Adulterio: “Requiem” per un peccato?

di: Basilio Petrà Settimana News
adulterio

Domanda strana, quella posta nel titolo. Tuttavia, può aprire alla riflessione un sentiero forse interessante. Proviamo a percorrerne il sentiero.

Si può cominciare osservando che se, dicendo peccato, pensiamo all’atto peccaminoso in quanto posto da un soggetto, certamente si può – anzi si deve – cantare il “Requiem” per esso: attraverso il pentimento e il perdono il peccato infatti in qualche modo muore, si estingue.

Se, invece, dicendo peccato, pensiamo ad un atto peccaminoso in quanto tale, ad es. un furto, una menzogna, un adulterio determinati ecc. allora forse la cosa non sta così. Può davvero un determinato adulterio non essere più un peccato di adulterio?

Realtà giuridica e realtà esistenziale
La prima e immediata risposta che viene alle labbra è chiara: un adulterio rimane sempre un peccato di adulterio.[1]

Tuttavia, supponiamo che si potesse dimostrare che un elemento costitutivo di ogni atto di adulterio (ad es. il fatto che almeno uno della coppia è infedele al suo proprio vincolo matrimoniale) non si dia più formalmente in un atto determinato, allora non sarebbe irragionevole cambiare anche la sua comprensione ovvero si potrebbe ben dire che esso non è più un adulterio.

Ad es. se Antonio ha un rapporto sessuale con Genoveffa che è giuridicamente sposata con Giuseppe ma da anni non vive più con Giuseppe, ha costruito anzi un rapporto di piena condivisione vitale (convivenza stabile di forma coniugale e magari civilmente riconosciuta) con Antonio, allora qualcuno potrebbe sostenere con buone ragioni che non si può più dire che il rapporto tra Antonio e Genoveffa costituisca adulterio. In effetti, Giuseppe e Genoveffa risultano sposati giuridicamente (canonicamente) ma senza che tale indicazione corrisponda alla realtà del vissuto delle persone, giacché o ambedue o almeno uno dei due non solo considerano terminato il proprio legame nuziale (quello canonicamente definito) ma hanno costituito un nuovo legame nuziale, talvolta giuridicamente (civilmente) riconosciuto.

È ragionevole affermare infatti che non si può dare adulterio ovvero violazione di un vincolo nel caso che i soggetti non ritengano più vigente per loro tale vincolo, essendosi esaurito sul piano della relazione reale il loro vincolo nuziale.

Ricordo l’imbarazzo di alcuni moralisti quando furono posti dinanzi a una domanda di questo tipo: «Alberto, sposatosi con Maria nel 1978, si separa e divorzia da lei nel 1985 e si risposa civilmente con Antonietta. Nel 1988 nel corso di una settimana di studi incontra di nuovo Maria e passano la notte insieme. Commette adulterio o no?».

Nella logica che assolutizza la determinazione canonica non lo commettono: ma nella logica della concreta realtà esistenziale commettono adulterio. Agli occhi di molti lo commettono perché la realtà concreta prevale nella valutazione sulla realtà astrattamente considerata, e non sembra uno sguardo ingiusto.

Bisogna dire – e dirlo chiaramente – che la pastorale si è ampiamente accorta di questa necessaria distinzione da fare tra realtà giuridica e realtà esistenziale.

La Chiesa infatti nella sua pastoralità ad un certo punto[2] ha preso atto che per una situazione quale quella di Antonio e Genoveffa non poteva più usare il termine adulterio, perché così facendo non avrebbe guardato alla realtà esistenziale in atto della vita delle persone ma ad una forma della loro vita ormai consegnata al passato e non più corrispondente alla realtà presente.

La pastorale sa bene infatti che ogni forma di coniugio è prima di tutto un reale evento esistenziale, certamente assunto e potenziato nella forma giuridico/sacramentale ma non creato esistenzialmente da quest’ultima.

Per questo tra l’altro permane sempre un dualismo strutturale tra realtà esistenziale e realtà canonica anche all’interno del coniugio. Il permanere strutturale di questo dualismo legittima tra l’altro la celebre affermazione di Giovanni Paolo II (Udienza generale, 1 ottobre 1980) che può darsi adulterio del cuore (dunque un vero peccato di adulterio) anche tra legittimi sposi: «L’adulterio “nel cuore” viene commesso non soltanto perché l’uomo “guarda” in tal modo la donna che non è sua moglie, ma appunto perché guarda così una donna. Anche se guardasse in questo modo la donna che è sua moglie, commetterebbe lo stesso adulterio “nel cuore”».[3]

Alla luce di quanto abbiamo appena detto per l’adulterio, si può senza arbitrio affermare che, nel caso cambiasse radicalmente la valutazione di un elemento definitorio di un qualsiasi peccato, si potrebbe suonare il “Requiem” per quel peccato nel caso il cambiamento venisse acquisito/riconosciuto come reale e ovviamente nella misura di tale riconoscimento.

Ebbene, forse un cambiamento valutativo di questo tipo si sta delineando anche in rapporto al peccato di fornicazione (latino: fornicatio; greco: porneia). Vediamo.

E per quanto riguarda la fornicazione?
Si può cantare il “Requiem” per la “fornicazione” così come sulle orme dell’apostolo Paolo essa è descritta dai manuali di teologia morale e dal Catechismo della Chiesa cattolica?

Il CCC. 2353 così descrive il contenuto del termine fornicatio: «unio est carnalis extra matrimonium inter virum et mulierem liberos. Ea est personarum dignitati graviter contraria atque sexualitati humanae ad bonum coniugum et ad filiorum generationem et educationem naturaliter ordinatae. Est praeterea grave scandalum, cum iuvenum habetur corruptio».[4]

Si noti bene la struttura teorica di questo numero del Catechismo. L’illiceità intrinseca della fornicazione è determinata dal fatto che l’unione sessuale è posta tra persone che non sono legittimamente sposate, pur potendo esse sposarsi liberamente (a questo si allude dicendo “libero”).

Tale illiceità intrinseca è determinata dal fatto che l’unione sessuale è giustamente e degnamente posta quando è rispettata una precisa condizione: l’ordinamento della sessualità al bene dei coniugi e alla generazione/educazione dei figli, ovvero quando l’atto avviene tra coniugi legittimi aperti alla vita.

Questo numero è solo l’ultima formulazione storica della regola pratica pastoralmente decisa dall’apostolo Paolo nel caso della comunità cristiana di Corinto (si veda 1Cor 7). Paolo infatti riconosce moralmente ordinata l’unione sessuale solo se è posta all’interno del legittimo matrimonio (gamos – come lo chiama Paolo – ovvero il matrimonio che la comunità può ritenere legittimo),[5] altrimenti è una porneia (fornicazione).

Per secoli, da tale regola è stata generata la struttura normativa fondamentale dell’etica sessuale cattolica ovvero l’affermazione che ogni unione sessuale tra due persone libere posta al di fuori della condizione del gamos è fornicazione o porneia.

Tuttavia, proprio questa indicazione paolina sul modo ordinato di vivere la sessualità ha subìto una maturazione di grande rilievo negli ultimi secoli della storia della Chiesa, tanto a livello canonico quanto a livello teologico-pastorale. Per meglio presentare tale maturazione, cito qui almeno una pagina del mio libro succitato:

«I punti sui quali ci siamo fermati indicano che, dalla fine del secolo XIX, nell’autocoscienza della Chiesa è cresciuta sempre più la consapevolezza che anche la comunicazione sessuale intramatrimoniale deve essere moralmente esercitata ovvero esercitata in coerenza con il movimento della forma coniugale dell’amore. In questa luce, l’ingresso nello spazio del gamos non sembra costituire più l’ingresso semplice nell’area della liceità morale giacché tale liceità ha un suo valore intrinseco capace di sospendere il diritto (la vicenda dello ius in corpus è esemplare). La liceità giuridica potrebbe nascondere una comunicazione sessuale ed affettiva falsa e menzognera, cioè moralmente illegittima, oppure semplicemente non corrispondente all’amoris coniugalis modus.

È dunque cresciuta la consapevolezza ecclesiale che la legittimità morale della comunicazione sessuale è data dalla contestualità valoriale del rapporto tra le persone e non semplicemente/necessariamente dalla forma giuridica, anche se può essere sostenuto con verità che la forma giuridica nasce spontaneamente dal contesto valoriale coniugale e ne determina una peculiare, concreta e rilevante configurazione storico/sociale.

Per riprendere l’inizio, potremmo dire che la distinzione paolina (porneia/gamos) nel contesto di consapevolezza antropologica e morale contemporanea appare inadeguata per descrivere i confini della legittimità morale nell’esercizio della sessualità.

Il confine non segue la frontiera che separa l’area matrimoniale e l’area extramatrimoniale giacché da più segni emerge ora la consapevolezza che l’esercizio intramatrimoniale della sessualità non garantisce la qualità morale di tale esercizio se esso non è una forma del verus coniugalis amor né l’esercizio extramatrimoniale della sessualità è costituito a priori come esercizio moralmente illegittimo della sessualità.

Ciò può essere detto in tale modo: ogni qualvolta la comunicazione sessuale è forma veramente espressiva della reciproca e intenzionale donazione d’amore di tipo coniugale (responsabile condivisione dell’esistenza secondo la delineazione dell’amore coniugale qualitativamente descritto da Gaudium et spes e Humanae vitae) potrebbe essere considerata moralmente legittima, purché non ferisca attuali responsabilità di giustizia e di verità nei confronti di terze persone; certo, tale legittimità diventerebbe ancor più piena e significativa – anche moralmente – quando tale amore assumesse forma istituzionale (sacramentale) nel matrimonio».[6]

Due dialoghi emblematici
Detto in altro modo, nel secolo XX è emerso sempre più chiaramente il fatto che la legittimità morale dell’unione sessuale non è semplicemente subordinata a quella giuridica ma ha una sua propria, originaria e preistituzionale consistenza di verità, quando l’unione sessuale esprime e articola nel linguaggio del corpo la coesistenza reale dei due amanti ovvero il patto de facto che li unisce nell’esistenza.

Ciò non potrebbe dirsi naturalmente nel caso dell’incontro episodico od occasionale, determinato da bisogni fisici o edonistici o psicologici o altro, un incontro al quale non corrispondesse la comunione esistenziale sopra descritta… Né in linea di principio si potrebbe dire questo della relazione strutturalmente clandestina che non lasciasse trasparire nella concreta esistenza dei due la programmatica unità vitale e intenzionale dei due.

La consapevolezza di questa legittimità morale preistituzionale (precedente alla configurazione giuridica istituzionale) appare concretamente molto diffusa nella sensibilità morale odierna, non solo tra i non cristiani ma anche tra i cristiani, non solo tra molti non cattolici ma anche tra molti cattolici.

È comunemente percepita, infatti, la distinzione qualitativa tra relazioni forti (di unità esistenziale) e relazioni deboli e in connessione con tale percezione appare diversamente compreso anche il valore morale dell’unione sessuale.

Per dare una qualche prova di questo, annoto soltanto due passaggi tratti da due libri da poco pubblicati e largamente conosciuti, data la notorietà degli autori. Sono due passi che mi sembrano particolarmente significativi dal punto di vista delle nostre considerazioni.

Il primo lo traggo da un recente libro di Gianrico Carofiglio.[7] Si tratta di un colloquio tra la protagonista del volume, Penelope Spada, e Alessandro, un uomo conosciuto nei giardini dove Penelope si allenava:

– Dove abiti ? – chiesi.
– Qui vicino. Un appartamento davvero piccolo. Mi ci sono trasferito dopo la separazione. Non ti ho chiesto se sei sposata, convivente, fidanzata.
– Non sposata, non convivente, non fidanzata, – risposi, provando uno stupido senso di contentezza per l’informazione che avevo appena avuto in quel modo casuale. Mi sentii audace.
– Da quanto sei separato?
– Quasi tre anni, ormai. Non sono pochi, ma a me sembra un tempo ancora più lungo. Forse perché sono successe varie cose non belle, a parte la separazione.[….]
– Dunque eri sposato?
– In realtà no. Abbiamo convissuto per cinque anni, l’idea era di sposarci quando avessimo deciso di fare un figlio. Tu da quanto non hai un fidanzato?
– Da molto tempo, se parliamo di un fidanzato vero.

La domanda di Alessandro è interessante: indica tre possibilità diverse, tutte però caratterizzate da un legame forte ovvero indicative di un impegno relazionale che configura un legame esistenziale intenzionale. Il contesto infatti non è quello della semplice proposta sessuale o della relazione occasionale sessualmente centrata: è chiaramente segnato dall’interesse per un legame forte, anche se di intensità diversa.

Un’analoga distinzione tra legame forte e legame debole, con riferimento particolare al fidanzamento, la troviamo in un altro testo letterario. Mi riferisco ad un volume scritto da Donato Carrisi[8] nel quale troviamo un breve dialogo tra il protagonista Pietro Gerber e la sua ex moglie Silvia, un dialogo che suona così:

«E poi, se permetti, mi sono rifatta una vita». Silvia si riprese con prepotenza la sua attenzione.
La precisazione stavolta lo infastidì, era del tutto gratuita. «Non ho mai detto nulla sul conto del tuo nuovo compagno» ribatté.
«Non è un semplice compagno» puntualizzò lei, stizzita. «È il mio fidanzato».
Poi sparì di nuovo e Gerber pregò che cadesse presto la linea per poter spegnere il cellulare».[9]

L’autenticità etica della relazione
Il passaggio dal vissuto della sessualità «giuridicamente ordinato» a quello «eticamente ordinato».

Prendendo atto del passaggio surricordato ovvero del fatto «che la legittimità morale dell’unione sessuale non è semplicemente subordinata a quella giuridica ma ha una sua propria, originaria e preistituzionale consistenza di verità, che si dà quando l’unione sessuale esprime e articola nel linguaggio del corpo la coesistenza reale dei due amanti ovvero il patto de facto che li unisce nell’esistenza», diventa possibile affermare che la regola pastorale (il gamein) posta da Paolo per dare ordine alla vita sessuale dei fedeli che bruciano e non sono chiamati a vivere nella forma escatologica può essere adeguatamente sostituita da una regola pastorale che richieda l’autenticità etica della relazione di coppia sul piano esistenziale e preistituzionale (anche se non anti/istituzionale) ovvero la condivisione dell’esistenza aperta al futuro (alla vita) intenzionalmente ed esplicitamente assunta dalla coppia, una sorta di patto esistenziale de facto.[10]

Ciò significherebbe affermare la liceità morale dell’unione sessuale indipendentemente dalla celebrazione del matrimonio, anche se l’unione sessuale vissuta nel matrimonio potrebbe certamente realizzare una pienezza maggiore di senso e un maggior compimento esistenziale.[11] Il presupposto infatti di questa indicazione pastorale è che l’unione sessuale è l’espressione nel linguaggio del corpo della totale donazione reciproca d’amore dei due nella storia. Per i cristiani il luogo più pienamente espressivo di tale donazione d’amore è certamente l’inveramento sacramentale di essa, ma tanto per i cristiani quanto per i non cristiani la verità esistenziale di essa può darsi anche prima (o indipendentemente) della celebrazione “gamica”.

Alcune conseguenze di tale passaggio
A – Questo cambiamento nella regola pastorale, sottraendo la legittimità morale dell’unione sessuale all’egemonia giuridico/sacramentale, offrirebbe anche la possibilità di sottrarsi ad un’affermazione (spesso dimenticata, peraltro) che riguarda la grande maggioranza dei coniugi cristiani e che determina conseguenze piuttosto discutibili.

Nell’attuale situazione dottrinale, infatti, l’unione sessuale dei cristiani è legittima non solo quando è giuridicamente collocata ma anche quando è sacramentalmente collocata, dal momento che patto matrimoniale tra battezzati e sacramentalità coincidono e dal momento inoltre che, negli ultimi decenni, sempre più la sacramentalità è stata concepita non solo in rapporto al matrimonio in fieri (momento del consenso) ma anche in rapporto al matrimonio in fatto esse (la vita coniugale). Ciò significa, ad esempio, che un rapporto sessuale tra persone non in stato di grazia (per usare questo linguaggio) sarebbe moralmente riprovevole.

Si veda quanto scriveva il 12 febbraio del 1997 il Pontificio consiglio per la famiglia nel Vademecum per i confessori su alcuni temi di morale attinenti alla vita coniugale al punto 1.5 della parte dedicata al Vademecum per i confessori: «Gli sposi attuano la piena donazione di sé nella vita matrimoniale e nella unione coniugale, che, per i cristiani, è vivificata dalla grazia del sacramento. La loro specifica unione e la trasmissione della vita sono impegni propri della loro santità matrimoniale».

Ricollocando adeguatamente il rapporto tra legittimità morale dell’esercizio della sessualità, spazio giuridico e configurazione sacramentale, la conseguenza surricordata non potrebbe darsi perché l’esercizio della sessualità non sarebbe reso lecito dall’unità giuridico-sacramentale del matrimonio ma dall’originaria significatività dell’unione sessuale stessa in rapporto alla comunione esistenziale della coppia.

B – La regola pastorale eticamente ordinata chiederebbe ai cristiani di porsi senza finzioni dinanzi al proprio vissuto e misurarsi veracemente su di esso, senza alibi di alcun tipo. Chiederebbe l’onestà del cuore e della mente.

Là dove la regola pastorale fosse solo quella determinata dalla presenza giuridica dell’istituzione, ogni relazione pre o extra istituzionale avrebbe la stessa sostanziale negatività, senza nessuna richiesta ulteriore di onestà. Ogni rapporto sarebbe moralmente equivalente nella sua legale negatività, allargando il fossato tra il reale vissuto delle persone (che distingue le modalità di comunicazione sessuale) e l’indicazione morale (qui piuttosto etico-legale) della Chiesa.

[1] Si ricordi la definizione di adulterio offerta dal CCC, 2380: «Hoc verbum infidelitatem designat coniugalem. Cum duo, quorum saltem alter est matrimonio coniunctus, relationem sexualem, etiam fugacem,nectunt inter se, adulterium committunt» (= Questa parola designa l’infedeltà coniugale. Quando due persone, di cui almeno una è sposata, intrecciano tra loro una relazione sessuale, anche episodica, commettono un adulterio).

[2] Si veda quel che scrivo nel mio: Una futura morale sessuale cattolica. In/fedeltà all’apostolo Paolo, Cittadella Editrice, Assisi 2021, 27-32.

[3] Giovanni Paolo II, Udienza generale 8 ottobre 1980.

[4] «La fornicazione è l’unione carnale tra un uomo e una donna liberi, al di fuori del matrimonio. Essa è gravemente contraria alla dignità delle persone e della sessualità umana naturalmente ordinata sia al bene degli sposi, sia alla generazione e all’educazione dei figli. Inoltre è un grave scandalo quando vi sia corruzione dei giovani».

[5] Ibidem, pp. 9-32. Queste pagine costituiscono la Parte prima del libro.

[6] Ibidem, pp. 30-32.

[7] Giacomo Carofiglio, Rancore, Giulio Einaudi editore, Torino 2022, 191-192.

[8] Donato Carrisi, La casa senza ricordi, Longanesi, Milano 2021.

[9] Ibidem, 91-92.

[10] Paolo è condotto nella sua indicazione dal principio di realtà che lo guida; la proposta qui avanzata è guidata dallo stesso principio di realtà nella condizione attuale di esistenza. Su tutto ciò si veda Ibidem, 33ss, 83-90.

[11] Si ricordi che questo compimento è in ogni caso una possibilità non un prodotto automatico della celebrazione giuridica e/o giuridico/sacramentale.

Trasformazione digitale: comprensione, non ribellione

L’uomo, dunque, non deve dimenticare che «la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo col proprio lavoro … si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio».

Egli non deve «disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria forma e una destinazione anteriore datale da Dio, che l’uomo può, sì, sviluppare, ma non deve tradire». Quando si comporta in questo modo, «invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell’opera della creazione, l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui».

Così recita il n. 460 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa. Vi sono molte avvisaglie che la natura si stia ribellando alla trasformazione tecnica e in particolare alla rivoluzione digitale compiuta dall’essere umano. L’elemento curioso è che a ribellarsi non è la natura intesa come creato – animali, piante, ecosistema nel suo complesso –, ma la natura umana, l’essere umano stesso. Può sembrare contraddittorio, e in effetti le modalità in cui questo sta avvenendo sono del tutto contraddittorie, ma avviene. Complice la pandemia, che ha accelerato processi e messo sotto severo stress l’intero sistema di correlazioni tra esseri umani e macchine, siamo verosimilmente giunti a un punto di rottura.

Per comprenderlo dobbiamo fare un passo indietro però. Il sistema tecnico di cui la rivoluzione digitale è figlia primogenita, nato con la rivoluzione industriale, ha alcune caratteristiche precise, una in particolare per quanto di nostro interesse in queste considerazioni: si autoalimenta e giustifica.

La tecnologia e la cultura tecnica hanno sempre detto bene di sé stesse, hanno veicolato un’accettazione acritica di qualunque risultato si ottenesse, e anche i fallimenti sono stati sempre gestiti e raccontati come utili per il raggiungimento del risultato finale.

Ne è derivata una concezione formale della tecnica e della scienza come nuove vestali di ogni forma di verità e di bene. Vestali piuttosto gelose come sappiamo, tanto da soppiantare a mano a mano ogni altra forma di fondazione autoritativa quale la religione, la morale, persino la democrazia. La politica è stata sostituita dall’amministrazione e ogni decisione sembra migliore se avallata da un comitato scientifico e tecnico. 

La pandemia, come sappiamo, ha messo a nudo tutte le lacune di tale impianto. Prima di tutte la lacuna epistemologica di fondo: la scienza e la tecnica non possono essere considerate al di sopra di sé stesse, non possono che obbedire a un sano principio di falsificazione e di raffronto con la verità delle cose per essere scienza e tecnica, per rispondere al loro sistema epistemologico di riferimento.

Se il sistema tecnico funziona esteriormente, cioè funzionalmente, esso non si può reggere senza un sottostante sistema valoriale e di senso che lo avalli e culturalmente lo giustifichi. La verità rende liberi, la performance tecnologica affascina, ma alla lunga si rivela per quello che è.

La rivolta al green pass è stato uno dei primi segnali forti in questo senso. Non basta la tecnica a convincere della bontà di una decisione. Per trasformare davvero è necessario educare, convincere, veicolare senso e socializzarlo. La tecnica non lo ha fatto per molto tempo e non può pensare di poter continuare a farlo senza subire delle conseguenze. Per quanto possa essere decisivo e utile il suo apporto deve fare i conti con l’animo umano e la scintilla divina che lo abita, che alla lunga svela i falsi idoli.  

Dobbiamo però notare che tale «ribellione» non è guidata, sorprendentemente, dai giovani. Forse complici alcune paure e difficoltà di base, sono le generazioni non digitali a sentire fastidio oggi per la tecnologia e la sua pervasività, per la cultura tecnica e le sue pretese. Per i giovani, per quanto valore possa avere un’affermazione di massima, lo status quo non è problematico benché sia perennemente fluido.

Non abbiamo qui lo spazio per ulteriormente approfondire il tema, ma è importante segnalarlo per risvegliare la coscienza un po’ sopita delle generazioni adulte rispetto a una loro ulteriore responsabilità nei confronti del futuro, responsabilità da assumere ora. 

Esiste dunque un’adultità da prendere in mano rispetto alla trasformazione tecnologica e alla contigua e seguente trasformazione sociale. Non se ne occuperanno i giovani. Manca loro una visione prospettica dovuta, semplicemente, a questioni anagrafiche, alla mancanza di un passato analogico che possa essere di raffronto e di confronto. Non possiamo demandare a loro tali questioni in nome della loro – presunta – maggiore sensibilità o accortezza. E in nome di una nostra nascosta fatica a riprendere in mano la conoscenza in un necessario e dovuto aggiornamento. 

Non è dunque la ribellione la strada, ma la comprensione, la presa di coscienza piuttosto della presa d’atto. Il dialogo con le generazioni più giovani, non per delegare ma per assumersi insieme la responsabilità del presente. Di essere figli di Dio e padri di quei figli oggi un po’ orfani di futuro e in cerca di paternità e maternità affidabili. 

 

di Luca Peyron, presbitero della diocesi di Torino, docente di Teologia all’Università cattolica di Milano e di Spiritualità delle tecnologie emergenti all’Università degli studi di Torino. Ha scritto Incarnazione digitale (Elledici 2019).

Uno degli aspetti più importanti dell’ecclesiologia del concilio Vaticano II è il riconoscimento dell’identità carismatica di tutti i cristiani

di: Massimo Nardello

Uno degli aspetti più importanti dell’ecclesiologia del concilio Vaticano II è il riconoscimento dell’identità carismatica di tutti i cristiani, cioè il fatto che nel battesimo ciascuno di loro ha ricevuto dallo Spirito dei carismi che consentono di servire la propria comunità e la crescita del regno di Dio nel mondo. Insomma, ogni credente è chiamato a vivere per la propria parte la missione della Chiesa non in forza di una delega dei pastori, ma nel nome dello Spirito del Signore.

carismi

Discernere i carismi

Il compito di chi presiede una comunità è quello di discernere i carismi dei suoi membri e di verificare che questi carismi vengano vissuti secondo la volontà di Dio, cioè in modo evangelico e con uno stile comunionale. Si tratta però di un compito che ha a che fare più con la supervisione e l’accompagnamento che con la delega di mansioni che si potrebbero comunque svolgere da soli.

In effetti, anche qualora il pastore fosse in grado di portare a termine autonomamente tutti i servizi necessari per la vita della sua comunità, se decidesse di procedere in tal senso ignorando i carismi degli altri credenti, porrebbe resistenza all’azione dello Spirito, dal momento che egli ha voluto donare quei carismi perché fossero valorizzati per la missione ecclesiale.

A volte, però, nel cuore di un pastore o di chi svolge una qualche forma di leadership nelle comunità cristiane può insinuarsi la convinzione che per poter svolgere il proprio compito di guida sia necessario essere i migliori in campo, almeno per quegli aspetti che toccano l’attività pastorale, e che quindi i carismi degli altri debbano essere inferiori ai propri. In caso contrario, non si comanda più.

In questo modo, anziché essere dei supervisori che aiutano ciascuno a vivere al meglio la propria identità cristiana, si assume un atteggiamento di competizione e di superiorità nei confronti degli altri credenti.

Il segnale che ci si sta collocando in questa prospettiva molto pericolosa è la tendenza a minimizzare le qualità spirituali e pastorali delle persone della propria comunità, oppure, quando sono troppo evidenti per poter essere svalutate, il provare un forte senso di invidia, come se quelle qualità mettessero in discussione la propria leadership.

Se poi un pastore tende ad essere perfezionista e ad evitare la sensazione dell’inferiorità davanti agli altri, questa deriva diventa più che ipotetica. In questo modo, però, anziché valorizzare i carismi dei credenti, li si tratta come dei bambini, e si impedisce loro di esprimere al meglio le loro potenzialità evangeliche.

Una ricchezza a vantaggio di tutti

Proprio a riguardo di questa invidia, così scrive Gregorio Magno: «Quanto grande è l’infelicità di coloro che diventano peggiori perché vedono migliorare gli altri e, mentre guardano aumentare la fortuna altrui, stretti dall’afflizione in se stessi, muoiono per la peste che hanno nel loro cuore. Che cosa ci può essere di più infelice di costoro che la pena per la constatazione della felicità altrui rende più cattivi? Invero, se amassero i beni degli altri che non possono avere per sé, li farebbero propri. Poiché essi sono tutti stabiliti nella fede, come molte membra in un solo corpo, le quali sono certo diverse per la diversità delle funzioni, ma per il fatto stesso della loro corrispondenza reciproca diventano una cosa sola (cf. 1Cor 12,12-30). […] È certamente nostro ciò che amiamo negli altri anche se non possiamo imitarlo; e ciò che è amato in noi diviene di chi l’ama. Perciò gli invidiosi misurino quanto è grande la potenza della carità che rende nostre senza fatica le opere della fatica altrui.» (Regola pastorale, III, 10).

È interessante osservare che, per Gregorio, la strada per superare questa invidia non è l’umile riconoscimento dei propri limiti, cioè l’accettazione serena del fatto che gli altri possano essere migliori di noi. Piuttosto il nostro autore ci insegna a vedere i carismi delle altre persone – quei beni che li caratterizzano nel corpo ecclesiale a cui fa riferimento la citata 1Cor – come una nostra ricchezza, per il fatto che tutti viviamo in Cristo e dunque i doni di ciascuno vanno a vantaggio di tutti.

La cosa non ci deve stupire. Ciò che lo Spirito Santo ha realizzato nella persona di Gesù, risuscitandolo dalla morte, raggiunge anche noi e ci divinizza proprio perché apparteniamo al corpo di Cristo che è la Chiesa.

In modo analogo, anche i carismi che lo Spirito ha donato agli altri membri dello stesso corpo ecclesiale vanno pure a nostro vantaggio. Così, ad esempio, la particolare intelligenza delle cose spirituali che lo Spirito ha donato a qualcuno va a beneficio di tutti coloro che sono disposti ad ascoltarlo o a leggere le sue opere. Studiare teologia, in fondo, è un modo per arricchirsi continuamente della sapienza che lo Spirito ha donato ad altri credenti.

Amare i doni degli altri

Gregorio però sottolinea che è indispensabile amare i doni degli altri per poterne beneficiare. In effetti, se ci si lascia prendere dall’invidia e si vedono quei doni come svantaggiosi per la propria persona, non si permette loro di arricchire la propria vita. Si penserà soltanto a minimizzarli, a svilirli, a considerarli irrilevanti.

Si possono amare, poi, solo quei doni che esistono davvero. In effetti, vi sono credenti che pensano di aver ricevuto dei carismi che in realtà lo Spirito non ha mai dato loro, e si sentono chiamati a raggiungere dei ruoli per cui non sono minimamente adatti. I carismi si accolgono da Dio, non si possono inventare per raggiungere ruoli che si sentono come prestigiosi o grandiosi.

Poiché il compito di discernimento sulla genuinità dei carismi spetta ai pastori, è evidente come sia importante che chi deve svolgere questo servizio abbia alle spalle una lunga esperienza di apprezzamento dei doni degli altri. Solo chi è già riuscito a tenere sotto controllo la dinamica dell’invidia e la paura dell’inferiorità potrà valutare con sufficiente libertà l’autenticità dei carismi dei propri fratelli e sorelle nella fede, e aiutarli a vivere questi loro doni in pienezza.

settimananews.it

Cent’anni di Ernesto Balducci, il prete che in nome della pace decise di rompere con la Dc quando sul Vietnam si schierò con gli Usa

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Sacerdote pacifista, sostenitore del disarmo, amico e collaboratore di La Pira, esiliato dalla Chiesa cattolica, in un’intervista disse: “Io sono stato fedele, più che alle istituzioni, alle coscienze che sono cresciute attorno a me”. Firenze lo ricorda con una serie di incontri. Tra gli ospiti Walter Veltroni, il teologo Vito Mancuso, il fondatore di Bose Enzo Bianchi e la storica Anna Foa

di Carlo Giorni | 8 APRILE 2022 in Il Fatto

Ai suoi amici più cari padre Ernesto Balducci amava confessare, lui che da buon maremmano aveva modi timidi e spicci, che la sua rottura con la Dc avvenne ai tempi della guerra in Vietnam, anni Sessanta. “Era una questione morale schierarsi dalla parte dei vietcong contro l’aggressione americana. Sulla pace e sui diritti non si può transigere e invece il partito cattolico si era schierato dalla parte degli Usa e della Nato. Inaccettabile per me”. La battaglia per la pace, il disarmo e i diritti è stato il filo rosso che ha intrecciato la vita di Ernesto Balducci, nato cent’anni fa, il 6 agosto, a Santa Fiora, un borgo in provincia di Grosseto, e morto, in un incidente stradale, il 25 aprile del 1992. “Io sono stato fedele, più che alle istituzioni, alle coscienze che sono cresciute attorno a me”, disse in un’intervista a Tomas Angeli per Rai Tre, poco tempo prima di morire. Una sorta di testamento spirituale.

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Promossa dalla fondazione “Ernesto Balducci” e dalla rivista Testimonianze si terrà, il 9 aprile a Palazzo Vecchio, a Firenze, l’inaugurazione degli eventi per il centenario del sacerdote pacifista alla presenza, tra gli altri, dei cardinali Paolo Lojudice e Giuseppe Betori, di Walter Veltroni e del teologo Vito Mancuso mentre nel pomeriggio si terrà una tavola rotonda su “Culture e religioni di fronte alla sfida dell’età planetaria” con Enzo Bianchi, fondatore della comunità di Bose, la storica Anna Foa e la sociologa e scrittrice Sumaya Abdel Qader, con letture di Paolo Hendel.

Figlio di una Maremma povera e aspra, come quella raccontata dallo scrittore Luciano Bianciardi, Balducci ha avuto il suo primo maestro in Manfredi, il fabbro ferraio di Santa Fiora, anarchico e anticlericale, che quando Ernesto, a dodici anni, decide di entrare in seminario nei padri scolopi, si raccomandò: “Bada ragazzo, non ti fare rovinare dai preti”. Trent’anni dopo, nell’estate 1964, dopo la condanna subita per aver difeso l’obiezione di coscienza e gli obiettori al servizio militare, tornato a Santa Fiora a pregare sulla tomba del babbo Luigi, un minatore, ad un certo punto Balducci incontrò il vecchio Manfredi che lo abbracciò dicendogli: “Bravo Ernesto, non ci sono riusciti”.

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Aneddoto che racconta l’attaccamento di padre Balducci alle sue radici maremmane, a quel mondo popolare di minatori, dal quale non si è mai staccato, e la sua collocazione laica e non clericale nella Chiesa, alla quale rimase comunque fedele, tenendo contatti amichevoli con molti vescovi e cardinali, a cominciare da papa Paolo VI. Laicità che Balducci riassume nell’Uomo planetario, uscito nel 1985, con una frase suggestiva, che ha avuto molta fortuna: “Chi ancora si professa ateo, o marxista, o laico e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi. Io non sono che un uomo”. Balducci chiude qui il cerchio della sua vita (non a caso nel 1986 esce Il cerchio che si chiude, libro intervista di Luciano Martini al prete scolopio). La consapevolezza di non essere che un uomo si ricollega per certi versi alla frase che il “maestro” Manfredi aveva appesa al gabinetto della sua officina: “Saranno grandi i papi, saran potenti i re, ma quando qui si seggono, sono tutti come me”.

Dopo aver attraversato nella sua vita diversi tempi, dagli anni in cui fu stretto collaboratore di Giorgio La Pira a quelli dell’esilio (nel 1959 fu mandato per punizione a Frascati) e del Concilio Vaticano II, fino alla rottura con la Dc e con la Chiesa ufficiale per ricercare, nella diaspora, un comune sentire con gli ultimi, i poveri. Non da cristiano o da comunista, ma semplicemente da uomo tra gli uomini. Come a suo modo gli aveva insegnato il fabbro Manfredi.

Il principio Gesù

Si intitola Il principio Gesù. Nuove prospettive dai colloqui con Wilhelm Klein (Cittadella Editrice, 2021), il volume con cui Giuseppe Trentin (professore emerito di teologia morale presso la Facoltà teologica del Triveneto) riprende il filo di alcune riflessioni sulla figura e il pensiero filosofico, teologico e spirituale di Wilhelm Klein sj (1889-1996), già avviate in una precedente pubblicazione (Il principio Maria. Nuove prospettive dai manoscritti di Wilhelm Klein, Cittadella Editrice, 2019).
Lo studio cristallizza e prosegue idealmente il dialogo iniziato nell’autunno del 1967 in Germania, a Bonn – dove il giovane studente italiano si recò su consiglio di Bernard Häring, che lo aveva presentato per il dottorato al suo amico Franz Böckle – e coltivato per trent’anni nelle conversazioni estive che i due teologi si concedevano durante il passeggio pomeridiano lungo la riva del Reno e nel parco antistante l’Università. Le pagine oggi pubblicate restituiscono in forma di dialogo una serie di annotazioni che sono frutto, in parte, di un corso di esercizi spirituali ignaziani, svolto nell’estate del 1970 con l’accompagnamento di Klein e, in parte, di una serie di colloqui avvenuti in tempi e circostanze successive.
L’opera, inoltre, riprende e rielabora due articoli pubblicati nella rivista della Facoltà teologica del Triveneto Studia patavina (nel 2007 e 2009) con l’intento di avviare una prima riflessione e interpretazione del pensiero teologico-spirituale di Klein e di stimolare una ricerca più approfondita e articolata a partire dai suoi manoscritti e colloqui, oggi riportati nel sito dell’Università di Friburgo (qui).

– Professor Giuseppe Trentin, che cosa emerge qui di nuovo rispetto al precedente volume da lei pubblicato?

Il primo volume si sofferma prevalentemente sulla figura di Maria, simbolo della creazione nella quale s’incarna e prende forma il Creatore; il secondo, invece, si concentra prevalentemente sulla figura di Gesù di Nazareth, che Wilhelm Klein interpreta e definisce un po’ sorprendentemente “Dio in Maria”, il “Creatore nella creazione”.

– Sono due espressioni alquanto inconsuete in ambito teologico…

Klein se ne serviva per esprimere una verità che gli stava particolarmente a cuore e nella quale egli intravvedeva la trama di tutta la narrazione biblica: creazione, incarnazione e redenzione, “Alles dasselbe”, tutto la stessa cosa, come egli amava ripetere. Affermazione, questa, che potrebbe sorprendere chi è abituato a interpretarle nella loro successione logica, cronologica, in riferimento al tempo, alla storia. E, in effetti, non a caso è sempre stata un punto cruciale di confronto, in parte anche di divergenza, tra lui, filosofo di formazione, e Karl Rahner, rinomato teologo e suo confratello. Non per questo veniva meno la grande stima che Karl Rahner nutriva nei suoi confronti anche come teologo.

– Karl Rahner diceva di Wilhelm Klein: “È forse il teologo più significativo del Novecento”.

Esatto, proprio questo egli confidò una volta agli studenti di teologia al tempo del suo insegnamento a Münster. Siccome, però, nessuno di loro lo conosceva, a uno che chiedeva cosa mai egli avesse scritto, pubblicato, Rahner rispose: nulla. Era la pura verità.

E questo è senz’altro il motivo per cui anche oggi in ambito teologico nessuno sa chi sia Wilhelm Klein, ne ha mai sentito parlare, se si eccettua una ristretta cerchia di teologi che, dopo la sua morte, ha raccolto in quattro densi volumi e pubblicato, per altro solo a uso privato, una serie di commenti biblici che risalgono agli ultimi anni (1958-61) del suo ministero come padre spirituale del Collegio germanico-ungarico di Roma.

– Il principio Gesù, dopo il principio Maria: che cosa significa questo passaggio?

Nelle mie intenzioni significa che non si può conoscere e parlare di Gesù se non si conosce e si parla anche di Maria. Il termine “principio” da me scelto per entrambi i volumi è ovviamente da interpretare in senso analogico. Parlare di principio in riferimento a Gesù, il Messia, il Cristo, il figlio di Dio, non è la stessa cosa che parlarne in riferimento a Maria, madre di Gesù, donna di Nazareth, figlia di Sion. Nella scelta di quel termine c’è un po’ di provocazione e cioè l’invito a cogliere il significato teologico, oltre che storico, delle figure di Gesù e di Maria.

Non si comprende il fenomeno storico del cristianesimo se non si parte dal principio, dalla storia di Gesù e Maria di Nazareth. E, viceversa, non si comprende la storia di Gesù e Maria di Nazareth se non si parte ancora una volta dal principio, dal significato teologico che si nasconde nella narrazione della loro storia.

– L’agape è sempre al centro delle meditazioni: potremmo dire che è ciò che avvolge e unisce tutto?

Si può dire, l’agape avvolge e unisce tutto e tutti, è il principio, il fine e il senso della storia. Il problema semmai – come si diceva – è come intendere la storia e soprattutto l’agape che la innerva, ne è per così dire il sistema nevralgico che permette di coglierne le contraddizioni e interpretarle teologicamente. A questo proposito, ricordo ancora come fosse ieri il mio primo incontro con Wilhelm Klein a Bonn nell’estate del 1967.

– Come avvenne quel primo incontro con Klein?

S’informò sulla mia provenienza e sul motivo della mia presenza in quella città, a quei tempi capitale della Germania occidentale. Gli risposi che stavo lavorando al mio dottorato e studiando il concetto di agape a partire dal pensiero del teologo luterano svedese Anders Nygren. E lui prontamente: “È un bel tema – osservò – non dimenticare però che l’agape non si studia, si vive”. “Ho forse sbagliato tema?” gli chiesi, alquanto perplesso e, per la verità, anche un po’ incuriosito. “No, il tema è importante e sempre attuale – rispose –. Quello però che stai studiando non è propriamente l’agape, è la storia e il significato di una parola di origine greca che, nel cristianesimo, ha assunto particolare rilevanza ed è tuttora al centro del messaggio di Gesù”.

La teologia ne ha sempre parlato lungo i secoli e ne parla ancora, ricorrendo peraltro nelle diverse lingue ad altre parole: carità, amore…, che rischiano però nel contesto odierno di offuscarne, se non di rimuovere, il significato profondo che, nella narrazione biblica, rimanda alle grandi verità della creazione, dell’incarnazione, della redenzione.

– Nella seconda parte del libro sono ripresi due contributi già pubblicati: che cosa c’è di nuovo nelle aggiunte e integrazioni da lei apportate?

Qui ho tentato di esporre un po’ più sistematicamente il pensiero di Klein, recuperando anche altri spunti di riflessione che ho trovato nei miei appunti a distanza di oltre cinquant’anni dal mio primo incontro con lui. Ho anche tentato di coglierne alcuni risvolti antropologici, oltre che teologici, ma sempre a partire da una serie di intuizioni spirituali il cui centro è costituito dal mistero di Maria, atto puro della creazione, nella quale il Creatore si è creato, si crea e continuerà sempre a crearsi una natura umana che gli permette, per così dire, di superare l’infinita distanza che lo separa dalle creature ed entrare in tal modo nella storia del cosmo e degli uomini aprendola a orizzonti sempre nuovi di senso e creatività».

– Che cosa ci insegna Wilhelm Klein?

Sintetizzando un po’, potrei dire che Klein ci insegna a parlare in modo relativamente più semplice e comprensibile di Gesù Cristo e ovviamente anche di Dio, ma sempre a partire dalla nostra società e cultura, che qualcuno descrive come già post-cristiana e altri addirittura post-teistica. 
Fonte: Settimana News

libro

 

Teologia. Fra Vangeli e Diritto il legame della storia

Indagarne il rapporto mettendo da parte ogni dogmatismo, è essenziale per il nostro tempo, soprattutto se il concetto di certezza si declina in termini di speranza. Lo studio di Pitta e Lipari
Una Bibbia di Gutenberg

Una Bibbia di Gutenberg – WikiCommons

Nell’ottobre scorso sulle pagine di questo giornale, ispirato da recenti eventi giudiziari e non, affrontavamo il quesito: ‘Ci sarà mai un diritto all’altezza del Vangelo?’. La risposta negativa a tale domanda non può essere né sbrigativa, né superficiale, ma dovrà necessariamente articolarsi attraverso un fecondo confronto-dialogo fra teologi e giuristi, fino all’elaborazione di una vera e propria ‘teologia del diritto’, che non riguardi soltanto quello che si denomina ‘diritto canonico’, bensì il diritto tout court. Del resto, la negazione assoluta di qualsiasi rapporto fra i due ambiti avrebbe, per i credenti, il nefasto esito di relegare il messaggio biblico ed evangelico nella pura utopia, priva di riscontri concreti nella società e nella storia. Una recente pubblicazione Gregorian & Biblical Press, che inaugura la collana ‘Perle’, dal titolo La giustizia. Bibbia e giurisprudenza in dialogo , viene incontro a tale esigenza di approfondimento e offre un contributo notevole a un dibattito da perseguire e proseguire con passione, come animati dalla passione sono i due autori di questo volumetto: Antonio Pitta, biblista e pro-rettore della Lateranense e Nicolò Lipari, professore emerito di istituzioni di diritto privato alla Sapienza di Roma. Da specialista di Paolo, e in particolare della Lettera ai Romani, Pitta affronta il tema nell’orizzonte e nella prospettiva della teologia paolina, con stile narrativo e coinvolgente. Né può ignorare, e di fatto non ignora, l’ermeneutica luterana e riformata (nella fattispecie barthiana) del testo neotestamentario, richiamando tre prospettive che mi sono particolarmente care: la metafora del labirinto, applicata alla legge, il senso del ‘tragico’, nel dilemma del simul peccator et iustus , e la figura di Narciso, sul quale con troppa facilità ci ritroviamo a inveire come credenti. Il contributo di Lipari, intriso di riferimenti al Cristianesimo, si mostra attento a sviluppare quello che denomina «principio di ragionevolezza », declinando il tema della giustizia in termini di «speranza», piuttosto che di certezza. E sta qui un notevole merito di queste pagine, dominate dalla preoccupa- zione fondamentale di evitare ogni dogmatismo, sia in campo giuridico che in ambito teologico. Di qui l’attenzione e il richiamo a figure del pensiero credente come il cardinale Carlo Maria Martini e Pietro Scoppola. Ci sembra di comprendere che la ragionevolezza richiamata e assunta debba intendersi nell’orizzonte dell’ermeneutica, prospettiva che da sempre accomuna l’esercizio della teologia e quello della giurisprudenza. Sarebbe tuttavia limitativo e datato ritenere che tale attività interpretativa, che costituisce il compito fondamentale di entrambi gli ambiti del sapere, riguardasse semplicemente il rapporto coi testi giuridici e religiosi (ricordiamo a tal proposito un famoso testo di Platone, nel quale anche si sostiene che in tal modo si conosce solo ciò che è stato detto, ma «se sia vero non l’ha appreso» – Epimenide , 975c). Si tratta invece di interpretare l’esistenza che precede, accompagna e segue le attestazioni testuali ed è questa la linea che vado inseguendo, nella consapevolezza dell’eccedenza della rivelazione sul testo che la attesta, ma non la esaurisce. Al di là di singoli passaggi oltremodo significativi dei due saggi presenti nel libro, risulta particolarmente stimolante il fatto che esso si concluda con una serie di quesiti che il giurista pone all’esegeta, sotto il segno della sua preoccupazione di fondo: evitare il dogmatismo. Tali domande aprono a ulteriori approfondimenti, nella consapevolezza che fra Bibbia (esegesi dell’Antico e del Nuovo Testamento) e Giurisprudenza si pone il sapere teologico, chiamato a liberarsi proprio dalla tentazione dogmatica e a esercitarsi come pensiero di frontiera non solo epistemologica (ossia nel dialogo fra ambiti disciplinari diversi), ma altresì contestuale, come mostra la teologia fondamentale che si cerca di praticare nell’Università Lateranense, da cui non è aliena l’esegesi biblica, così ben rappresentata da Antonio Pitta in questa sede e non solo. Proviamo a offrire degli spunti di risposta alle domande di Nicolò Lipari, perché il dibattito si animi ulteriormente e possa trasformarsi in fecondo dialogo. La prima si chiede cosa possano suggerire le Scritture Sante al contesto contemporaneo, ossia se si dia una qualche possibilità di ‘attualizzazione’ del messaggio biblico. Una modalità decisiva propria delle Antiche Scritture, che le Nuove richiamano e superano nello stesso tempo, la rinveniamo nei ‘codici delle alleanze’. La ‘categoria’ biblica fondamentale, che possiamo considerare come una frontiera fra diritto e teologia, anche nell’oggi della storia tanto cara al Lipari, è, infatti, quella della berit (alleanza), che, nella sua duplice valenza di noachica e sinaitica, possiamo per analogia riferire rispettivamente alla distinzione fra diritto ‘naturale’ e diritto ‘positivo’. Alleanza che nella prospettiva paolina più che a Mosè va riferita ad Abramo. Sarebbe del resto sbrigativo sostenere che Gesù di Nazareth sia venuto a proporre un’alleanza senza clausole, piuttosto siamo di fronte all’unica, impegnativa e determinante clausola dell’amore anche verso i nemici. La seconda questione riguarda il dogmatismo, di cui sarebbe intrisa l’esegesi, anche quella qui proposta. Il metodo adottato dal collega biblista sembra decisamente escludere questa chiave interpretativa, che potrà forse riguardare altri esponenti non tanto della scienza esegetica quanto del biblicismo, sempre in agguato. I riferimenti all’ambito greco-romano e al contesto, di cui abbonda la trattazione di Pitta, offrono più di un motivo perché si debba escludere tale intenzionalità dal suo saggio. Infine, sulla base della precedente analisi, si può facilmente rispondere alla terza domanda: «Non è questo un atteggiamento che rischia di negare alla storia quella che, per un credente, dovrebbe essere la sua chiave di lettura fondamentale: assumerla quale strumento essenziale del disegno redentivo?». Dirò di più: ormai da tempo, nella riflessione teologica e nell’esegesi orientata dal metodo della critica storica, la storia non è più vista come ‘strumento’ o ‘palcoscenico’ sul quale si rappresentano le vicende del rapporto Dio / uomo, ma come vero e proprio ‘luogo teologico’, laddove una categoria ‘giuridica’, appartenente al contesto culturale e, oseremmo dire ‘politico’, del tempo, come quella di ‘alleanza’, diviene decisiva per significare la relazione fra l’Eterno e il tempo, l’Infinito e il finito. Si tratta di una prospettiva che chiama in causa la dinamica stessa della rivelazione ebraico- cristiana e proprio in riferimento a tale dinamica il Cristianesimo ha potuto confrontarsi ed inglobare il diritto romano e la sua decisiva lezione per l’umanità.
Avvenire 

PENSARE LA FEDE Contro… i calendari di Avvento. L’Avvento non è il conto alla rovescia che porta al Natale, né un tempo per consumare ogni giorno una cosa diversa, ma è uno spazio di apertura, di nuovi inizi, di stupore, di ricerca del volto di Dio

Ce lo ricordiamo benissimo: lo scorso anno sono spariti i film al cinema, e di conseguenza gli spettatori. Anche la musica è sparita, perché passato il momento delle canzoni affacciati ai balconi poi abbiamo preferito abbassare il volume. Nel 2020 sono spariti i menu, perché siamo spariti noi invitati a pranzi e cenoni (accontentandoci di tavolate più ridotte e minimaliste). Lo scorso Natale eravamo alle prese con altri problemi. E quindi altre ricerche. Dpcm, zona rossa, arancione, poi gialla. Spostamenti, autocertificazione, restrizioni, lockdown. Covid-19.

E oggi? Quanta ansia, quanta fretta, quanto bisogno di tornare alla ‘normalità’. Quanto affanno nel cercare di costringere ogni cosa dentro le nostre previsioni e aspettative (legittime, ma così fragili).

Ecco perché non capisco i “Calendari di Avvento” pieni di gadget, che fanno corrispondere l’Avvento ai primi 24 giorni di dicembre… e non penso (con insano integralismo) che faccia bene alla salute interiore avere ogni santo giorno (dal 1° al 24 dicembre) un cioccolatino da mangiare, o una grappa da provare, o un aperitivo diverso da gustare, o uno sconto da utilizzare, o non-so-bene-cosa da consumare. L’Avvento serve per fare spazio, per aprire l’animo, non per imitare Pacman (videogioco preistorico) che mangia tutto quello che incontra.
L’Avvento non è una parte del calendario civile, perché non riguarda il nostro tempo e le nostre misure. L’Avvento non è il conto alla rovescia per il Natale, anche se la memoria grata di quella (quella!) nascita ci riempie di dolcezza e ci fa stupire per ogni vita che viene ostinatamente al mondo. L’Avvento non nasce da noi, ma è provocazione: è un invito, che la liturgia – noiosa, spesso, ma nel suo intimo così sapiente – ci aiuta a riconoscere e coltivare.

“Chi cercate?” – dice Gesù, voltandosi verso i discepoli del Battista che erano stati ‘spediti’ dietro di lui. Per noi oggi vale la stessa domanda: non è la parola ‘Natale’ che salva, anzi potrebbe essere fuorviante, sovraccarica com’è di significati aggiunti – come un dolce troppo farcito e stucchevole – o consunta e privata della sua forza originaria. Chi è che cerchiamo?

L’annuncio che il tempo di Avvento cerca di far risuonare è che la vita non ce la diamo noi, che non siamo padroni del nostro inizio, ma che ogni inizio, ogni fecondità, ogni benevolenza viene da un Volto che, in Gesù, trova il suo ritratto più fedele, imprevisto e per certi versi inverosimile. Ecco perché l’Avvento cristiano è un bellissimo tempo, fuori da ogni calcolo e oltre ogni pretesa: un tempo che ci libera, che ci risana, che ci aiuta a cambiare orizzonte. E ci apre allo stupore e al dono.

vinonuovo.it