

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