L’Altare, storia e valore

Jan van Eyck «Polittico dell’Agnello mistico» (particolare)

Di etimologia incerta (dal latino altus, elevato, ma anche da adolere, ardere, allusivo al fuoco che consuma la vittima), l’altare è il luogo dove viene offerto il sacrificio. Fatto di pietra, presso greci e romani aveva dimensioni ridotte senza escluderne di più ampie, come l’ara pacis di Augusto. Nell’economia cultuale del popolo ebraico rivestiva un ruolo preciso: pensiamo all’altare eretto da Noè (Gen 8, 20), da Abramo (Gen 12, 7; 13, 18), da Isacco (Gen 26, 25); Mosè lo innalzò per suggellarvi col sangue l’alleanza sinaitica (Es 24); nel tempio di Gerusalemme l’altare era il luogo cultuale per eccellenza.

Dati storici

I cristiani dei primi secoli, coscienti della novità del cristianesimo, hanno preso le distanze dall’idea ebraica e pagana dell’altare: «Ara et delubra non habemus» diceva Minucio Felice (Octavius 32), significando così la peculiarità del culto «in spirito e verità» (Gv 4, 23) inaugurato da Cristo, vero altare, sacrificio, sacerdote e tempio dell’eterna alleanza tra Dio e uomo.

Nella “domus ecclesiae” il pane e il vino per il sacrificio eucaristico erano posti su una tavola mobile di legno (come il tripode, comune nelle case romane, raffigurato nella cappella dei sacramenti nel cimitero di Callisto): tale mensa ha valore di altare, essendo l’Eucaristia un convito sacrificale, modellato sull’Ultima Cena; spiegando la comunione al sacrificio di Cristo san Paolo parla infatti di «mensa Domini» (1Cor 10, 21).

Con l’avvento delle basiliche, nel secolo IV, compare in esse l’altare fisso, di pietra o metallo prezioso: san Pier Crisologo commenta che «commutantur in ecclesias delubra, in altaria vertentur arae» (Sermo 51). All’adozione dell’altare lapideo non fu estraneo il simbolo biblico di Cristo «pietra angolare dell’edificio spirituale» (cf. Sal 117, 22; Mt 21, 42; At 4, 11; 1Cor 10, 4; 1Pt 2, 4-8). Contribuì anche l’uso di celebrare l’Eucaristia sulle tombe dei martiri, i “confessori” della fede: la visione giovannea di Ap 6, 9 («Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso»), trovò infatti concreta traduzione sia nella costruzione di altari sopra i sepolcri dei martiri, sia nella traslazione delle loro reliquie sotto gli altari delle nuove basiliche. Al riguardo sant’Ambrogio scrive: «Nel luogo in cui Cristo è vittima, vi siano anche le vittime trionfali. Sopra l’altare lui, che è morto per tutti; questi, redenti dalla sua passione, sotto l’altare» (Epistula 22, 13: pl 16, 1023).

Nel v-vi secolo l’altare, posto anche sotto un ciborio per rimarcarne l’importanza nello spazio basilicale, si presenta in tre forme: una lastra di marmo sostenuta da un pilastro centrale o da colonnine ai quattro angoli (l’altare in san Vitale a Ravenna, raffigurato anche nei mosaici del presbiterio); un cubo vuoto, al cui interno sono poste le reliquie, visibili e accessibili per deporvi fazzoletti o indumenti tramite la «fenestrella confessionis», ossia una grata o porticina; un blocco squadrato di pietra, innalzato sopra il sepolcro del martire (confessio), al quale si accedeva mediante una scala. Nelle basiliche romane di San Pietro e di San Paolo l’altare, eretto sopra la tomba dell’apostolo martire, è ancora oggi chiamato della «confessione».

Di dimensioni ridotte, fino al secolo IX l’altare si ergeva al centro dell’abside sul pavimento a capo della navata (come nelle antiche basiliche), oppure su un piano rialzato. Dal secolo vi cominciò a disattendersi l’antica norma di «un solo altare» e di «una sola messa» in ogni chiesa, a motivo del crescente numero di sacerdoti e della moltiplicazione di messe, specie di suffragio per i defunti.

Dal secolo IX, l’uso di porre le reliquie dei santi sulla mensa dell’altare come di elevare, dietro a esso, l’urna di un santo, lo trasformano in altare reliquiario. Poiché non tutte le chiese disponevano di reliquie insigni, si diffuse l’uso dell’altare a dossale, sul quale sono raffigurati Cristo, Maria, i santi patroni. Progressivamente la pala si sviluppa in elaborate costruzioni, fino a giungere all’altare monumento, che sarà addossato al fondo dell’abside. In Spagna sono famosi i retablos, ossia elevate pareti in legno policromo istoriato, dapprima intorno ai misteri della vita di Cristo e poi a glorificazione di un santo, specie nel barocco. Si assiste così a uno spostamento d’accento: le immagini non sono più un accessorio dell’altare, ma è la mensa dell’altare a risultare un accessorio del complesso monumentale. Ne consegue che la mensa del sacrificio eucaristico non attira più l’attenzione dei fedeli, perché visivamente è più importante l’urna del santo o l’immagine che la sovrasta; scompare il ciborio; lungo le pareti della chiesa o in cappelle vi sono gli altari laterali o minori, in onore della Vergine e dei santi, a seconda delle devozioni. L’idea dell’unicità è tuttavia custodita dall’altare maggiore.

Ulteriore fase evolutiva è la collocazione del tabernacolo al centro della mensa dell’altare. Il primo sostenitore fu il vescovo di Verona, Matteo Giberti (+ 1543). A Milano, ne fu convinto assertore san Carlo Borromeo. Il Rituale di Paolo V (1614) lo prescriveva a Roma e lo raccomandava alle altre diocesi. Nel secolo XVIII, quest’uso era universalmente seguito — eccetto nelle cattedrali che spesso seguivano la prassi antica — fino a sviluppare l’altare tabernacolo. Non sempre però il tabernacolo e, al di sopra, il luogo della solenne esposizione del Santissimo Sacramento (espressione manifesta di fede nella presenza reale contro i negatori di essa) mantennero la giusta proporzione in rapporto alla mensa dell’altare. La riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II ha inteso restituire all’altare il suo significato liturgico.

Valore simbolico-celebrativo

Tra i luoghi di una chiesa — ambone, sede, battistero, tabernacolo — solo l’altare conosce un rito di dedicazione, a sottolinearne l’eccellenza: «L’altare, sul quale si rende presente nei segni sacramentali il sacrificio della croce, è anche la mensa del Signore, alla quale il popolo di Dio è chiamato a partecipare quando è convocato per la Messa; l’altare è il centro dell’azione di grazie che si compie con l’Eucaristia» (Institutio generalis Missalis Romani, 296). Perciò, come ha ricordato Papa Francesco, «verso l’altare si orienta lo sguardo degli oranti, sacerdote e fedeli, convocati per la santa assemblea intorno ad esso» (Discorso del 24 agosto 2017).

Il suo valore è espresso anche dai riti che, nella dedicazione, ne esplicitano il simbolismo: l’unzione con il crisma, l’incensazione, l’illuminazione; stendendovi la tovaglia, il nuovo altare è preparato quale mensa del sacrificio: lì ci si nutre del Pane della vita e ci si disseta al Calice della salvezza; lì risplende e da lì si diffonde la luce che illumina i commensali e i familiari di Dio, perché a loro volta siano luce del mondo.

Lo rammenta il Catechismo della Chiesa Cattolica: «L’altare, attorno al quale la Chiesa è riunita nella celebrazione dell’Eucaristia, rappresenta i due aspetti di uno stesso mistero: l’altare del sacrificio e la mensa del Signore, e tanto più in quanto l’altare cristiano è il simbolo di Cristo stesso, presente sia come vittima offerta per la nostra riconciliazione, sia come alimento celeste che si dona a noi» (n. 1383).

Si chiede che in chiesa si costruisca un solo altare, staccato dalla parete per potervi girare attorno e celebrare verso il popolo, e collocato in modo da attirare l’attenzione; sia normalmente fisso e dedicato, con la mensa di pietra (non è esclusa altra materia degna, solida e ben lavorata); sotto l’altare si possono porre reliquie di santi; sia coperto da una tovaglia e sopra o accanto a esso vi siano una croce e i candelieri (cf. Institutio generalis Missalis Romani, 298-308).

La venerazione per l’altare (si bacia, lo si incensa, davanti a esso ci si inchina) è motivata dal suo legame col sacrificio di Cristo, al quale nel sacramento si associa il sacrificio della Chiesa orante. Segno di Cristo e vincolo di comunione con lui è il santo altare: su di esso viene deposta l’offerta spirituale dei fedeli, significata nel pane e nel vino, perché lo Spirito Santo, per il ministero del sacerdote, li renda sacramento del corpo e sangue di Cristo, così che quanti se ne nutrono diventino un solo corpo in Cristo, a lode di Dio Padre. Lo esprime in preghiera il prefazio della messa di dedicazione: «Intorno a quest’altare ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio per formare la tua Chiesa una e santa».

Sull’altare si depone anche l’Evangeliario. Davanti all’altare si compiono i riti di ordinazione (nel rito bizantino il candidato pone il capo sull’altare), il matrimonio, la professione religiosa, la consacrazione della verginità, e nelle esequie si depone la bara del defunto. Nella liturgia delle Lodi e del Vespro, estensione della lode eucaristica alle ore cardine del giorno, l’altare può essere incensato.

Sempre, anche al di fuori dell’azione liturgica, l’altare è invocazione e attesa della presenza di Colui che fa nuove tutte le cose (cf. Ap 21, 5).

di Corrado Maggioni / Osservatore Romano

Inediti. Il dialogo giovanile di Antonio Rosmini sull’amicizia

Il roveretano aveva appena sedici anni quando compose il “Dialogo tra Cieco e Lucillo”, ora proposto in volume assieme ad altri scritti giovanili
Il monumento ad Antonio Rosmini di Milano

Il monumento ad Antonio Rosmini di Milano – –

Avvenire

«E’ son tanti o Cieco i vantaggi di questa amistade figliuola della natura, son tanti e tali ch’io non volgo a dirli tutti, in tutta grandezza essa fa presenti i lontani, i poveri arichisce fa i deboli forti; i morti fa insomma vivi. Lega insieme il cielo e la terra e fa dolce la vita agli uomini, ond’è che fu detto neuna cosa essere più gioconda dell’amistade. O quanto è dolce trovare un’amico in chi si possa riporre ogni segreto! come con seco medesimo. Un’amico col quale fruire insieme la prosperità, e le contentezze, un’amico onde partire le miserie, e le afrizioni di questo mondo. Senza di questo ogni pensiero è tedio, ogni operazione fatica, ogni terra pellegrinaggio, od esilio, ogni vita tormento. E’ mi bramerà vivere senz’amico ancorché gli altri beni di questa terra avesse?». Così scrive Antonio Rosmini nel Dialogo tra Cieco e Lucillo risalente, con grande probabilità, alla seconda metà del 1813 e pubblicato ora in anteprima assoluta dalle edizioni Inschibboleth, insieme al contemporaneo Delle laudi dell’amistà, nel volumetto Dell’amicizia. Alcuni inediti giovanili (pagine 120, euro 12,00) e da oggi disponibile in libreria. Merito della scoperta e della realizzazione dell’edizione critica di questi trattatelli va a Emanuele Pili, autore di recente anche di Se l’uno è l’altro. Ontologia e intersoggettività in Antonio Rosmini (Edizioni di pagina), libro che ha il pregio di condurre il Roveretano nel suo luogo naturale, ovvero nel cuore del dibattito del pensiero continentale contemporaneo da cui spesso è stato tenuto lontano.

Non bisogna illudersi, comunque. Delle laudi dell’amistà e Dialogo tra Cieco e Lucillo non hanno pretese di originalità né di innovazione eppure, come sottolinea Fulvio De Giorgi nella prefazione, figureranno «nella bibliografia essenziale delle fonti primarie» di Rosmini. Non deve certo sorprendere il procedere e l’argomentare acerbo dei due lavori. Allora il pensatore di Rovereto, appena sedicenne, non aveva ancora scoperto la filosofia. Le sue porte si sarebbero schiuse per lui solo l’anno successivo, dopo l’incontro con Pietro Orsi. Eppure queste pagine giovanili, per la prima volta disponibili per il largo pubblico, custodiscono già in nuce temi e problemi intorno a cui Rosmini continuerà a meditare fino agli anni non più verdi. Lo conferma lo stesso Rosmini nel tardo Degli studi dell’Autore dove ricorda che «per vero tutti gli scritti che poscia, in età più matura, comunicammo al pubblico, furono lo svolgimento di que’ semi». E la stessa Teosofia lo testimonia quando tra le sue pagine recita, facendo quasi eco a quanto il grande pensatore italiano pensava già in età adolescenziale, vale a dire che «tutte le nature delle cose sono connesse – scrive –, e fra loro inanellate, l’una chiama l’altra, l’una all’altra si continua e si appoggia, e reciprocamente si sorreggono: quindi la mirabile unità del tutto senza alcuna confusione delle parti, quindi ancora l’armonia e la consonanza di queste che dagli abissi intimi visceri dell’essere esce e risuona».

Non che mancassero le letture al giovane Rosmini. Se Cicerone, Seneca e Plutarco la fanno da padroni nelle pagine giovanili, come sottolinea Pili nell’introduzione, non mancano riferimenti a Virgilio, Boezio, Boccaccio, Dante, Francesco Petrarca, Poliziano, Ludovico Ariosto, Francesco di Sales anche se l’Aristotele dell’Etica Nicomachea ancora non figura nel suo cahier di letture. Eppure non ne ha bisogno. L’amicizia sta già al centro delle esigenze, teoretiche e vitali, di Antonio Rosmini. Non si tratta di un interesse estemporaneo. A più riprese nell’epistolario di quegli anni torna la questione dell’amicizia e della sua importanza anche se in Delle laudi dell’amistà Rosmini si lamenta che «né io ancora colui m’è venuto fatto di trovare, il quale meritar possa il dolce nome d’amico ». Il problema è tanto sentito che, qualche anno dopo queste prime esperienze di scrittura, tra il 1819 e il 1820, il pensatore di Rovereto costituirà una “Società degli Amici” con lo scopo di promuovere la crescita spirituale degli accoliti. Tutta l’attenzione rivolta all’amicizia dipende dal ruolo che Rosmini le assegna nell’economia dell’essere. Essa non riguarda solo affetti e morale. Ricopre uno statuto più ampio, quasi ontologico, anche in gioventù e troverà, nei testi maturi, sorgente nella Trinità. L’amicizia è «la grammatica relazionale cui risponde ogni realtà», sottolinea Pili. È solo in virtù di questo vincolo amicale dell’essere, animato dal Mistero trinitario, che l’amicizia gioca un ruolo nel conseguimento della virtù e che consente a Rosmini di riconoscerle ricadute morali come testimoniano già le battute conclusive del Dialogo tra Cieco e Lucillo. «Questo io agogno, o caro, onde l’un l’altro ajutati potessimo di leggeri a quella virtù pervenire, cui colla solitanea malagevole assai si arriva. E di fatti, e a che altro de’ l’amicizia esser rivolta, che all’ajuto della virtù? Ma deh quanto è difficile trovare colui col quale rimangasi in Amistade legati fino all’ultimo dì della vita come furono già Scipioni, ed i Leli!».

(segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone)

Alla tua cena mirabile. L’eucaristia nella vita della chiesa


Il vescovo di Novara Franco Giulio ha presentato nella mattina di sabato 27 giugno, in un incontro con sacerdoti e diaconi diocesani presso il Santuario di Boca, la sua lettera pastorale per l’anno 2020-2021 Alla tua cena mirabile. L’eucaristia nella vita della chiesa.

L’opera è una riflessione in «quattro tempi» con il primo dedicato a una lectio sul capitolo VI del vangelo di Giovanni «in cui campeggia il discorso su Gesù pane di vita».

Il secondo mette in discussione la separazione tra esistenza e rito: «non c’è vita dell’uomo senza rito e non c’è vita cristiana senza eucaristia». Nel terzo, uno sguardo attento e profondo alla liturgia come forma pulsante della preghiera della chiesa.

Infine, l’approdo del quarto capitolo, con una catechesi comunitaria che colloca l’eucaristia nel cuore della domenica, il giorno del Signore, tempo della festa e della comunità.

Durante la mattina il vescovo ha anche consegnato un breve schema che riassume l’itinerario della lettera (scaricabile da questo link), che pubblichiamo di seguito.

 

Schema di Presentazione della Lettera pastorale

ALLA TUA CENA MIRABILE

L’eucaristia nella liturgia della Chiesa

Premesse

3 motivi per una Lettera pastorale:

  • La focalizzazione sul momento costitutivo della vita spirituale del cristiano
  • La pubblicazione della terza edizione italiana del Messale Romano
  • La sollecitazione derivante dal digiuno eucaristico nel tempo del coronavirus

Le articolazioni della Lettera pastorale:

3 articolazioni di una Lettera + una cornice

La prima articolazione contiene la Lectio di Giovanni 6 (capitolo 1)

  • Un vangelo che ricorre in cinque domeniche dell’anno B (e quindi il prossimo anno)
  • Un testo che consente un percorso spirituale di introduzione all’eucaristia come “mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo e di porgerlo ai fedeli” (DV 21)
  • Un percorso che parte dalla dimensione antropologica dell’uomo come desiderio e, passando per la dimensione teologica (“pane dal cielo”), ci fa incontrare il pane di vita nella storia di Gesù (dim. cristologica) e mangiare la sua carne e il suo sangue (dim. eucaristica) per approdare al volto della chiesa come chi dona il pane per la vita del mondo.

 

La seconda articolazione ci fa guardare al contesto socio-culturale (capitolo 2):

  • Per illustrare il rapporto tra la vita cristiana come culto spirituale e il culto rituale
  • La chiave di lettura è il rapporto tra uomo e rito: non c’è uomo senza rito e non c’è rito senza uomo
  • La crisi del rito negli anno 70-80 e la sua ripresa con una devozione/ritualità fai da te
  • riti omologanti e riti identificanti nella società di massa
  • la svolta del social media con una “ritualità proiettiva”

 

La terza articolazione è la proposta di catechesi e di riflessione che è svolta per due destinatari diversi: la prima pista per sacerdoti, gruppi liturgici, ministri della comunione, catechisti e consigli pastorali (capitolo 3); la seconda pista per la comunità cristiana e la catechesi a tutti durante l’anno, utilizzandolo come guida per la Lettera (capitolo 4).

  • La prima pista ripercorre tre temi: la liturgia “grammatica” della preghiera della chiesa, in cui si invita a custodire con cura la celebrazione della messa, con il suo programma rituale; l’“accordo rituale” con cui preparare e vivere una buona celebrazione dei testi, dei gesti e degli attori (ars celebrandi); l’“actuosa participatio” di cui dare una lettura profonda e non superficiale.
  • La seconda pista prevede una catechesi su tre punti: 1) l’eucaristia al centro 2) della domenica, 3) fonte di carità e missione (questa è la grande catechesi per il popolo di Dio):

La cornice si apre e si chiude con due testi della tradizione: dalla liturgia bizantina (e ambrosiana) del Giovedì Santo; della bolla Transiturus che istituisce la festa del Corpus Domini.

Gli Adempimenti (fascicolo a parte) sono indirizzati a diversi destinatari (parrocchie, UPM, Formazione Permanente, Diocesi) che dovranno scegliere, insieme nell’UPM e nel Vicariato, con sapienza un programma coerente.

 

fonte: diocesinovara.it

Come ripensare la teologia dopo il trauma collettivo della pandemia

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La domanda di Theodor Adorno ritorna dopo ogni catastrofe: possiamo ancora filosofare o non dobbiamo rassegnarci al silenzio? E per il teologo ciò comporta far proprio il silenzio di Dio. Il sisma di Lisbona (1755), seguito dall’irrisione di Voltaire verso Leibniz, la shoah, e ora la pandemia, come ogni altra catastrofe, impongono la rinuncia al pensiero (logos che è anche linguaggio) o un “nuovo pensiero” (F. Rosenzweig)? E la comunità credente può rinunciare alla riflessione? Di fronte all’attuale tragedia i credenti si sono impegnati soprattutto su due fronti: quello che Antonio Rosmini chiamerebbe la “carità temporale” ossia la vicinanza e il soccorso delle persone colpite dal virus a diversi livelli e quello della devozione e dell’invocazione. Di fronte a queste scelte fondamentali l’opzione del silenzio teologico mi era sembrata la più opportuna, finché non mi ha raggiunto il grido di un amico/collega ormai in pensione: «Ci avete consolati, ma non ci avete illuminati!». Di qui l’impegno profuso ad accompagnare i momenti del dramma con riflessioni teologiche pubblicate sui media. Braccia (le mie) sottratte alla cura dei corpi e delle anime, con la pungente domanda rivolta da Lazzaro al buon Emanuele: «Poca teologia, eh? Poca teologia; religione, religione», mentre la sorella Angela si chiedeva se non era teologia anche questa (Miguel de Unamuno). E ora? Se è vero che tutto non sarà più come prima, non possiamo esimerci dalla domanda: che ne sarà della teologia in genere e in particolare di quella regione teologica che sono chiamato ad abitare nella didattica e nella ricerca, denominata teologia fondamentale? A meno di non essere stati infetti dal virus della cecità, così ben descritto da José Saramago, non potremo continuare ad insegnare e a svolgere le nostre ricerche come se nulla fosse accaduto. In particolare la teologia fondamentale chiede di essere ripensata e dovrà subire una profonda metamorfosi, visto che la sua vocazione è quella di mostrare la credibilità della rivelazione cristiana nell’oggi della storia.

«Nessuna parola altisonante, nemmeno teologica, ha un immutato diritto dopo Auschwitz» (ancora Adorno). Allora una teologia umile, come anche una metafisica umile — in senso etimologico non spiritualistico — ma non rinunciataria potranno illuminare la consolazione e il conforto della pietà. Se infatti siamo chiamati a vigilare contro ogni manifestazione idolatrica e superstiziosa nel rapporto col sacro, non possiamo a nostra volta ricadere nell’idolatria del concetto, delle nostre idee, dei nostri filosofemi e delle nostre superbe teologie. E da questa sempre incombente tentazione Papa Francesco ci mette continuamente in guardia, per esempio allorché ammonisce nel suo twitter del 14 luglio (data storica e simbolica, spesso ideologicamente evocata): «Nel giorno del giudizio non saremo giudicati per le nostre idee, ma per la compassione che avremo avuto».

Per quanto riguarda la teologia fondamentale, mi sembra di poter indicare alcuni compiti imprescindibili per il suo new normal postpandemico. Un primo appello/compito, sul quale spesso ci si è interrogati, a prescindere dalla tragedia, ma che ora acquisisce ben altra qualità speculativa riguarda il rapporto fra esperienza religiosa e fede, orizzonti che non dobbiamo sbrigativamente identificare. L’epidemia si è intrecciata all’esperienza religiosa dei greci, come mostra Laurent de Sutter nel suo Cambiare il mondoL’epidemia e gli dei (Roma, Edizioni Tlon, 2020, euro 3,99), dove emerge con forza il tema del “sacrificio”, caro a Andrej Tarkovskij. Quando leggiamo che nel periodo di maggiore crisi si riscopre la preghiera, non sempre si tratta del vissuto credente. «La maggiore sacralità di un tempio è data dal fatto che in esso si va a piangere in comune» (de Unamuno), ma si tratta del “pianto inutile” di Solone per la morte del figlio. Diffondere l’idea che la preghiera cambia solo noi stessi e non la realtà risulterà fuorviante e tutt’altro che cristiano, in quanto la nostra preghiera è invocazione destinata a cambiare la realtà, anche quando non viene immediatamente esaudita, nella logica dominante del tutto e subito. Infatti la nostra preghiera eucaristica ottiene da Dio che il pane e il vino trasmutino la loro sostanza nel corpo e nel sangue di Cristo: non è solo il nostro modo di porci di fronte alle specie eucaristiche che si modifica, ma la realtà stessa in esse contenuta e che siamo invitati a mangiare e bere. E quando la preghiera non viene esaudita non dobbiamo dimenticare quanto scriveva Dietrich Bonhoeffer all’amico Eberhard Bethge dal carcere di Tegel il 14 agosto del 1944: «Dio non realizza tutti i nostri desideri, ma tutte le sue promesse, cioè egli rimane il signore della terra […]». In Giobbe e Gesù di Nazareth Dio ha realmente esaudito le loro invocazioni, mantenendo tutte le sue promesse: al “paziente” di Uz Egli restituisce quanto ha perduto, come a Gesù la vita che gli era stata tolta. Ma non si tratta di un puro e semplice ritorno alla vita precedente, ma di una reale e profonda novità (new normal), donata attraverso la sofferenza e la croce, perché «l’amore è contemporaneamente fratello, figlio e padre della morte» (de Unamuno).

Giobbe e il Crocifisso impongono un secondo compito al teologo fondamentale: quello di farsi carico della teodicea, ovvero della riflessione sul rapporto fra l’esistenza di Dio e il male del mondo, soprattutto nella forma del dolore innocente. Accade che i teologi si fermino, nella lettura di Giobbe alla teofania del capitolo 38 del testo sapienziale e nella vicenda di Gesù al venerdì santo, ritenendo le loro invocazioni non esaudite, adottando così una teodicea apofatica e, non so quanto consapevolmente, obbedendo al divieto kantiano di mettere in atto ogni tentativo di riflessione filosofico-razionale sul tema del dolore innocente. Già Rosmini ha infranto, con la sua monumentale e geniale Teodicea (1845), il divieto kantiano riportando la questione all’“ordine soprannaturale”, ossia offrendo una teodicea staurologica e cristocentrica, incentrata sul mistero della croce e il suo compimento nel mistero pasquale. Tale orizzonte va oltre una concezione che vede ogni male (anche la pandemia) come castigo (teodicea amartiocentrica) e supera anche il silenzio assoluto di fronte al mistero (teodicea apofatica). Nel secolo breve, grazie al lavoro di Johann Baptist Metz, abbiamo imparato a declinare teologicamente la teodicea. Oggi l’icona del crocifisso grondante di pioggia nella preghiera di piazza San Pietro del 27 marzo mi sembra atta ad esprimere questa prospettiva, che il teologo è chiamato ad elaborare ed articolare con l’esercizio del pensiero credente. Le prime due prospettive abitano rispettivamente le due prediche di padre Paneloux ne La peste di Albert Camus, il cui protagonista resta non credente. L’icona che emoziona e commuove deve farci pensare e potrà convertirci ad un cristianesimo autentico e non convenzionale. In questo contesto si tratta di ripensare il “principio di causalità”, attenzionando la dinamica della “causalità errante” evocata da Platone nel Timeo (letteralmente una causa che “plana”, guidata non da un “motore immobile”, ma dal vento che tira e trasmette anche virus). Ma anche superando la formula della “permissione del male” per orientare la riflessione verso il fatto che Dio non permette il male, ma lo “subisce”. Ed è questa “compassione di Dio” a esprimersi nella nostra compassione (espressa nel twitter del Papa). Un paradosso perché se Dio non patisse non potrebbe essere compassionevole, così se noi non patissimo non potremmo avere compassione per nessuno, nemmeno per Dio stesso e il suo Figlio.

In terzo luogo ed infine, se il trauma diventa luogo di invocazione e di esperienza religiosa, esso tuttavia ci pone soprattutto di fronte alla Parola, da cui si genera la fede che salva, come ha brillantemente mostrato il teologo quacchero David M. Carr, nel suo saggio Santa resilienzaLe origini traumatiche della Bibbia (Brescia, Queriniana, 2020, pagine 272, euro 27). La scrittura, a livello personale, spesso nasce dal dolore e dal trauma di una malattia, della perdita di una persona cara, di una delusione amorosa, ma qui siamo di fronte al trauma collettivo, che Israele racconta e cristallizza nel testo santo, mentre ad esempio, in occasione del ritorno dall’esilio, ritrova il rotolo di quello che possiamo indicare come un proto-Deuteronomio, e gli scribi «leggono nel Libro» e commentano il testo, interpretandone il senso. Siamo quindi chiamati, nel trauma e nel suo post, non a leggere il Libro, ma in esso la nostra storia, le nostre vicissitudini, le nostre angosce e speranze. E se la rivelazione eccede la Scrittura, dobbiamo saper ritrovare nelle devozioni e nelle pratiche autentiche e non superstiziose della pietà popolare il messaggio che la Parola di Dio intende porgere alle nostre personali e comuni esistenze. Così ad esempio sarà sempre necessario riportare ai misteri di Gesù, che meditiamo nel rosario, la nostra preghiera. È il vangelo che va annunciato, anche se non solo attraverso la lettura, e la storia ci insegna che, nelle espressioni pittoriche, scultoree ed architettoniche della fede, si consegna una biblia pauperum soprattutto a quanti non hanno accesso ai testi biblici o perché non sanno leggerli e interpretarli o perché si smarrirebbero nella loro complessità.

di Giuseppe Lorizio / Osservatore Romano

Giuseppe Dossetti, biografia di una «sentinella»

di: Giulia Cella

copertina

Esce in questi giorni, per i tipi delle EDB, Giuseppe Dossetti di Fabrizio Mandreoli, un volume agile e intenso che ripercorre la biografia di una personalità difficilmente compendiabile, oggetto di «tenacissime resistenze», «sentinella» dei grandi problemi dell’umanità, per sua stessa definizione «strumento e non sostituto» dell’azione del Signore.

Le tappe fondamentali di questa singolare esperienza di vita vengono ripercorse con cura storica e bibliografica. L’impegno politico nella DC e il successivo ritiro proprio all’apice del consenso personale e di quello raccolto dal partito, perché «bisogna guardarsi dal fare per il fare, da un attivismo dissennato. Occorre il contatto con il mondo contemplativo e la dimensione storica degli elementi del sistema». La partecipazione ai lavori preparatori della Costituzione, considerata uno strumento per guardare al futuro e porre «le basi di un ordine nuovo e andare verso nuovi rapporti sociali». La presenza, accanto a Lercaro, al concilio Vaticano II e l’apporto teologico su temi quali la povertà della Chiesa e il superamento della sua visione prevalentemente giuridica in favore della dimensione sacramentale, il rapporto dei cristiani con Israele, il problema della pace e della guerra. Poi ancora la fondazione della Piccola Famiglia, l’esperienza in Medio Oriente e i contatti con i relativi mondi culturali e spirituali, il ritorno in Italia e la proposta di un progetto per Bologna e per l’attività politica dei cristiani.

Quale contributo apporta, oggi, questo libro alla riflessione comune e in particolare al cattolicesimo contemporaneo? Nell’introduzione di Enrico Galavotti leggiamo: «Non si può comprendere la vicenda di Dossetti senza tenere conto del dato che essa è anzitutto la storia di un cristiano sul serio», che ha mostrato una particolare capacità di mettere a disposizione le proprie risorse culturali per favorire radicali processi di riforma basati su un’adesione sempre più netta al dettato evangelico e una sincera apertura all’azione della grazia in vista di un’autentica promozione degli ultimi.

«Sicuramente – spiega Mandreoli – l’itinerario biografico, di discepolato e di pensiero di Giuseppe Dossetti permette di rinvenire nuclei generatori di vita e modi di procedere utili a chi cerca strumenti interpretativi del nostro presente. In particolare, credo sia importante ricordare il suo metodo del “circuito delle due parole”: un incessante confronto tra il discorso dei libri biblici e l’analisi approfondita della storia dei popoli ad ogni livello attraverso un’attenzione ai dinamismi profondi che la percorrono interamente».

Il volume mostra come questo rapporto venga vissuto costantemente da Dossetti all’interno di un dialogo continuo, un «modo sinodale di riflettere» fatto di riflessioni personali e comuni, preghiera, letture attente. Ma soprattutto – conclude Mandreoli – è praticato «a partire dalla vicinanza con i poveri e dal tentativo di condividere la vita dei “senza storia”, di coloro che, per ingiustizie sistemiche, sono deprivati della capacità di esprimere la propria potenzialità e creatività umana. Una storia letta quindi dal basso, dalla prospettiva dei liminali, di coloro che nella corsa globale non riescono a gareggiare, dei popoli, dei subcontinenti e delle categorie marginalizzate. In definitiva, Dossetti ci mostra che la prospettiva preziosa di coloro che nella vita non ce la fanno è il contesto dentro il quale ascoltare la parola di Dio e le parole della storia umana».

Fabrizio MandreoliGiuseppe Dossetti, Prefazione di Enrico Galavotti, EDB, Bologna 2020, 152 pp., 13,50 euro. Recensione pubblicata su Avvenire «Bologna Sette» del 12 luglio 2020.

settimananews.it

Le sette parole di Maria

di: Roberto Mela

7 parolemaria

«O Signore, io stessa sarò la tua musica», dice un bel versetto del poeta elisabettiano John Donne (1571-1631) citato dal card. Ravasi nel suo ennesimo volume di riflessioni bibliche, punteggiato come sempre da numerose citazioni letterarie, pittoriche e musicali in specie. Sette le parole di Maria commentate, di cui una fatta di silenzio, espressa con «stava (ritta)» sotto la croce del suo Figlio. L’autore le inquadra brevemente nel loro contesto.

Il linguaggio non è tecnico filologico-esegetico, ma riflessivo e generale. Ravasi nota come le parole Maria siano «marginali» nei testi evangelici: 16 versetti con 154 parole greche (di cui 102 espresse nel Magnificat) sulle 19.404 del Vangelo di Luca e sulle 15.416 di Giovanni. Ravasi ne ripercorre “cronologicamente” l’espressione, seguendo Maria nel suo cammino di fede.

La prima parola (Lc 1,34) è la domanda di chiarificazione della modalità di realizzazione del piano di Dio all’interno del progetto matrimoniale di Maria. Pronta in Lc 1,38 l’espressione della piena disponibilità della «serva/doulē del Signore», come “servi di YHWH” erano stati vari personaggi dell’AT (per lo più maschili), con grandi compiti nella storia della salvezza. Ricordo però che solo qui c’è l’espressione «la serva» di YHWH con l’articolo, caso unico nella Bibbia.

Alla visitazione, in cui Maria è proclamata da Elisabetta «la credente», segue l’esplosione del canto del Magnificat. Alla terza parola di Maria (Lc 1,46-55) Ravasi dedica le pp. 49-90, proponendone un’analisi letteraria generale, a cui seguono alcune considerazione versetto per versetto.

Anche se frutto della pietà della comunità primitiva e intessuto di riferimenti all’AT, il cantico di addice bene a Maria. Ella canta la grazia immeritata di YHWH sulla sua piccolezza e la scelta paradossale di YHWH, ma costante nella storia della salvezza, di strumenti “deboli” per realizzare i suoi piani. Nel Magnificat si canta il ribaltamento della mentalità umana tipica del regno di Dio, ma che inizia già fin d’ora. I setti aoristi impiegati come un martello indicano la puntualità di attuazione ma, essendo secondo Ravasi anche aoristi gnomici, attestano pure ciò che è il modo solito di agire di YHWH nei confronti dell’umanità.

La ricerca addolorata e penosa (odinōmenoi, Lc 2,48) – più che di due «angosciati» (così CEI 2008) – da parte dei due genitori verso Gesù «impegnato nelle cose del Padre suo», mostra la loro fatica nel comprendere la persona e il cammino del Figlio di Dio, che però verrà sempre accompagnato nella sua vita dall’affetto e dalla fede di Maria e di Giuseppe.

A Cana di Galilea (Gv 2,1-11) Maria svolge non tanto una funzione provvidenziale di soluzione del dramma di due giovani sposi rimasti senza vino durante la festa, ma quella di favorire l’instaurazione della nuova alleanza della Chiesa-sposa (mai nominata) con il vero Sposo nella celebrazione dell’abbondanza delle nozze messianiche. Maria è invitata da Gesù a uscire dal piano dei rapporti familiari e della ricerca di segni prodigiosi a quello dell’attuazione della storia della salvezza, che vede a Cana scoccare l’inizio (così il benemerito Segalla) di quell’Ora (che viene solo per volontà del Padre…), che troverà il suo apice al Golgota. In quel momento ricorrerà per la seconda volta il termine «donna», al vocativo gynai. Col suo brusco «che cosa c’è fra me e te, o donna?» Gesù non si mostra scostante nei confronti di Maria, ma con un fraseggio tipicamente ebraico rivela la diversa prospettiva di vedute e invita la madre a raccordarsi con la sua.

Da parte sua Maria invita con la sua sesta parola i «diaconi» a fare tutto quello che Gesù eventualmente dirà (Gv 2,5). Con ciò l’evangelista Giovanni allude alla funzione provvidenziale di Giuseppe in Egitto e alla volontà di Israele di “ascoltare e fare” le dieci parole che YHWH donerà al Sinai durante la stipulazione della Prima alleanza.

Sotto la croce (Gv 19,26-27) accade una scena di rivelazione-vocazione-missione che non tende tanto a ricordare cronachisticamente un testamento filiale e un affidamento di Maria alla custodia umana del Discepolo Amato, quanto la rivelazione del volto della Chiesa madre che nel momento dell’abbandono/distacco da Gesù morente diventa feconda di sempre nuovi figli. La donna/gynai diventa madre feconda in modo nuovo (cf. Ap 12).

È una parola silente quella settima di Maria sotto la croce. È espressa nel suo «stare ritta» in modo continuo e stabile. Stabat Mater dolorosa, onoreranno con pietà gli autori in un’infinità di opere musicali la madre che contempla il Figlio, nella costanza di chi non fugge ma raccoglie il mandato del Figlio di Dio.

La tradizione popolare e la pietà verso la madre Maria hanno voluto esplicitare il silenzio dell’Addolorata. Jacopone di Todi in questo è un maestro: «Figlio bianco e vermiglio,/ Figlio senza simiglio/ Figlio a chi m’apiglio?/ Figlio, m’hai lassato./ Figlio bianco e biondo/ Figlio, volto iocondo,/ Figlio, perché t’ha ’l mondo,/ Figlio così sprezzato?/ Figlio dolze e placente,/ Figlio de la dolente,/ Figlio, hatte la gente/ malamente trattato» (cit. a p. 131).

Noto en passant a p. 46 r 3 che hóti non è un avverbio, ma una congiunzione causale. Utile la bibliografia utilizzata dall’autore (pp. 147-149).

  • Gianfranco RavasiLe sette parole di Maria (Lapislazzuli s.n.), EDB, Bologna 2020, pp. 152, € 12,00, ISBN 978-88-10-56964-1.
  • Fonte: Settimana News

Teologia al passo con i tempi

Giusto de’ Menabuoi «La creazione del mondo» (Battistero di Padova, XIV secolo)

L’osservatore Romano

Herbert McCabe (1926-2001) è sicuramente il maggior studioso e interprete di Tommaso d’Aquino del Novecento di lingua inglese, ma nonostante ciò è molto poco conosciuto in Italia.

Durante la seconda guerra mondiale si iscrisse a chimica all’università di Manchester, ma pochi mesi dopo si trasferì alla facoltà di filosofia. Dopo la laurea divenne frate domenicano. Dopo un breve periodo a Cambridge, nel 1968, all’età di 42 anni, fu trasferito al convento di Oxford, dove rimase fino alla morte e dove insegnò teologia alla scuola dei domenicani. La sua appartenenza all’Ordine domenicano e alla Chiesa cattolica costituiscono un fattore determinante per spiegare l’evoluzione e le motivazioni profonde del suo pensiero. In particolare McCabe apprezzò gli orientamenti emersi dal concilio Vaticano II, anzi furono proprio questi a confermarlo nell’idea, sempre presente nella sua opera, che la fede sia compatibile con la razionalità e non sia e non debba essere ostile verso la cultura contemporanea, la scienza e la psicoanalisi, ma anzi debba confrontarsi proficuamente con essa, come risulta anche dalla sua opera Faith Whitin Reason (uscita postuma nel 2007).

È fresco di stampa il primo libro che ne esamina globalmente il pensiero filosofico e l’influsso esercitato sulla cultura contemporanea: Herbert McCabe. Recollecting a Fragmented Legacy di Franco Manni (Eugene, Oregon, Cascade, 2020, pagine 300, dollari 36). Manni esamina, con chiarezza e con puntuale riferimento ai testi, gli snodi cruciali del pensiero di McCabe nell’ambito della teologia filosofica (ovvero la riflessione su Dio compiuta dalla ragione umana indipendentemente dalla Rivelazione), dell’antropologia e dell’etica.

McCabe elabora la propria originale interpretazione di Tommaso d’Aquino alla luce del pensiero contemporaneo (in particolare la filosofia analitica prevalente nella cultura di lingua inglese, fortemente caratterizzata dalla ricezione del pensiero di Wittgenstein e della filosofia del linguaggio) in un continuo e proficuo confronto critico con le categorie della riflessione accademica del suo tempo.

McCabe è convinto che, indipendentemente dalle convinzioni religiose dei singoli autori, la filosofia contemporanea abbia l’esigenza razionale di porsi il problema di Dio sostanzialmente per due motivi: da un lato il bisogno di dare risposta a una delle domande filosofiche fondamentali (perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla?, la cosiddetta ultimate why question) e dall’altro per le implicazioni che la questione comporta sull’elaborazione razionale dell’etica. Infatti se si vuole giustificare un’etica finalistica, secondo cui le virtù e, di conseguenza, le leggi morali sono indirizzate a un fine, ovvero la realizzazione integrale della natura umana, occorre domandarsi l’origine di questa natura umana. È evidente che se l’uomo fosse creato, di per sé si avrebbe la giustificazione dell’esistenza del fine ultimo di diritto dell’uomo (per usare le parole di Sofia Vanni Rovighi) e quindi una fondazione sicura dell’etica.

Il libro di Manni mette bene in luce alcune concezioni originali di McCabe, in particolare sul tema centrale del rapporto tra fede e ragione che, pur ispirandosi a san Tommaso, si distaccano dalle tradizionali tesi della filosofia neoscolastica o da convinzioni diffuse anche tra molti cattolici.

Provare l’esistenza di Dio

In primo luogo, per quanto riguarda la prova razionale dell’esistenza di Dio, McCabe è convinto che possa basarsi esclusivamente sulla cosiddetta Terza Via di san Tommaso (la prova ex contingentia mundi). Per McCabe è fondamentale partire dalla domanda perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla? Ovviamente non possiamo accontentarci di individuare cause del mondo di tipo scientifico, come il Big Bang, perché queste fanno già parte del mondo o dell’essere e quindi non ci dicono perché esiste qualcosa. Dunque esiste una causa del tutto che noi non conosciamo. Se la conoscessimo, essa farebbe parte dell’universo, sarebbe intramondana, e dunque non sarebbe la causa dell’essere. Quindi se ipotizziamo che questa causa sia Dio, si pone il problema della possibilità della conoscenza razionale di Dio. Dio non si può conoscere con la ragione. E nemmeno con la fede, che però ci aiuta, secondo McCabe, a evitare di cadere in tentazioni antropomorfiche.

Ne consegue una diversa concezione della Creazione, fondata sul pensiero di Tommaso, ma per certi versi sorprendente. Per McCabe la creazione è un evento extramondano; Dio e l’universo non sono due enti (già l’Aquinate ci ricordava che con la ragione non possiamo dimostrare che l’universo ha avuto inizio nel tempo) e dunque ne consegue che la creazione non produce cambiamenti nel mondo e quindi nell’universo non vi è alcuna traccia dell’azione di Dio. Se vi fosse, o se fosse conoscibile qualche traccia dell’azione di Dio, Dio sarebbe una causa all’interno dell’universo. Per McCabe è ingenuo e antropomorfico pensare di poter cogliere qualche conseguenza nella realtà dell’azione di Dio, così come noi possiamo, ad esempio, capire che c’è stato un terremoto esaminando le distruzioni che esso ha prodotto.

In altre parole McCabe è convinto che la prova cosmologica (ad esempio la Quinta Via di Tommaso) sia un ragionamento inconsistente. La cosa ci sorprende. La neoscolastica contemporanea lo ritiene invece valido, così come gran parte dei credenti. Lo stesso Kant aveva definito nel periodo precritico la prova cosmologica «l’unico argomento possibile per la dimostrazione dell’esistenza di Dio». Il filosofo, teologo e pastore anglicano William Paley, nel Settecento, aveva sostenuto che essa era l’argomento più plausibile e convincente, apprezzato anche da Newton. Aveva introdotto la celebre analogia dell’orologio: se trovo per terra un orologio, sono convinto che ci sia stato un orologiaio che a suo tempo l’abbia costruito, anche se non so chi sia. Lo stesso Richard Dawkins, biologo e divulgatore scientifico, uno degli autori più letti nel nostro tempo, per confutare le tesi del creazionismo e per sostenere all’opposto il carattere cieco e non finalistico dell’evoluzione, fonda tutti i suoi ragionamenti su una critica ampia e stringente alla prova cosmologica. Il lettore rimarrà certamente sorpreso nel constatare come McCabe condivida nella sostanza le confutazioni di Dawkins, salvo un punto, che però è fondamentale. La prova cosmologica non è l’unico argomento possibile per dimostrare l’esistenza di Dio.

L’antropologia filosofica

Un altro aspetto stimolante del pensiero di McCabe è l’importanza attribuita all’antropologia filosofica. Non solo perché essa è, in ultima analisi, il fondamento dell’etica, ma anche perché il filosofo inglese è convinto che il tomismo può interessare e coinvolgere gli uomini del nostro tempo proprio se in grado di spiegare e giustificare una propria coerente antropologia, capace di confrontarsi e di confutare altre visioni antropologiche diffuse, come il marxismo, l’esistenzialismo, il positivismo e anche le forme di dualismo neocartesiano, che tra l’altro sono diffuse anche nelle visioni di molti cristiani che concepiscono l’anima come qualcosa d’invisibile e immortale presente nel nostro corpo e distinto da esso.

McCabe sviluppa la sua antropologia filosofica nell’ambito di una visione d’insieme profondamente influenzata da Wittgenstein. L’uomo è caratterizzato dal possedere un linguaggio verbale e ogni ragionamento e pensiero si articola e si sviluppa dentro le regole del linguaggio, che è intersoggettivo. È una prospettiva chiaramente anti positivistica e anti riduzionistica (il cervello non è l’organo del pensiero, la mente non è il cervello). Semmai è una concezione compatibile con la teoria dei tre mondi di Popper, secondo cui il “mondo Tre” (le teorie, le opere d’arte, ecc.) è intersoggettivo, come il linguaggio o anche con la teoria freudiana del super-io, anch’esso intersoggettivo.

In ogni caso McCabe ritiene che questa prospettiva sia pienamente coerente con l’insegnamento aristotelico e tomistico rettamente inteso. Le sensazioni, i ricordi, le fantasie sono particolari e individuali, ma l’uomo può astrarre, formare e usare i concetti universali, che sono linguistici e intersoggettivi, cioè può pensare, dedurre, ragionare, costruire teorie nel linguaggio. Il concetto è per natura universale e comunicabile, cioè pubblico; l’immagine è per natura privata, individuale, eventualmente comunicabile solo attraverso la mediazione del linguaggio, cioè degli universali. Pertanto quell’intelletto non materiale e separato sul quale, dopo Aristotele, molti pensatori hanno scritto, pensiamo in particolare alla tradizione averroistica, non è  né Dio né  un’intelligenza angelica, perché non è  altro che la parte non materiale del linguaggio umano, o, almeno, delle diverse  lingue storiche  che, sebbene diverse l’una dall’altra, possono essere tradotte l’una nell’altra. Se un concetto fa parte del linguaggio, esso svolge un ruolo all’interno di un sistema o di una struttura che,  come tale, non è materiale.  Questo ruolo  nella struttura è effettivamente correlato a segni materiali, ma in modo libero: il  nostro concetto  di mela è  il significato espresso dalla parola “mela” o dai sinonimi;  benché sia ​​impossibile avere un concetto prima di avere parole per esprimerlo, tuttavia, parole o segni diversi possono esprimere lo stesso concetto.

Noi contemporanei, dopo Wittgenstein, analizziamo la comprensione dei concetti nell’ambito del linguaggio, mentre l’Aquinate analizza il linguaggio sulla base della comprensione e definizione dei concetti. McCabe è convinto che questa non sia una grande differenza, tuttavia ritiene che l’analisi del  XX  secolo  sia un  miglioramento rispetto a quella del XIV  secolo.

Il libro di Manni illustra in maniera chiara molti altri snodi del pensiero di McCabe, dallo status dell’ontologia, al problema del male nel mondo, ai fondamenti dell’etica, per poi analizzare nell’ultima parte del libro la teologia rivelata, la cristologia e la concezione della Trinità del filosofo inglese. Tutti temi che non possiamo qui nemmeno sfiorare, ma che siamo certi risulteranno utilissimi al lettore per comprendere la complessità e la grandezza di questo protagonista del pensiero contemporaneo.

di Maurilio Lovatti