La riflessione per la Domenica in Albis di Mons. Brambilla, Vescovo di Novara sul notissimo dipinto di Caravaggio che porta il titolo: Incredulità di san Tommaso

Incredulità di san Tommaso (Caravaggio) - Wikipedia

Il punto d’avvio della  riflessione è il notissimo dipinto di Caravaggio che porta il titolo: Incredulità di san Tommaso.  “Osserviamo la scena di questa icona. Chi conosce un po’ Caravaggio sa che questo pittore è l’inventore della luce. Allora, per un momento non fermiamoci sui personaggi, ma sulla luce del dipinto, che è concentrata sui volti e irrompe come dall’alto irradiando il corpo/costa­to di Gesù. La luce rimbalza sul volto dei tre discepoli. Ecco, la ferita del costato è come un varco che raccoglie la sorgente misteriosa della luce. È come una finestra aperta. Aperta su che cosa? Vorrei farvi sentire per un momento il roveto ardente da cui dobbiamo sempre di nuovo partire. E tutto il resto che diremo e faremo non potrà che essere attratto da questo varco, che è uno squarcio sul mistero santo di Dio. Per capire tutto ciò bisogna fermarci brevemente sulle tre menzioni di Tommaso nel vangelo di Giovanni. Voi sapete che Tommaso non compare per la prima volta quando viene descritta questa scena. Nel vangelo di Giovanni questo è già il terzo intervento di Tommaso. La prima volta nella quale compare Tommaso è al cap. 11 del vangelo di Giovanni, nel contesto della resurrezione di Lazzaro, quando Gesù si trova ancora in Galilea e viene raggiunto dalla notizia che Lazzaro è morto. Gesù si trattiene ancora due giorni in Galilea predicando: “non è ancora giunta la sua ora”. Sembra quasi dover attendere il terzo giorno. A un certo punto, Gesù si muove, viene a dire ai discepoli: “Orsù andiamo da Lui”. Tommaso commenta (attenzione le parole con cui appare per la prima volta Tommaso ce ne danno un’immagine del tutto diversa da quella che abbiamo in mente): “Andiamo a Gerusalemme a morire con lui” (Gv 11,16: «Allora Tommaso, chiamato Didimo, disse ai condiscepoli: “Andiamo anche noi a morire con lui!”»). Tommaso non appare un tipo dubitoso, è tutt’altro che un incredulo. Si presenta come un personaggio spavaldo, capace di trascinare gli altri. Infatti, dice: «Andiamo [non “vado”, quindi vuol coinvolgere anche gli altri discepoli] a Gerusalemme [che è il centro gravitazionale di tutto l’evangelo] a morire con lui [non proprio una passeggiata…]». Dunque, vedete che Tommaso si presenta, dalla prima scena, quasi una sorta di personaggio che garantisce sull’esito del cammino che egli farà con gli altri discepoli, al seguito di Gesù. Essa è l’occasione per una prima rivelazione di Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita». Questa la prima apparizione: tutt’altro che il discepolo incredulo. La seconda comparsa di Tommaso è al cap. 14. È un brano molto noto: «“Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via”. Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”» (Gv 14,1-5). Dopo due capitoli Tommaso ha già perso la strada: “del luogo dove tu vai noi non conosciamo la via”. Lui che diceva “andiamo a morire con lui”, dopo due capitoli ha già smarrito la sua sicurezza. Vedete che la sua parabola è già in discesa. E questa è l’occasione per la grande auto-rivelazione di Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita”. Questa famosa espressione di Gesù è causata dal secondo intervento di Tommaso. La terza comparsa di Tommaso è finalmente al cap. 20. È un testo che noi conosciamo bene ed è quello raffigurato dal dipinto di Caravaggio. Purtroppo Tommaso è stato trasformato in un empirista che, se non tocca e non vede, non crede. Lo stesso Caravaggio gli fa mettere dentro il dito in un modo piuttosto violento nella piaga del costato: è il dito dell’uomo che vuole entrare nel cuore del mistero di Dio. Dice il testo (v. 24): «Tommaso, uno dei Dodici [anzitutto dice che è uno dei Dodici, uno che deve avere la fede dei Dodici, cioè la fede apostolica, quel punto dal quale tutti dobbiamo partire e al quale tutti dobbiamo tornare: essa è il roveto ardente di ogni fede futura] detto Didimo [la nuova traduzione mantiene questa dizione: “Didimo” vuol dire ‘gemello’; forse anche perché era un gemello, con l’allusione al fatto che impersona insieme il dubbio e la fede, quasi una doppia personalità, tipica di chi all’inizio dice “andiamo a Gerusalemme a morire con lui”, ma poi, quando deve decidersi per entrare nel mistero di Dio, è colto dal timore e dalla sfida del rischio] non era con loro quando venne Gesù». Narrativamente questa è la notizia da comprendere, perché tutti interpretano che Tommaso “non era con loro” perché era fuori casa, era solo assente. Il testo avrebbe potuto dire che era assente, no? Perché dice “non era con loro”? Tommaso forse si era dissociato, si era pentito. Dopo la morte di croce, è come se avesse detto: “amici, quello che abbiamo vissuto con Gesù è stato bello, però adesso è finito tutto!”. Ne abbiamo controprova di una medesima situazione esistenziale nei Vangeli della Resurrezione, ad es. nell’episodio dei discepoli di Emmaus. Scrive Luca (24,13-16): «Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo». L’evangelista Luca è uno scrittore dai tratti delicati. Si deve supporre che i due discepoli ormai tornavano a casa loro, perché avranno pensato “è stato bello, ma noi torniamo a casa, torniamo al lavoro usato, alle nostre famiglie…”. Peraltro anche i discepoli della prima ora tornano in Galilea, dove avevano lasciato la barca e il loro mestiere. Quindi molti se ne erano andati e si erano dissociati dopo la morte di croce di Gesù, una morte su cui gravava il segno della maledizione di Dio. La tradizione evangelica colora questa fuga come un “invio”: è come se dicesse: “anche quando tu fuggi, Gesù ti precede”. In Mc 16,1-8 il νεα­νίσκος, il giovane in vesti angeliche, dice: «Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che Egli vi precede in Galilea» (v. 7). Sullo sfondo c’è forse il ricordo storico che i discepoli erano tornati a casa, alla professione che avevano abbandonato per seguire Gesù… Ma anche nella fuga Gesù li precede, perché trasforma la loro (e la nostra) fuga nella sua missione. Quindi anche Tommaso non era con loro perché si era dissociato, si era pentito: aveva detto: “è stato bello, però è finito tutto!”. Tant’è vero che il racconto continua (v.26): «Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c`era con loro anche Tommaso». Il testo ripete l’espressione. Quindi Tommaso ci ha ripensato. Ci ha ripensato sulla base di che cosa? Del fatto che i discepoli lo hanno provocato con la loro testimonianza, dicendogli (v. 25): «Abbiamo visto il Signore!». Questa espressione, “vedere il Signore”, è l’espressione sintetica della fede pasquale, della testimonianza del Risorto. Siamo arrivati al punto decisivo della parabola discendente di Tommaso. Ormai ha toccato il fondo. Cosa fa, allora, Tommaso? Egli dice: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Noi che siamo figli dell’em­pirismo, leggiamo il testo spontaneamente così: Tommaso è uno che, se non tocca e non vede, non crede. Tommaso, però, non vuole semplicemente toccare e vedere Gesù, ma vuole toccare e vedere una cosa ben precisa di Lui, che il genio di Caravaggio mette in luce in modo così potente, trasformandola in una sorta di ferita per guardare la quale bisogna aggrottare tutta la fronte (guardate i volti, le ciglia e le rughe), perché non si vede con uno sguardo distratto. Anzi bisogna cercare con cura. Che cosa vuol vedere Tommaso? Vuol vedere che è risorto il Crocifisso, non solo che è risorta una vita in carne e ossa. Questo aspetto è sottolineato piuttosto nel vangelo di Luca. Ricordate: quando Gesù appare nel vangelo di Luca abbiamo una scena simile (24,36-43). Egli dice: «Avete qui qualche cosa da mangiare? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate». Ma il vangelo di Luca ci dà anche la chiave per comprendere: perché “credevano di vedere un fantasma”, immaginavano cioè la resurrezione come una vita umbratile, forse secondo la mentalità greca dell’immortalità dell’anima. Luca ha davanti probabilmente una comunità prevalentemente ellenistica, che s’immagina la continuità al di là della morte come il sopravvivere in una dimensione appunto fantasmatica, umbratile, spirituale. Allora Luca enfatizza la dimensione che noi chiamiamo corporea-fisica. Peraltro lo stesso Luca è l’unico che, nel battesimo di Gesù, afferma che la colomba scendeva σωματικóς, “in forma corporea” (3,22). Gli altri evangelisti non hanno bisogno di dire questo, perché essendo ebrei sanno che Dio si manifesta sempre anche nella sfera della sensibilità. Solo che se uno non ha lo sguardo che scruta e la fronte aggrottata non vede questa realtà, perché non si vede ciò che c’è, ma c’è ciò che si vede. Dunque Tommaso vuol vedere l’identità del Risorto con il Crocifisso. È molto importante questo aspetto teologico. Quando Gesù riappare, la scena ci riserva una sorpresa. Il testo non dice che Tommaso si accostò e mise il dito nel costato a Gesù. No, è Gesù stesso che gli dice: “vieni qui, Tommaso!”. Tommaso non obbedisce al suo desiderio, ma alla parola di Gesù, giacché solo la sua Parola può muovere il nostro sguardo. È molto impressionante questa scena, che è “narrata” pittoricamente da Caravaggio con la mano di Gesù che prende il braccio di Tommaso per mettere il suo dito dentro il proprio costato. Bellissima questa mano che prende la tua e ti introduce nello squarcio del suo cuore ferito: la tua/mia mano non saprebbe in che direzione andare, il tuo/mio dito cercherebbe altro, vorrebbe mettersi in tasca il mistero. Invece ti introduce nientemeno nello squarcio aperto sul mistero di Dio. «“Metti qua la tua mano, e non essere incredulo ma credente”. Tommaso disse: “Mio Signore e mio Dio!”». Egli vede che è risorto proprio il Crocifisso. Questa è la cosa importante, anzi è la cosa decisiva. Noi abbiamo l’idea che con la risurrezione Gesù ha sbaragliato la morte, ma non è anzitutto questo che è interessante. Gesù ha sbaragliato questa morte! Gesù non è morto di morte naturale: è la morte del Crocifisso, cioè la morte di colui che è considerato il maledetto da Dio (Dt 21,23). È la morte che tenta di dire, come hanno detto i capi sotto la croce: “Se tu sei il Figlio di Dio, scendi giù…” (Mt 27,40). Tirando implicitamente la conseguenza: “se non scendi giù, non sei il Figlio di Dio…”. Nella sua stessa espressione linguistica, questa è la forma della prima tentazione: “Se sei il Figlio di Dio, gettati giù” (Mt 4,6). È sorprendente la corrispondenza; perché questa non è solo la prima tentazione, è l’unica tentazione: la tentazione di insegnare a Dio come deve agire da Dio, la tentazione di giudicare le cose, la mia vita, noi, la chiesa, il mondo, dicendo: se c’è Dio, allora… deve essere a nostra immagine! Ricordate che noi usiamo spesso questa frase, dando per scontato che noi sappiamo come dovrebbe essere Dio. Ma noi non lo sappiamo! Dobbiamo passare attraverso la ferita del Crocifisso risorto. Dio entra nell’abisso del peccato, assume la morte come rifiuto di Dio, ci entra in modo disarmato e disarmante, ci dona il suo bene più prezioso, il suo Figlio. La morte di Cristo, la sua vita che entra liberamente (offerta) nel rifiuto degli uomini che mettono in croce (vittima), ci dice che Dio e vulnerabile, si lascia ferire dal “no” dell’uomo: e la sua ferita rimane fin nel Cristo Giudice. La Pasqua non è un optional, non è solo un gesto che Gesù fa per noi. È l’azione che rivela chi è Lui e apre lo squarcio verso il mistero di Dio. Prima abbiamo un’approssimazione a Dio, spesso una maschera di Dio, e anche dopo possono rinascere tutte le possibili maschere che noi sempre da capo ricostruiamo. Maschere o controfigure: il Dio che ci punisce, il Dio che ci premia, il Dio del sentimento, il Dio tappabuchi… Tommaso, dunque, vuol vedere l’identità del Risorto con il Crocifisso. Non è un problema credere in Dio, se Lui rimane in alto e non tocca la nostra vita. Ecco il “caso serio” della storia. Se uno non si è lasciato toccare dal Risorto, se non ha fissato lo sguardo sulla ferita del costato di Gesù, tutto il resto diventa strategia, ingegneria ecclesiastica, oppure pura filantropia sociale. La vera crisi della fede è credere che, se Dio c’è, è così, cioè ha il volto di una vita, come quella di Gesù, spesa fino alla fine, anche quando gli altri non accettano che valga la pena di essere spesa così, anzi proprio quando non riconoscono che spenderla così, portando il rifiuto e la negazione degli uomini, sia il senso della vita piena. Perché la croce vuol dire esattamente questo. Dice Giovanni: Egli li amò εἰς τέλος, fino alla fine (Gv 13,1). Purtroppo la traduzione italiana ne parla come del termine della vita: non è solo la fine, ma è il fine, il τέλος: è il vertice, la mèta, il traguardo, quel punto al di là del quale non si può più andare. Credere questo è ricevere la vita di Dio, la vita che è Dio stesso. Allora non è un credere solo con la testa, ma è un consegnare tutta la mia esistenza al fatto che la vita ha la forma di una dedizione crocefissa, di una vita donata, anche e proprio di fronte a chi non la riconosce. Perché donare la vita tra due ali di folla che applaudono è facile. La croce vuol dire, invece, questo: che gli altri non riconoscono il dono dell’amore, l’amore donato. Per questo essa si rende presente nel pane è spezzato e nel calice versato. Se sei il Figlio di Dio scendi giù… dice l’uomo di ogni tempo. I capi che sono davanti alla croce erano i responsabili della religione, gli esperti della Legge. Se non avvertiamo il carattere dirompente della sfida dei capi, viene “svuotata” la croce di Gesù. A questo punto, Tommaso proclama la più alta confessione di fede di tutto il Nuovo Testamento: «Mio Signore e mio Dio!». Non ne esiste una più alta in tutta la Scrittura; perché non dice solo “questi è il Figlio di Dio” [pochi versetti dopo dirà così l’evangelista: “Questi (segni) sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (20,31)]. No, Tommaso confessa: “mio Signore e mio Dio”, con un tratto personale e personalizzante: mio Signore e mio Dio. Egli vede l’identità del Crocifisso e del Risorto, ma crede molto di più di ciò che vede: la presenza viva e bruciante del mistero di Dio, la vita di Dio così com’è in se medesimo come decisiva per me stesso! Essa passa attraverso quella ferita e attraverso di essa possono entrare tutti coloro che guardano con lo sguardo teso e la fronte corrugata. Bisogna aggrottare la fronte, occorre fissare lo sguardo: non si vede subito! Bisogna lasciarsi mettere il braccio e il dito nel cuore di Cristo. Ricordiamolo: tutte le volte che nella vita bisognerà tenere duro e credere che la vita spesa “così” è l’ultima e la prima Parola di Dio, sarà difficile, ma sarà anche fonte di vita… Nella propria professione, nella costruzione della propria storia personale, degli affetti, dei propri incontri, della dedizione agli altri, della partecipazione alla vita della comunità, del proprio impegno di volontariato, dell’impegno sociale… alla fine la vita che conta è quella che si vede e si riceve da quella ferita. Non dimenticate che è uno squarcio, non è una fessura, è una ferita che non si rimargina più. Quando andrete la prossima volta alla Cappella Sistina, bisogna che vi fermiate un quarto d’ora da soli davanti al Cristo Giudice. Bisognerà osservare l’unica cosa che non spiegano le guide; tutti parlano del Cristo con la mano alzata nel gesto del giudizio. A partire da quella mano alzata si sviluppa una sorta di spirale che innalza i beati e sprofonda i dannati. Maria, la madre di Gesù, sarebbe lì quasi a sostenere, ma anche a difenderci, da quella mano giudicante. Pochi ricordano che la mano e il costato di Cristo hanno ancora le piaghe del Crocifisso, come segno che non può più essere cancellato. Dio non si pente della sua creatura e, se essa lo rifiuta, Egli porta sino alla fine quella piaga nel suo corpo, perché sia giudizio e salvezza. Salvezza, perché il nostro Giudice è un giudice di salvezza per chi si lascia coinvolgere da quel movimento; ed è Giudizio, perché è un giudice che lascia precipitare chi si è già escluso da quel movimento, cioè dalla carità di Dio, iscritta nei signa passionis che rimangono nel corpo vulnerato del Risorto e del Cristo Giudice. Perché nessuno guardandole possa dire: non mi ri-guardano, ma soprattutto non posso essere sanato anch’io. Su queste piaghe e sul costato apre lo sguardo il testo di Giovanni, in cui il dito di Tommaso ci introduce nel cuore della rivelazione. A questo punto voi direte: ma noi come possiamo accedere al Risorto? Se fossi stato là io – diciamo tutti così – se fossi stato là io, subito l’avrei riconosciuto. Diciamo la stessa cosa a proposito dei due discepoli di Emmaus. Scrive, infatti, Luca (24,15): «Gesù in persona si accostò e camminava con loro». Ma noi, che siamo distanti, diciamo: se fossi stato là, io l’avrei riconosciuto subito; con tutto il cammino che hanno fatto insieme! E, invece, essi non lo riconoscono. Noi trasformiamo la nostra distanza in un alibi. Diciamo: io, però, non ero presente, come i due discepoli di Emmaus, come Tommaso; sono irrimediabilmente lontano, duemila anni dopo. L’evangelista, allora, azzera la distanza, comunica subito a te che leggi il testo, che Gesù, “proprio lui” (Ἰησoûς o αùτõς), si accostò e camminava con loro. Ma i due discepoli non lo riconosceranno fino alla fine. Tuttavia, Luca ci chiama a fare i tre passi che devono compiere i due discepoli di Emmaus, ad attraversare il tortuoso cammino che fa anche Tommaso, per arrivare anche noi dove sono approdati loro. È interessante che anche per i discepoli di Emmaus, alla fine quando lo riconoscono, Gesù sparisce dalla loro vista. Vengono posti nella stessa situazione di noi, dei discepoli di seconda mano. Avete mai notato questa cosa? I discepoli sul cammino di Emmaus, allora, sono tre, non due, i due discepoli presenti e il lettore di ogni tempo: noi, tu, io, ogni lettore futuro. Luca parla al lettore, perché anche egli è uno di quelli che non erano presenti, e quindi porta nel testo la sua domanda esistenziale. Scrive il testo per rispondere anche alla sua domanda. A questo punto si può raccogliere l’ultima osservazione sul dipinto di Caravaggio, che gentilmente mi ha fatto notare il prof. Biscottini, Direttore del Museo Diocesano di Milano e che ringrazio per il prezioso suggerimento. Il Tommaso di Caravaggio non sarebbe nient’altro che la figura del pittore stesso, che drammaticamente mette – e la fa in quel modo! – il suo dito nel costato di Gesù, un Tommaso/Caravaggio vestito con la manica strappata, con la sua umanità contraddittoria, che vuol credere con la stessa fede di Tommaso. Con un effetto stupendo di sovrapposizione tra l’Apostolo spavaldo e dubbioso e il Pittore dalla vita tumultuosa che vuol diventare – supremo azzardo – credente! Allora, dopo la professione di fede di Tommaso/Caravaggio, sentiamo sorgere la domanda: “e noi che siamo distanti?” L’evangelista risponde alla domanda, proclamando la beatitudine con cui si chiude il vangelo (v. 29): «Beati coloro che, senza aver visto, crederanno!». È meglio questa traduzione (la nuova purtroppo dice “hanno creduto”), perché πιστεúσαντες è un aoristo e sopporta tutt’e due le traduzioni; ma io preferisco la versione precedente, perché il senso complessivo del testo è aperto sul lettore futuro. Il lettore di ogni tempo domanda: allora noi non vediamo più niente? Qual è il “corpo” che noi dobbiamo toccare con il dito di Tommaso? Approdiamo alla fine del nostro percorso. L’evangelista Tommaso lo spiega nel versetto seguente (v. 30): «Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro». Tutti noi interpretiamo questa espressione come un’informazione: Giovanni, ci direbbe che ha fatto una selezione dei gesti di Gesù. Ci dice però già una cosa interessante: che il suo vangelo è una selezione dei segni. Infatti, rispetto ai vangeli sinottici, risulta una selezione di segni. Ma poi aggiunge, e sentite l’insistenza: «Questi [segni selezionati] sono stati scritti». Ecco cosa tocchiamo noi oggi: non il corpo risorto di Gesù, ma il corpo della Parola, del Libro scritto. È così vero che, in tutti i momenti della storia della Chiesa dove c’è stato un accostamento forte al Vangelo di Giovanni, si è avuto il coraggio di un corpo a corpo con il Libro scritto, lì la Chiesa, ma anche il mondo, la società, la cultura, hanno aperto un varco insospettabile sul mistero di Dio: il Commento al Vangelo di Giovanni di Agostino, il Commento al Vangelo di Giovanni di san Tommaso sono capolavori che aprono un orizzonte sul Deus charitas est, la stessa Fenomenologia dello Spirito di Hegel ha – dicono gli esperti – una struttura giovannea. Toccare il corpo della Scrittura, del Libro, è l’altro modo, quello che è lasciato a noi, insieme al Corpo eucaristico, per poter confessare il “mio Signore e mio Dio”. È “l’unica mensa della parola e del pane” (DV 21). Dovremmo tradurre: “beati coloro che, senza aver visto come Tommaso, ma leggendo e gustando il Libro, crederanno”. Ecco, questo è il segno che è lasciato a noi, questi “segni scritti”, il corpo della Scrittura. Ma qual è per noi il vantaggio del fatto che siano scritti? In questi segni è contenuto sia il percorso di chi l’ha fatto la prima volta, sia insieme la mappa, la “scrittura” come “segno”, cioè con gli indicatori per non perdersi. Questa sera vi ho raccontato come si fa a non perdersi. I primi discepoli han dovuto fare la strada, la prima volta, da soli. Noi adesso, seguendo il racconto, abbiamo il binario per non andar fuori strada, la via per il “vedere credente” che sfocia sul mistero di Dio. Questo è il vantaggio dei segni “scritti” nel Libro. Tutta la tradizione della Chiesa ha sempre letto il Libro, cioè il Vangelo, come luogo di accesso al mistero santo. Non c’è accesso al vangelo di Gesù senza lo “scrittura” dell’Evangelo. Questo è ciò che volevo dirvi questa sera, raccontandovi quest’icona. Però al vangelo di Gesù, che è lo squarcio sul mistero santo di Dio, si accede attraverso questa ferita. Attenzione: non si può mettere in tasca il mistero, bisogna rifare sempre il cammino di Tommaso, sentire dentro di noi che potremmo anche perdere la via. Ciò che noi annunciamo, prima o poi, deve condurre a Dio attraverso questa ferita, da cui proviene la luce, che ha bisogno della mano di Gesù per trovare il varco, ha bisogno di fissare lo sguardo, aggrottare la fronte, e avere un supplemento di attenzione, di tensione, di ricerca. Bisogna cercare con cura, con metodo, per riuscire a transitare questa ferita e questo varco. Solo così nei momenti che contano sarà possibile approdare sulla sponda del mistero santo di Dio. Lì tende il nostro cuore, attraverso quel costato passa la nostra speranza, a questa sponda approda il nostro racconto, per ricominciare sempre da capo ad ogni stagione della vita. Con incondizionato amore! (Mons.  Franco Giulio Brambilla)”.

Questo Bambino. Le nostre fragilità e la certezza del Natale. La vittoria che solo vale

Natale è Dio con noi, con noi invasi dalla malinconia che ci fa sentire sbagliati, con noi perdutamente innamorati nella vita. Il neonato è l’Emmanuele, il Dio-con-noi
Le nostre fragilità e la certezza del Natale. La vittoria che solo vale

Reuters

Natale è molto più buono di quanto pensiamo! E soprattutto è davvero buono, tutt’altro che una melassa di sentimenti a poco prezzo. Certo, è buono perché ispira gratuità, induce a donare, a preparare regali e a scoprire che siamo contenti di prepararli per le persone che amiamo o che vogliamo sentano il nostro amore. Indicazione valida tutto l’anno! Ma è ancora più buono se pensiamo che il nucleo incandescente di questa irradiazione di affetti che riscalda il cuore del mondo a Natale, è il grembo di una ragazza che ha offerto tutto l’amore di Donna che aveva per dare alla luce il Figlio di Dio.

Natale è la certezza che il mistero di Dio non è l’oggetto astratto di futili dispute filosofiche, politiche, persino religiose. Futili, e anche pericolose, perché interessate a decidere la vittoria di una parte dell’umanità su un’altra. E si vince solo insieme! Futili perché Dio non lo riconosci nelle dotte istruzioni dei gestori economici della qualità della vita che, quando le cose vanno male, denunciano gli errori dei tuoi calcoli e passano all’incasso della loro buonuscita.

Natale è Dio con noi, con noi invasi dalla malinconia che ci fa sentire sbagliati, con noi perdutamente innamorati nella vita. Questo Bambino è l’Emmanuele, il Dio-con-noi. Davvero con noi. È nato e per trenta anni ci ha studiati amorevolmente (non con le statistiche e i bilanci), vivendo come noi e con noi, prima di dirci quello che doveva dirci per conto di Dio. E che doveva dirci, per conto di Dio? Doveva dirci che il mondo del quale Dio è il Signore (“il regno di Dio”) è il mondo che viviamo: quello nel quale cerchiamo come possiamo di amare e di essere amati; quello nel quale sappiamo di non essere mai all’altezza delle promesse fatte e ricevute. Il Figlio che nasce a Natale afferma: «In verità, in verità vi dico» che il più piccolo dono d’amore (fosse un bicchiere d’acqua a un estraneo) vale una vita eterna. E ci fa conoscere la vita di Dio, che ci è destinata fin dalla creazione del mondo. Nasce nel mondo perché la nostra vita nasca al cielo. Una vita nella quale la fiducia dei bambini e le speranze dei loro padri e delle loro madri, avranno un mondo infinito da abitare: dove ogni lacrima sarà asciugata e neppure una carezza verrà sprecata.

Il Natale è più che un sogno, è la carne di Dio che riveste di amore la nostra fragile carne, di Dio eterno che rivela l’amore del nostro presente.

Nel Natale di Gesù, il mistero di Dio assume una forma che chiunque può riconoscere (“chiunque”, capisci?), diventa un volto che si può decifrare, un Tu con il quale si può prendere confidenza, una carezza e uno sguardo dal quale ci si può sentire infinitamente amati. Il Natale di Dio non contiene tutte le risposte, ma ci dona il suo amore che è la risposta a tutto. Da quando Dio è uno dei nostri bambini, nessuno osi mortificare il più piccolo dei nostri figli. Dio è nel suo volto. Il Vangelo narra la nascita di Gesù e rivela la causa per cui Maria è costretta a partorire in una mangiatoia: «non c’era posto per loro nell’alloggio» (Lc 2,7). Questo non smette di stupirci, commuoverci, interrogarci. È proprio quello che accade in tante situazioni di fragilità di donne, uomini, piccoli, famiglie del nostro tempo. Ne condivido tre.

Penso anzitutto alla fragilità della pace. Viviamo il primo Natale di guerra in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ci coinvolge tutti e capiamo quella «guerra a pezzi» di cui da tempo parlava papa Francesco. Poco ascoltato. Guerra significa dolore, morte, devastazione del territorio, fuga di chi cerca riparo lontano da casa. La guerra è il punto di deflagrazione: ma la pace manca pure dove i diritti vengono calpestati e dove chi li cerca o li difende cercando una società più giusta e libera viene condannato a morte.
Penso alla fragilità dell’educazione. La povertà economica risucchia nel suo vortice una fetta sempre più ampia della popolazione.
Ma c’è anche la povertà meno evidente ma ugualmente grave della scuola che a fatica sta riprendendosi dopo i mesi terribili della pandemia. Scuola significa socializzazione, ascensore sociale, consapevolezza di sé, dignità. Ai giovani dobbiamo garantire il merito che è possibile per ciascuno, la cultura per capire il mondo, l’umanesimo per non diventare bruti, le competenze intellettuali, la crescita nella capacità di relazionarsi, i mezzi stabili per costruire insieme un mondo migliore. Quanti giovani si sentono e sono spesso soli, incerti, sempre precari? Questo è il tempo di genitori, di insegnanti, di educatori e di pastori maturi, che sappiano essere veri maestri di vita e aiutino a credere al futuro.

Infine, penso anche alla fragilità dell’evangelizzazione. Il Cammino sinodale, giunto al suo secondo anno, rivela certo anche tante fatiche, debolezze, a volte il desiderio nostalgico di tornare a come eravamo prima del Covid, l’incertezza di risposte non più sufficienti. Il cammino sinodale ha significato anche l’occasione perché il Vangelo parli di nuovo a tutti i nostri compagni di strada e ispiri la scelta di costruire comunità umane, case che siano la famiglia di Dio, Chiese domestiche, di comunione e di servizio ai poveri. Era proprio questo il programma del Concilio Vaticano II.

Certo, sentiamo tante fatiche e stanchezze, ma è questa la stagione in cui la Chiesa sia davvero missionaria e generi l’incontro tra Dio e ogni uomo e donna. Guardiamo Gesù Bambino nella mangiatoia, Maria e Giuseppe accanto a lui. E risuonano le parole di san Paolo: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Ecco il Natale, la pace che disarma i cuori, l’amore che dona forza e intelligenza la speranza che libera dalla rassegnazione e mette in cammino. Partiamo proprio dalle fragilità per riconoscerci umili, deboli, ma capaci di grandi cose perché pieni del Dio che si pensa per sempre con noi.

Avvenire

Avvento / La profezia che domanda ascolto…


Provare a interrogare la qualità del nostro ascolto, secondo una bella pagina di Bonhoeffer, in un tempo di Avvento in cui siamo invitati a scrutare l’azione dello Spirito
vinonuovo.it

In questo tempo di Avvento, in cui risuonano parole di antichi profeti, mentre il tempo che attraversiamo è segnato dalla sete e dalla ricerca di parole e gesti che indichino un presente vivibile e un futuro di speranza, siamo spesso invitati alla vigilanza e, di conseguenza, all’ascolto. Sempre la profezia domanda ascolto ma, spesso, non lo trova. Eppure non si chiude l’invito all’ascolto, che torna con insistenza nella Parola: «Ascoltatemi, voi che siete in cerca di giustizia, voi che cercate il Signore» (Is 51,1). Così l’invito è a scrutare, a porgere orecchio, per cogliere l’azione di Dio nella storia: «Udranno in quel giorno i sordi le parole di un libro; liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno» (Is 29, 18). Difficile, molto difficile l’arte dell’osservare, del cogliere e del rac-cogliere.

Varrà la pena, forse, chiederci allora come è la qualità del nostro ascolto e anche, con lealtà, interrogarci se per caso abbiamo sete di profezia senza però aver il coraggio, il desiderio, la forza di metterci in ascolto della storia che abitiamo e delle relazioni che viviamo. La profezia si innesta là, nella vita quotidiana, e per accoglierla serve un orecchio attento.

«Il primo servizio che si deve agli altri nella comunione, consiste nel prestar loro ascolto»: così scriveva Dietrich Bonhoeffer in Vita comune (1937), quando la Gestapo aveva chiuso la fraternità di Finkenwalde. Prestare ascolto è ufficio primo del cristiano, dunque: per ascoltare Dio, gli altri e se stessi, secondo la classica triplice direttrice. «Chi non sa più ascoltare il fratello, primo a poi non sarà più nemmeno capace di ascoltare Dio, e anche al cospetto di Dio non farà che parlare. Qui comincia la morte della vita spirituale»: mentre le nostre giornate sono prese molto spesso dal parlare, dal dire, dallo scrivere, e mentre l’ascolto spesso si riduce ad ascoltare distrattamente vocali mandati al cellulare, una sosta silenziosa sulla consapevolezza dell’ascolto potrebbe essere un buon esercizio di Avvento, interrogandoci davvero sulla differenza tra sentire e ascoltare. Anche nella preghiera.

«C’è anche un modo di ascoltare distrattamente, nella convinzione di sapere già ciò che l’altro vuol dire. È un modo di ascoltare impaziente, disattento, che disprezza il fratello e aspetta solo il momento di prendere la parola per liberarsi di lui»: descrive bene qui, Bonhoeffer, l’atteggiamento di troppi cristiani, che già sanno, che già hanno le risposte, non raramente a domande che nessuno ha posto; troppi cristiani che sentono già pensando a dove sta l’errore, a dove è lo sbaglio da correggere. Troppi cristiani che hanno da insegnare il contenuto, nella paura che si perda le verità, senza auscultare i battiti esistenziali della persona che hanno davanti. Non così Gesù di Nazareth, che si invita a casa di Zaccheo prima della sua conversione, e che non chiede nulla al disonesto esattore delle tasse.

In Avvento la Parola ci invita alla vigilanza e all’ascolto: con una vera metanoia esistenziale potremmo essere capaci ancora di scorgere i segni dei tempi e i segni delle nostre vite, soprattutto oggi, quando le parole abbondano, dove la comunicazione è pervasiva. Dire poco, maturare il silenzio, radicarsi nell’ascolto come tensione verso l’umanità e Dio.

BIBBIA E LITURGIA La porta stretta: apre o chiude?

di CHIARA GATTI
Questa è l’ottica angusta dell’uomo di sempre, che per essere trasformata ha bisogno di passare per la porta stretta della rinuncia al proprio punto di vista.

in vinonuovo.it

C’è un grande respiro nelle letture che la Chiesa ci propone questa domenica! Eppure a qualcuno di noi, invece, potrebbe mancare un po’ l’aria, forse potremmo sentire un certo senso di oppressione se consideriamo alcune espressioni con cui Gesù risponde alla fatidica domanda dell’uomo di sempre, qui posta da “un tale”, quindi da un qualcuno che potrebbe essere ciascuno di noi.

E la domanda è “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Di per sé, a me pare, il quesito è già viziato in partenza. Ben altra portata aveva avuto nel Vangelo di Matteo la domanda dei discepoli, dopo l’episodio del giovane ricco che se ne era andato via triste: «Chi si potrà dunque salvare?». Là Gesù aveva risposto: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile». Credo infatti che non si possa capire fino in fondo il vangelo di oggi, se non teniamo conto anche di quest’altra risposta di Gesù che apre all’idea dell’infinita misericordia di Dio nei confronti di ogni uomo, ma soprattutto della sua immensa e straordinaria capacità di sguardo ben diversa da quella ristretta degli apostoli qui e di quel “tale”.

Quell’uomo infatti sembra già mettere la risposta in bocca a Gesù, usando il pronome “pochi”. E possiamo partire da qui: poco forse è quello che concepisce l’uomo, quando pensa da solo, e per quanto si sforzi, pensa sempre in piccolo; se abbandonato a se stesso, sembra non riuscire nel dilatare i propri polmoni, come dicevamo all’inizio. Il Signore infatti a questa domanda, a mio avviso così mal posta e già maliziosa, risponde con una serie di immagini e metafore che solo all’apparenza possono incuterci la paura del giudizio e di una dannazione senza scampo.

C’è un’ottica, invece, che Gesù ci chiede di adottare, parlando di quella porta stretta, ed è la proposta di entrare, certo attraverso un passaggio angusto, nell’immensa ottica del Padre, che ci vuole tutti felici, tutti salvi, cioè tutti con Lui in un progetto di salvezza comune che non escluda nessuno.

E di questo ci parla proprio la Prima lettura, dove alla fine del libro di Isaia ci viene presentata una luminosa chiamata a raccolta di tutti, in una visione finale quasi apocalittica, di una nuova Gerusalemme rigenerata. Chiediamoci allora se riusciamo a credere che quella salvezza sia proprio per tutti. Infatti, in questa lettura, già il popolo di Israele era ritornato dalla terribile prigionia babilonese, e qui ci appare come questa esperienza lo abbia condotto ad abbassare un po’ la cresta. Ora quindi deve riabituarsi a vivere nella propria terra, ma senza più quell’orgoglio e ristretta convinzione di essere l’unico eletto per la salvezza. Proprio su questo infatti insiste il profeta Isaia: l’idea che esistano solo alcuni prescelti che possono salvarsi, e un verbo spicca su tutti: “radunare”!

C’è un grande movimento in entrata ed uscita in quella nuova Gerusalemme, il luogo bello di pace che ancora oggi ognuno di noi si augurerebbe di abitare già su questa terra. E così vengono descritti i superstiti da quel triste esilio che è stato Babilonia, i quali vanno a parlare della bellezza di Dio a tutti, fin nelle isole lontane, a coloro che ancora non hanno visto la gloria del Signore, mentre poi anche gli stessi ebrei, osservanti ed eletti, saranno riportati indietro nella terra promessa proprio da fratelli pellegrini appartenenti ad altre genti, anch’esse radunate e raccolte.

Come non pensare qui alla stessa etimologia della parola “chiesa” che significa proprio “raccolta, raduno…”, quella raccolta che tante volte dimentichiamo, arroccandoci nel nostro diritto di essere cristiani con la precedenza forse proprio perché ci sentiamo più vicini al sacro, più osservanti, proprio come quel popolo rientrato da Babilonia, dove però la certezza dei primi della classe aveva cominciato a vacillare.

Questa è l’ottica angusta dell’uomo di sempre, quella che per essere trasformata ha bisogno di passare per la porta stretta della rinuncia al proprio punto di vista, spesso presuntuoso e supponente. E noi, riusciamo a farlo questo passaggio? Se ancora in questo vangelo ci vengono presentate immagini di persone rifiutate quando ritornano dal padrone di casa, è forse perché non hanno sposato l’infinita magnanimità di chi non fa elenchi di esclusi.

E il paradosso sta proprio qui: un vangelo che parla tutto di apparente esclusione e punizione è invece un inno all’apertura, all’inclusione più estrema di ogni uomo che abbia insistentemente cercato la costruzione del bene comune. Di ogni uomo che abbia custodito la coscienza di essere fratelli e di valere ugualmente, anche aldilà della stessa consapevolezza di essere figli dello stesso Padre.

Isaia infatti ci annuncia quasi una bestemmia per l’ebreo religioso osservante: anche tra essi (tra gli stranieri, quelli delle isole lontane) mi prenderò leviti. La porta stretta è dunque cominciare a passare per l’idea che possiamo essere tutti sacerdoti e leviti, perché il sacro è dato in mano (questa l’etimologia prima della parola “sacerdote”) a tutti gli uomini e donne di buona volontà che vogliono vita e pace per tutti e non si sentono superiori agli altri per questo.

Natale. A Betlemme con don Tonino Bello

Santi, mistici, poeti ci accompagnano nel cammino verso il Santo Natale. A partire dallo sguardo al presepe, che spiega il Papa, “è come un Vangelo vivo”

a Natività affrescata da Giotto nel transetto destro della Basilica inferiore di San Francesco d'Assisi

(la Natività affrescata da Giotto nel transetto destro della Basilica inferiore di San Francesco d’Assisi)

Il Natale ispira da sempre mistici e poeti. Lo stupore davanti alla follia d’amore di un Dio che decide di farsi uomo, fa cantare e invita alla preghiera. Per capirlo basta fermarsi un attimo in silenzio davanti al presepe. Scrive il Papa nella Lettera apostolica “Admirabile signum”: «Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui».

In una delle sue pagine più note dedicate al Natale don Tonino Bello il vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi e presidente di Pax Christi morto nel 1993 a 58 anni, scrive, ispirato:

(…) Andiamo fino a Betlemme, come i pastori. L’importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso. Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi della onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove Egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.
Mettiamoci in cammino, dunque, senza paura. Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con Lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.
Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte e illuminato di stelle.
E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.

La riflessione. Tempo di fiamme e poesia (Per il Natale che viene)

La logica estrema del dono ha la sua paradossale e sovrana radice nel giorno dello Straniero Bambino
Da Avvenire

In alto: Marco Lodola, “Natività”, 2021. Scultura luminosa scatolata, in lamiera verniciata di nero illuminata con led e decorata con pellicole colorate. Dalla mostra Admirabile signum, a La Spezia

In alto: Marco Lodola, “Natività”, 2021. Scultura luminosa scatolata, in lamiera verniciata di nero illuminata con led e decorata con pellicole colorate. Dalla mostra Admirabile signum, a La Spezia – Collezione Fondazione Carispezia
Credo che moltissimi tra noi siano rimasti trasecolati dall’esortazione della Commissaria europea all’Uguaglianza, poi formalmente ritirata, a non utilizzare più parole come Natale o Maria per non offendere chi non è cristiano. Non penso che saranno molti ad ascoltare questa perorazione quando, ora che torna il momento di scambiarci gli auguri natalizi, ma non mi sembra tempo perso sostare un attimo col pensiero su ciò che il Natale, per fortuna, continua a significare per noi.

Quale festa sa ancora creare nel mondo – buona parte del mondo, non solo l’Occidente – le risonanze, gli echi, le vibrazioni, le luci, gli aloni del Natale? Nonostante gli attentati allo spirito dello stupore e del dono prodotti senza tregua dalla civiltà del banale e del disincanto, dai colpi di maglio dell’abitudine e dal duro pane del nonsenso quotidiano (fino all’assedio del Covid-19), il Natale resiste come un castello di sogni leggerissimo ma imprendibile nella sua essenza, come l’isola che non c’è di tutte le utopie, come la montagna incantata della bellezza più limpida e tenace. A ogni nuovo Natale che si avvicina quanti sono gli esseri umani toccati da un sentimento di sollievo, grati a una festa capace, nonostante tutto, di farli respirare, di liberarli, almeno per qualche giorno, dai virus dell’angoscia, dell’amarezza, dello spleen? Certamente milioni. Eppure molte persone fra noi non “sentono” il Natale, o nutrono nei suoi confronti dubbi, sospetti, indifferenza, disagio. È in primo luogo per loro che il grande teologo Karl Rahner nel 1962, cioè in un momento in cui l’Occidente era percorso dall’euforia di un rinato benessere materiale, scrisse: .

Per parte mia non ho dubbi: coloro che non sentono, che non “capiscono” il Natale sono gli stessi che non amano la poesia, che non intendono come la poesia non sia un lusso ma un bisogno primario per l’anima. Simile alla carità nella sua forza profonda – nella sua capacità, per dirla con Paolo di Tarso, di perdonare, credere, sperare senza riserve –, la poesia resiste a ogni genere di distruzione perché sa cogliere “l’altro lato” della realtà, il nocciolo segreto della vita, la ricchezza delle cose anche più comuni. Ogni vera poesia è, in germe, una specie di vangelo, cioè un annuncio del carattere miracoloso del mondo: i grandi poeti, da Francesco d’Assisi a Giovanni Pascoli ad Attilio Bertolucci, sanno ricordarci il miracolo supremo – il fatto che il mondo esiste, che non c’è solo il nulla – con parole spesso semplicissime, con immagini che sembrano fiorire dal lapis di un bambino. A sua volta l’annuncio dei Vangeli è essenzialmente poesia: Cristo non è solo un filosofo rivoluzionario (un maestro in grado di pensare in modo radicalmente “altro”, come ha evidenziato Frédéric Lenoir in uno splendido libro), è soprattutto uno straordinario poeta. Cosa ci rivelano le sue parole, le sue metafore, i suoi apologhi? Forse il senso ultimo del suo insegnamento è inattingibile, ma almeno questo è chiaro e comprensibile a tutti: che nel Regno di Dio le cose e le creature più sublimi sono le più piccole, fragili e inappariscenti: che la Verità sfugge ai concetti, alle idee rigide, alle categorie (ecco perché in certi momenti il modo migliore per testimoniarla è il silenzio): che c’è un legame essenziale tra il visibile e l’invisibile, la realtà e l’Altrove, la povertà e la ricchezza, la morte e la vita. Di questa immensa rivelazione il Natale è il fulcro, il punto di convergenza e di irradiazione, il “fuoco” vivo, la fiamma umilissima e abissale. Nel racconto natalizio di Luca trionfa ciò che i giapponesi chiamano wabi: la bellezza del frugale e del povero, la gloria dello spoglio, del minimo, della nudità, del delicato, del nascosto. Mostrare, come fa il racconto del Natale cristiano, che nell’ombra si manifesta la luce più grande (quella che nel Prologo del Vangelo di Giovanni riapparirà nella sua splendente purezza metafisica) è possibile solo nel vortice inebriante, rapinoso del paradosso. Nessun messaggio, nessuna creazione è così profondamente paradossale come la poesia evangelica, e così capace di far fluire lo spirito del paradosso in altri testi, in altre poesie, in altre creazioni. Da Efrem il Siro che nel suo inno sulla Natività scrive fino all’Andrej Rublëv che dipinge la culla del Dio neonato con la forma di un sarcofago; dai cortocircuiti teologici del Paradiso dantesco () fino all’Ungaretti che in una poesia del Sentimento del tempo evoca un Dio piccolo e sorridente () come figura suprema di quei momenti in cui , cos’è stata la vicenda dell’arte, della letteratura e della musica cristiana se non una straordinaria Via del Paradosso?

Il Paradosso è traboccato oltre i domini della creazione estetica, ha invaso anche le sterminate terre dell’esperienza mistica. Ma nemmeno le cattedrali della filosofia ne sono rimaste immuni. Per uno dei più mirabili filosofi cristiani, Agostino d’Ippona, , secondo la folgorante sintesi di Jeanne Hersch. Per Lev Šestov, spirito intrepido e ribelle, ostinatamente dissidente nella storia della filosofia moderna, segnato dalla Bibbia in un modo tutto suo, sono i risvegli improvvisi da quel sonno che ci rinchiude nell’illusione della ragione.

Il carattere, paradossale fino alla provocazione, dello spirito cristiano è sempre stato scandalo per il mondo, ma i Vangeli ci dicono che solo chi non è disposto a spingersi fuori, lontano dalle abitudini, affidandosi alla “lucida manía” dei profeti, può credere che la via inaugurata dal Natale sia soltanto una forma di follia. Certo, il Dio che Cristo ci ha rivelato non è solo il bambino indifeso, dolcissimo del presepe ma anche lo Straniero, . (Questo aspetto di Cristo è stato colto assai bene da Pasolini nel suo “Vangelo secondo Matteo”: qui Gesù non è solo umanissimo e ; spesso la sua predicazione ha qualcosa di irto, di lancinante e quasi di selvaggio anzitutto per gli apostoli.) Ma lo Straniero è anche il Dio vicinissimo a noi, colui che ci salva con la forza inaudita della gratuità, con la bellezza del dono puro, senza perché.

L’aspetto più autentico del dono in certe culture arcaiche è, secondo Marcel Mauss, il suo carattere eccessivo, cioè la tendenza del donatore a dare “tutto” ciò che possiede, senza temere di rovinarsi. Sommersi dai vacui eccessi del consumismo, storditi dalle troppe offerte di oggetti da acquistare, soprattutto nel periodo natalizio, non siamo più in grado di capire la generosità, la magia, la poesia umana delle forme “primitive” di eccesso. Il Dio dei Vangeli, però, pratica proprio l’eccesso senza misura nel momento in cui dona: se interviene a un pranzo di nozze, come a Cana, offre ai commensali una quantità enorme di vino (secondo le indicazioni di Giovanni potrebbero essere stati più di settecento litri); se uno degli esseri più reietti, un brigante crocifisso, ha un disperato bisogno del suo perdono, glielo concede subito, addirittura gli schiude il Paradiso senza chiedergli nulla in cambio.

Tenersi pronti all’incontro con un Dio che si china sull’uomo

XIX Domenica Tempo ordinario – Anno C

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno.
Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.
Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (…).

Tre volte è ripetuto un invito: siate pronti, tenetevi pronti. A che cosa? Allo splendore dell’incontro. E non con un Dio minaccioso, ladro di vita, che è la proiezione delle nostre paure e dei nostri moralismi violenti; ma con l’impensabile di Dio: un Dio che si fa servo dei suoi servi, che «li farà mettere a tavola e passerà a servirli». Che si china davanti all’uomo, con stima, rispetto, gratitudine. Il capovolgimento dell’idea di un Dio padrone. Il punto commovente, sublime di questa parabola, il momento straordinario è proprio quando accade l’inconcepibile: il Signore si mette a fare il servo, si pone a servizio della mia vita!
Ed ecco Gesù ribadire, perché si imprima bene, questo atteggiamento stravolgente del Signore: «E se giungendo nel cuore della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro». E passerà a servirli. Perché è rimasto incantato.
Che i servi restino in attesa, svegli fino all’alba, non è richiesto; è “un di più” non dettato né da dovere né da paura, si attende così solo se si ama e si desidera, e non si vede l’ora che giunga il momento degli abbracci: «Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore». Un padrone-tesoro verso cui punta diritta la freccia del cuore, come fosse l’amato del Cantico: Dormo, ma il mio cuore veglia (5,2).
Per il servo infedele invece il tesoro è il gusto del potere sugli altri servi, approfittando del ritardo del padrone «cominciare a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere, a ubriacarsi».
Per quel servo, che ha posto il tesoro nelle cose, l’incontro alla fine della notte con il suo signore sarà la dolorosa scoperta di avere mortificato la propria vita nel momento in cui mortificava gli altri; la triste sorpresa di avere fra le mani solo il pianto, i cocci di una vita sbagliata.
La nostra vita è viva quando coltiva tesori di speranze e di persone; vive se custodisce un capitale di sogni e di persone amate, per le quali trepidare, tremare e gioire.
Ma ancora di più il nostro tesoro d’oro fino è un Dio che ha fiducia in noi, al punto di affidarci, come a servi capaci, la casa grande che è il mondo, con tutte le sue meraviglie.
Che fortuna avere un Signore così, che ci ripete: Il mondo è per voi! Potete coltivarne e goderne la bellezza, potete custodire ogni alito di vita. Siete custodi anche del vostro cuore: coltivatelo al gusto del bello, alla sete della sapienza.
Mio tesoro è il volto di Dio, l’immagine straordinaria, clamorosa, che solo Gesù ha osato: Dio nostro servitore, che ha nome Amore, pastore di costellazioni e di cuori, che viene, chiude le porte della notte e apre quelle della luce, ci farà mettere a tavola, e passerà a servirci, le mani colme di doni.
(Letture: Sapienza 18,6-9; Salmo 32; Ebrei 11,1-2.8-19; Luca 12, 32-48).

Avvenire