Il racconto. Dino, la farfalla e il castello senza tempo

L’unica favola per bambini scritta da Bufalino torna in libreria con una introduzione di Nadia Terranova e le illustrazioni di Lucia Scuderi. Una storia magica sulla noia, la morte. E quindi, la vita

Una illustrazione di Lucia Scuderi per la 'Favola del castello senza tempo' (Bompiani)

Una illustrazione di Lucia Scuderi per la ‘Favola del castello senza tempo’ (Bompiani)

avvenire

Favola del castello senza tempo.
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«Cugnu, Cutugnu, Bacalanzìcula ». La formula magica per entrare nel mondo incantato di Gesualdo Bufalino è questa. Tre parole di musicalità immaginaria, un «Apriti sesamo » a modo suo. E la favola comincia. «Una volta un ragazzo di nome Dino entrò in un bosco nero. Era stata una farfalla a tirarselo dietro con la lusinga dei suoi colori, una farfalla quale lui non aveva mai visto». È una Acherontia atropus, una falena che sul dorso ha una macchia a forma di teschio: un nome che origina dal fiume Acheronte che conduce all’Aldilà e dal mito di Atropo. Eccolo Bufalino, don Dino per gli amici, sempre lì a “giocare” con la morte – «il più cocciuto dei fatti» – come per esorcizzarla, anche quando per la prima e unica volta si cimenta in un testo espressamente dedicato ai lettori più piccoli: la Favola del castello senza tempo, una chicca che in occasione del centenario della nascita dell’enigmatico scrittore siciliano Bompiani pubblica con una accurata introduzione di Nadia Terranova a cui si deve la riscoperta dell’opera e con le superbe illustrazioni di Lucia Scuderi.

Ad animare questo viaggio nella fantasia è una domanda che suona più o meno così: cosa c’è peggio della morte? E la risposta: il «non morire». Restare sospesi in uno stato di immobilismo, condannati all’immortalità, «da un signore invisibile che ci ha voluto eterni, per non essere solo nella sua sterile eternità», che nega «fame e sete». Nel castello senza tempo abitano «i più antichi uomini scampati al diluvio», «creati quando ancora non c’era il tempo», che «non invecchiano mai, non si corrompono mai», non conoscono «riso né lacrime», il loro «stato è di pigro appagamento, di monotona inappetenza», prigionieri dunque del tempo che lì non fa il suo dovere. «Ora può dirsi, questo, felicità? Sapessi cosa non daremmo per una spina di passione, un amore un odio, uno strazio, una malattia!». Chi può salvare allora queste anime «condannate» a una inquieta immortalità? E come? Un bambino, di nome Dino, “armato” di tre qualità: giovinezza, coraggio e innocenza, e con tre parole magiche: « Cugnu, Cutugnu, Bacalanzìcula » (il cuneo, il melo cotogno e l’altalena, tanto per tradurre dal siciliano di Bufalino). «La favola – spiega nell’introduzione, Nadia Terranova – gli fu chiesta da Giorgio Tabanelli, regista e intellettuale, per una collana che allora curava per l’editore Cartedit, chiamata proprio “Racconti del Castello senza Tempo”, Giorgio Saviane, Mario Soldati. Tabanelli telefonò a Bufalino e lui ripose di non avere una favola nel cassetto, ma che gliel’avrebbe scritta apposta. Fu di parola, e il racconto uscì illustrato da Maria Letizia La Monica, moglie di Tabanelli, che curava il progetto grafico. Questo libro un po’ dimenticato finì quindi, insieme alle edizioni e alle traduzioni di tutti i libri di Don Gesualdo, alla Fondazione, dove mi fu mostrato da bibliotecario Giovanni Iemulo, che negli anni ha tenuto viva la memoria facendo laboratori sul testo con i bambini della provincia ragusana».

Così la Favola del castello senza tempo ora può essere narrata a tutti. Nuovamente. In quel mondo sospeso, fra la vita e la morte. Addentrarsi con Dino nel bosco e vivere la notte nel castello senza tempo prima di liberare quella anime (e pure noi) al suono del «drin drin fragoroso d’una sveglia» che al mattino fa ripartire… il tempo. Con la certezza dell’aforisma di Bufalino lasciato fra le pagine del Malpensante e che Terranova mette nell’incipit del suo testo: «I fatti sono cocciuti, la morte è il più cocciuto dei fatti». Con buona pace del “carceriere” del tempo. Un tempo tutto da vivere. Fra una notte e l’altra. Fra fiaba e realtà. Prima che arrivi Atropo. Cugnu, Cutugnu, Bacalanzìcula.

 

NOBEL PER L’ECONOMIA A PAUL MILGROM E ROBERT WILSON

HANNO MIGLIORATO TEORIA DELLE ASTE E INVENTATO NUOVI MODELLI Il Nobel per l’economia è stato assegnato a Milgrim e Wilson. Paul Milgrom e Robert Wilson sono due economisti statunitensi esperti di aste. Hanno ottenuto il riconoscimento considerato che: “le aste influenzano la nostra vita e che hanno migliorato la teoria delle aste e inventato nuovi formati di aste, a vantaggio di venditori, acquirenti e contribuenti”. (ANSA).

Nobel Letteratura. Louise Elisabeth Gluck: un’inconfondibile voce poetica

Osservatore

Louise Elisabeth Gluck nel 2012

Il Nobel per la Letteratura

Alla poetessa statunitense Louise Elisabeth Gluck, nata (il 22 aprile 1943) in una famiglia di immigrati ebrei ungheresi, è stato conferito il premio Nobel per la letteratura 2020. Nel corso della sua carriera ha pubblicato dodici antologie di poesie. Nel 1993 con la raccolta The Wild Iris ha vinto il premio Pulitzer per la poesia: è stato questo il primo di una serie di riconoscimenti culminati, giovedì 8 ottobre, con l’assegnazione, da parte dell’Accademia di Svezia, del Nobel. Nella raccolta The Wild Iris la poetessa indaga con sofferta partecipazione il rapporto tra l’umanità e la natura. In questa appassionata ricerca trovano spazio i temi della morte, della coscienza, dell’amore, analizzati sotto la lente di versi che sanno coniugare la delicatezza del tocco e il rigore e l’incisività dello scandaglio interiore. Tra i riconoscimenti ottenuti, spiccano il National Book Award per la poesia (2014) e il prestigioso titolo di poeta laureato degli Stati Uniti. Membro dell’American Academy of Arts and Letters, attualmente Luoise Gluck insegna poesia all’università di Yale. Nella motivazione del premio l’Accademia svedese pone l’accento sull’«inconfondibile voce poetica» della Gluck, la quale, «con austera bellezza rende l’esistenza individuale universale». Un talento, questo, che si era subito manifestato sin dalle prime raccolte poetiche e che è dato di riscontrare, con potente rilievo, anche nei saggi di critica letteraria da lei vergati.

Pasolini interprete di san Paolo

di: Virginia Casagrande

pasolini paolo

«Potrei parlare di UNO che è stato rapito al Terzo Cielo: / invece parlo di un uomo debole: fondatore di Chiese»[1]. Che Pasolini sia stato uno scrittore ateo ma profondamente religioso lo dimostra l’intera sua produzione. Celebre il suo instancabile bisogno di interrogare il mistero di Gesù di Nazareth, la cui traccia più sublime resta la pellicola del 1964, Il Vangelo secondo Matteo.

Meno noto invece, ma non per questo meno rilevante, è il vivo interesse che Pasolini ha mostrato per un altro personaggio fondamentale tanto per la storia del cristianesimo che per l’intera storia occidentale: Paolo di Tarso. La figura del predicatore giudeo appare una presenza costante nella sua opera, tanto che ne troviamo traccia in diversi prodotti cinematografici, narrativi e poetici, dalla fine degli anni ’40 fino alle soglie del 1975.

L’aspetto più interessante dell’interpretazione pasoliniana dell’apostolo indubbiamente emerge nell’abbozzo di sceneggiatura per un film sulla vita di San Paolo, in lavorazione dal 1966 al 1974, mai realizzato a causa della fallita collaborazione con la casa di produzione Sampaolofilm[2].

L’incompiuta paolina

L’elaborato testo di questa sceneggiatura scaturisce dal confronto tra le due principali fonti paoline: gli Atti e le Lettere. Se infatti i due testi possono essere messi a confronto in molti punti, si devono riconoscere anche notevoli discordanze. Gli Atti presentano un Paolo teologicamente più edulcorato, che tende a stemperare le radicali posizioni teologiche delle Lettere, nella prospettiva di compiacere Giacomo e la comunità madre di Gerusalemme.

Pasolini, intellettuale sagace, coglie questa tensione tra le due fonti e la estremizza nella finzione letteraria della sceneggiatura, arrivando a rappresentare Paolo come un soggetto diviso, schizofrenico come afferma Guastini[3], e a trasformare la scrittura degli Atti da parte di Luca in un’operazione ispirata da Satana. La psicosi dell’apostolo si alterna tra due poli definiti Trasumanar e Organizzar[4], o anche nel contrasto tra «il santo e il prete»[5], che rappresentano l’impossibile compromesso tra l’ascesi mistica da una parte e l’esigenza di relazionarsi con le urgenze materiali dall’altra.

Quest’ultima esigenza spinge ineluttabilmente Paolo verso l’organizzazione della Chiesa, e quindi alla fondazione funesta di una istituzione. Per questo Pasolini, d’indole fortemente anticlericale, afferma in modo veemente: «accuso San Paolo di aver fondato una Chiesa anziché una religione[6]». E ancora: «la sessuofobia, l’antifemminismo, l’organizzazione, le collette, il trionfalismo, il moralismo […] le cose che hanno fatto il male della Chiesa sono già tutte in lui»[7]. Il promotore della carità è tornato il fariseo schiavo della Legge e della norma, che è «nata dalla fede e dalla speranza / (senza carità, che è touton méizon)»[8], facendosi in questo modo complice dell’odierna ragione borghese e responsabile dell’attuale desacralizzazione del mondo.

Pasolini espone assai lucidamente come la sola alternativa a ciò sia «vivere / [al margine / delle istituzioni come un bandito»[9], avere il coraggio di accettare una lacerante condizione di orfanità, perché «le istituzioni sono commoventi, / e commoventi perché ci sono: perché / l’umanità – essa, la povera umanità – non può farne a / meno»[10].

Il sacro e l’arcaico

Il film progettato da Pasolini avrebbe dovuto traporre i viaggi apostolici nell’Europa e nell’America della fine degli anni ’30 e fine degli anni ’60 del Novecento, nella prospettiva innanzitutto di far dialogare il predicatore[11] con la moderna società imborghesita ed industrializzata e con l’istituzione cattolica ormai inetta ed obsoleta, manipolate entrambe dal nuovo potere consumistico, fascista nelle sue modalità, in cui Pasolini riconosceva l’origine della drammatica perdita del contatto con il sacro.

Recuperare questa relazione con il mistero del mondo e delle cose era forse la più pungente urgenza del poeta, come giustamente commenta Calabrese: «per il tramite della parola di San Paolo» esso, il sacro – vero e proprio «tesoro in vasi di creta» (2Cor 4,7) – «può essere ancora nominato o rievocato»[12]. L’espediente usato da Pasolini e recuperato dal Vangelo secondo Matteo consisteva nel mantenere sulle labbra dell’apostolo delle genti i discorsi delle Lettere di 2000 anni fa inalterati, nonostante gli interlocutori gli rivolgano domande «specifiche, circostanziate, problematiche, politiche, formulate con un linguaggio tipico dei nostri giorni»[13].

Pasolini manterrà nei confronti del suo San Paolo una tensione sempre viva e spesso contraddittoria tra esaltazione e condanna («io sono tutto per il santo, mentre non sono certo molto tenero con il prete»[14]), incarnata attraverso sentimenti ambivalenti, attraverso consci e inconsci movimenti di identificazione e opposizione all’apostolo.

A tale proposito è interessante segnalare una lettera privata del 1964 indirizzata a don Giovanni Rossi della Pro Civitate Christiana, caso unico in cui l’identificazione a San Paolo si fa radicalmente cosciente e radicalmente intima: «Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo […] e un mio piede è rimasto imbrigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio»[15].

P.P. e il suo doppio

Oltre al lampante richiamo al celebre episodio sulla via di Damasco, che Pasolini fa suo fino alle estreme conseguenze, questa lettera stabilisce l’inizio di una sottile linea di cucitura tra l’esperienza del poeta e quella dell’apostolo, che punto dopo punto prosegue fino alla fine della sua vita. Non a caso, alcuni studiosi hanno spesso definito San Paolo uno dei più forti alter ego dello scrittore[16], soprattutto nella sua volontà di essere oggetto di scandalo per la società. La lunga e complessa relazione con questo personaggio che compare, tra gli altri, in rilevanti lavori editi ed inediti come TeoremaMedea e Romans, si conclude nell’ultima raccolta poetica pubblicata in vita, la Nuova Gioventù edita nel 1975.

L’ultima parola di Pasolini su Paolo di Tarso risulta molto dura, ma non così distante da tutto quello che abbiamo osservato fino ad ora. Paolo «è stata la grande disgrazia»[17] dei luoghi del mito pasoliniano e questo è vissuto esattamente come un lutto, come un dolore quasi fisico «nel fondo più mio del cuore»[18]. Il mondo che percorreva il Tagliamento, il mondo dei ricordi fanciulleschi del poeta non è ormai che una «grande Chiesa grigia»[19] dove i ragazzi «sono cattivi e seri come vuole San Paolo»[20]; identità spogliate della loro ancestrale forza vitale, della loro allegria e spontaneità, in sintonia con la poetica delle Ceneri di Gramsci[21].

Il cambiamento antropologico appariva apocalittico e irreversibile agli occhi di Pasolini, al quale non restava altro modo di denunciare tutto questo che attraverso la sua penna, versificarlo sulle sue pagine d’appunti, laddove «nei suoi viaggi non è mai arrivato San Paolo»[22].


[1] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, a cura di W. Siti, Mondadori, Milano 2003, 25.

[2] A. Monge, «Rimpianto per il “Paolo” di Pasolini», in Paulus, n. 1 (luglio 2008), 66-67.

[3] D. Guastini, «Chi è San Paolo? Le risposte di Pasolini e Badiou», in Pòlemos 9 (2016), 87-105, qui 89.

[4] P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e Silvia de Laude, Mondadori, Milano 1999, 1462.

[5] P.P. Pasolini, Lettere 1955 – 1975, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1988, 639-640.

[6] L. De Giusti, Pier Paolo Pasolini. Il cinema in forma di poesia, Cinema Zero, Pordenone 1979, 156.

[7] Ibidem.

[8] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 22.

[9] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 83.

[10] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 20.

[11] P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, 1600-1601: «ai tempi nostri ma senza cambiar nulla […] restando fedelissimo alle sue lettere».

[12] G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro, Jaca Book, Milano 1994, 46.

[13] P.P. Pasolini, San Paolo, Garzanti, Milano 2017, 15.

[14] P.P. Pasolini, Lettere 1955 – 1975, 639-640.

[15] P.P. Pasolini, Lettere 1955 – 1975, 576-577. La lettera è stata pubblicata in «Rocca» del 15 novembre 1975.

[16] A. Maggi, The resurrection of the body. Pier Paolo Pasolini from Saint Paul to Sade, University of Chicago Press, Chicago 2009, 22: «This film project […] is Pasolini’s most direct and sincere self-portrait, his most explicit autobiography».

[17] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 471.

[18] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 471.

[19] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 473.

[20] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 472.

[21] P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 2013, 56: «attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta […]».

[22] P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, 472.

Settimana News

Letteratura. La memoria sulle tracce del nome di Maria

La cappella di Notre-Dame du Haut a Ronchamp progettata da Le Corbusier

Avvenire

Maria non è solo un nome, ma è ‘il nome’, per cui risulta necessario, per scoprirne l’intimità, la valenza, la forza e il significato più profondo entrare ‘nel nome’ e raccontarlo, divagando tra memoria, ricorso ai testi della tradizione cristiana e alla pittura del Medioevo, riferimenti letterari e cinematografici, perché come sottolinea l’autore, «questo libro è una testimonianza personale, non un saggio». Si tratta di una doverosa precisazione, che illumina anche la sfida che Alessandro Zaccuri ha messo in atto nel suo Nel nome (NNE, pagine 168, euro 14,00): contributo, il quarto, alla collana ‘CroceVia’, mostra la sua qualità di narratore maturo, eclettico, in grado di affrontare anche una sorta di memoir innovativo, come stile e struttura, segnato da una capacità di mettersi a nudo, senza ostentazioni, con un rigore di scrittura lucidissimo, ma al contempo aperto alle variazioni e agli improvvisi cambi di stile, che incrociano racconto, meditazione, investigazione filologica, ma soprattutto anche la possibilità di sottendere a questo viaggio, in una linea trasversale, anche un autoritratto di sé e del proprio mestiere di scrittore e di acuto lettore. La memoria, quella della madre, del suo ricovero al Granelli, della sua morte, diventano una prospettiva che, pur se lontana nel tempo, all’inizio degli anni Ottanta, riesce attraverso le parole del figlio a farsi dimensione contemporanea, presenza continua, grazie a queste variazioni, «perché è un nome che si cerca. E un volto che gli corrisponda». Così per lo scrittore «mettersi sulle tracce di un nome è un’avventura che non si compie senza rischi e per la quale non esistono mappe né percorsi prestabiliti. Occorre fidarsi e per fidarsi occorre pregare. Ogni preghiera è preghiera del nome: ripetizione, invocazione». Proprio per questa libertà nel costruirsi una propria mappa narrativa, che però nasconde il desiderio intimo di riportare alla luce una lezione di vita, con tutto il pudore che è necessario, soprattutto quando è il figlio a raccontare, Zaccuri in una prospettiva narrativa diversa, ma parallela, incrocia in molte pagine, proprio per quella necessità di rendere ‘testimonianza’, il senso e la sacralità che sono proprie di Un altare per la madre, il capo d’opera di Ferdinando Camon e anzi per la madre Anna arriva a scegliere un luogo dove «si riconosce che Maria è ovunque », una cappella, visitata in un pellegrinaggio privato, su cui si chiude il libro, nel villaggio di Ronchamp, a Notre-Dame du Haut, la chiesa costruita da Le Corbusier, con il pannello centrale, una lastra di vetro, con scritto solo ‘ marie’: «Il nome ti risponde dal vetro, mentre in cielo passa un’altra nuvola e per la prima volta, grazie all’ombra che si produce in terra, vedi il tuo volto tracciarsi tra le lettere». È questo il senso di una traversata che fa rivivere una Milano diversa, che oggi ha cambiato il suo aspetto in una prospettiva hi-tech, dove si usavano ancora i gettoni per il telefono, con la comparsa delle modelle in via Seprio, a contrasto con le luci sterili e dolenti dell’ospedale. Al contempo Zaccuri la mette a confronto con inserti più ‘pop’, quello della ragazza senza volto che balla in una pubblicità di quegli anni. O quando racconta di Romeo e di Giulietta in parallelo con West Side Story, riprendendo anche aneddoti cinematografici come il casuale incontro, a Crotone, tra Pier Paolo Pasolini e la ragazza giovanissima che sarebbe stata la sua Maria nel Vangelo secondo Matteo.Ritorna alle sue passioni di giovane lettore e poi rilegge i Vangeli alla ricerca di Maria e delle altre Marie che vi compaiono, mettendo a confronto i vari racconti, in una sorta di strategia investigativa intima, che si avvale della conoscenza del mondo artistico medioevale, che qui trova un gioiello di riferimento nel museo d’arte di La Spezia, il Compianto sul corpo di Cristo di Lippo di Benivieni: «Del Medioevo è l’eccezione ad attrarmi, non la regola. Mi riconosco nell’incrinatura, nello scarto che allontana dalla perfezione». Ci sono le storie della Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, ma anche Bonvesin de la Riva e Dante e un viaggio in due classici della letteratura, Cuore di tenebra di Conrad e Moby Dick di Melville. Tutto per ritrovare il mistero e al contempo il fulgore del nome, quell’assoluto che aveva intuito anche un poeta come Mandel’štam in una poesia in cui riecheggia l’episodio della Maddalena al sepolcro: «Ciò che ci resta è il nome soltanto: / protratto suono meraviglioso». Il racconto si fa di nuovo preghiera, assume la forma di una coroncina del rosario di soli cinque grani: «Tre accostati in successione l’uno all’altro, per alludere al mistero della Trinità, e gli altri due isolati, uno per parte». Così anche la storia narrata si fonda su questi pochi segni: le tre Marie che indicano la dimensione del racconto cristiano («Quella delle Marie evangeliche, per diventare storia di un nome, deve essere prima storia di corpi»), il Calvario e due elementi che riportano sempre alla necessità dell’interpretazione. C’è soprattutto, continuamente espressa in varie forme, essenza certa e benedizione richiesta dallo scrittore, di «un solo nome, ripetuto più e più volte… Una volta non basta. Per l’amore come per lo spavento, una volta sola non basta mai».

Riscoperte. Quando gli scrittori si ispirano alla Bibbia

Il “Codex Argenteus”, manoscritto del Nuovo Testamento in lingua gotica realizzato su pergamena color porpora e scritto con caratteri in argento e oro

Il “Codex Argenteus”, manoscritto del Nuovo Testamento in lingua gotica realizzato su pergamena color porpora e scritto con caratteri in argento e oro

Con la preziosa presentazione di Piero Boitani “Vita e Pensiero” riedita un capolavoro della critica letteraria, Il grande codice. Bibbia e letteratura, del critico canadese Northorp Frye. Il felice dubbio che sorge spontaneo dopo la “rilettura” di questo importante testo del 1981 è che non si tratti di semplice “critica letteraria”. La critica moderna della Bibbia, iniziata da Spinoza, con la sua “riduzione” a mera testualità, nella quale solo il gioco interpretativo dei significati giustifica la persistenza di quella che un altro grande critico letterario, Harold Bloom, non da solo, chiamava l’influenza e il conseguente obbligo da parte dello scrittore a disinterpretare il testo di riferimento del suo lavoro, ci ha disabituati a qualsiasi altra forma di sintesi. In altri termini: i fedeli credono a ciò che scrive la Bibbia; gli altri la interpretano; gli scrittori la usano come riserva infinita di metafore, narrazioni, linguaggi, figure, forme retoriche ecc. Unisce queste diverse categorie di “utenti biblici” il collante, dicono in via di estinzione, di una cultura sempre meno condivisa, destinata ad esplodere e disarticolare il corpus tradizionale della trasmissione testuale, sciogliendo il testo originario dai suoi vincoli con la tradizione e, soprattutto, relegando a insignificanza il contenuto “rivelativo” della Bibbia. È ciò che ha fatto la decostruzione di Jacques Derrida. È ciò che fanno coloro che dell’immenso edificio biblico estrapolano la dimensione letterale allontanandola da quella letteraria. Sembra una variante sul filo del gioco, ma non è così. In fondo, l’esasperato letteralismo di cui si nutre certa discussione teologica (un esempio per tutti è l’antigiudaismo nei testi della Bibbia cristiana) potrebbe essere ampiamente corretto ed evitato se si tenessero presenti le indicazioni di Frye sulla tipologia, vale a dire sul riconoscimento incessante nel Nuovo Testamento della relazione che la vita, la predicazione e la morte di Gesù hanno con la Bibbia ebraica. Non dice nulla a costoro il versetto «affinché si compisse la Scrittura »? Esasperato letteralismo, perché sia che lo si accolga sia che lo si respinga, entrambi i gesti presuppongono che la Bibbia parli un linguaggio che non chiede spiegazioni e interpretazioni. Di qui gli studi sul linguaggio sessista della Bibbia; o quelli sull’origine dello sfruttamento della natura e il conseguente incentivo all’inquinamento ecc. Non c’è praticamente aspetto della discussione culturale odierna che non abbia di mira il riverbero che la Bibbia getta sulla realtà che si deve valutare e discutere. Se questa è la situazione, la riedizione del Grande codice fornisce, nuovamente e opportunamente, dopo l’edizione einaudiana del 1986, motivi di grande riflessione. Esponente della Chiesa Unita canadese, morto nel 1991, Frye ha con- dotto in tutta la sua vita di studioso una ricerca indirizzata a fornire alla critica non solo gli strumenti tecnici per il suo corretto esercizio, ma, soprattutto, le sue motivazioni profonde che risiedono nello sforzo di indicare nell’espressione letteraria uno degli strumenti utilizzati dall’uomo per fronteggiare la dimensione enigmatica e, per certi versi, terribile di ciò che lo circonda. Per l’autore di Anatomia della critica e, tra altri importanti interventi, di quel controcanto discreto ma non meno efficace ai Miti d’oggi (1957) di Roland Barthes, che è Cultura e miti del nostro tempo (1967), vale forse la correzione che si potrebbe fare al titolo di un volume della rivista “In forma di parole” del compianto Gianni Scalia, dedicato alla critica testuale americana nel lontano 1985: «per una critica antagonistica ». Che non è quella, per altro inesistente e futile, dei centri sociali, bensì quella “agonistica” della lotta che l’uomo conduce ogni giorno con l’Angelo per l’affermarsi del senso e del significato della sua vita. Ma anche questa, e basterebbe l’amato William Blake che dice «l’Antico e il Nuovo Testamento sono il Grande Codice dell’arte» a ricordarcelo, trova radice nella Bibbia. Le tragedie della Storia, i conflitti, l’inaccettabile erompere della violenza tra le fedi monoteiste, traggono alimento non dalla vicinanza al testo biblico ma, al contrario, dall’allontanarsi dell’uomo dalla sua ricchissima e infinita tessitura letteraria.

Letteratura. Giorgia Coppari: «Scrivere ti mette in contatto con Dio»

La scrittrice Giorgia Coppari assieme al marito, Bruno Cantarini, morto nel gennaio del 2015: le sue poesie sono state da poco raccolte in un’edizione curata dalla scrittrice

La scrittrice Giorgia Coppari assieme al marito, Bruno Cantarini, morto nel gennaio del 2015: le sue poesie sono state da poco raccolte in un’edizione curata dalla scrittrice

Dalla casa di Giorgia Coppari l’Adriatico, più che vedersi, si intuisce. è un angolo di mare stretto fra il porto di Ancona e la Mole Vanvitelliana. La grande libreria, le foto dei figli e, alle pareti, i dipinti del marito, Bruno Cantarini. «All’inizio l’artista di famiglia era lui», dice sorridendo la scrittrice. Pittore, musicista e poeta, oltre che insegnante amatissimo dagli studenti, Bruno è morto il 6 gennaio 2015, festa dell’Epifania, sulla soglia del 62 anni.

«La malattia è stata lunga – osserva la moglie – ma da ultimo lui era davvero diventato tutt’uno con Cristo». Le poesie di Cantarini sono state da poco raccolte in Stagioni (pagine 256, euro 15,00), un volume curato dalla stessa Coppari e pubblicato da Itaca, la casa editrice che ha in catalogo i romanzi e i racconti di questa autrice di best seller tanto indiscutibili quanto, paradossalmente, poco conosciuti. Il suo libro di esordio, La promessa, è uscito nel 2011 e da allora ha venduto più di 10mila copie, traguardo di tutto rispetto in un contesto come quello italiano, dove il 96% dei titoli non supera le mille copie. Ma anche un altro romanzo, Qualcosa di buono (2012), è diffuso in almeno settemila copie, mentre si collocano fra le tremila e le duemila copie la raccolta di raccontiTutto al suo posto (2014) e il romanzo più recente, Chiamatemi Isa (2016). Eccezion fatta per La promessa,ambientato alla fine del Settecento, si tratta sempre di storie contemporanee, che prendono spunto dall’osservazione ravvicinata della realtà. «Del resto – ammette Giorgia Coppari – ho iniziato a scrivere proprio a partire dalla mia quotidianità personale. Era più o meno il 2000, stavo per compiere quarant’anni e cominciavo a interrogarmi sulla mia vita. I nostri tre figli stavano crescendo, avevano meno esigenze di prima, ero contenta del mio lavoro di insegnante e, prima ancora, degli studi che avevo fatto, ma nello stesso tempo mi sembrava di non aver combinato nulla di concreto. Di non essere stata capace di lasciare traccia, diciamo. In quel periodo mi piacevano molto i romanzi di Jean-Claude Izzo e forse sono state quelle letture a risvegliare in me il desiderio di raccontare.

Il primissimo tentativo di romanzo, a dire la verità, lo avevo fatto molto prima, più o meno all’età di undici anni. Ricordo benissimo la situazione: era d’estate, una domenica pomeriggio, e mentre i miei uscivano per la passeggiata, io ero rimasta a casa per scrivere la storia di Gambalesta, un bambino che decide di scappare per scoprire il mondo. È una trama che, presto o tardi, potrei riprendere. Per certi versi Fausto, uno dei personaggi diQualcosa di buono, un po’ somiglia a quel piccolo fuggitivo». Prima dei romanzi, però, sono venuti i racconti. «Sì, per la precisione quello che dà il titolo alla raccolta: Tutto al suo posto, appunto – spiega Giorgia Coppari –. Descrivevo di una donna come me, una madre di famiglia alle prese con le piccole faccende da sbrigare. Era un esperimento al quale non davo troppo peso, quasi una scommessa con me stessa. Perché cerchi sempre qualcosa nei libri degli altri?, mi domandavo. Perché non provi a scrivere tu una storia che ti appassioni? Feci leggere quel primo racconto a Bruno, che lo apprezzò e mi incoraggiò a continuare. Per me il suo appoggio è stato decisivo, e lo è ancora oggi. Scrivere significa entrare in una dimensione di mistero, che permette di stabilire relazioni su piani altrimenti impensabili». Un elemento fondamentale, in questo senso, è costituito dal dialogo con le scolaresche che Giorgia Coppari incontra molto di frequente. «Senza contare i miei studenti, che ho sempre davanti a me – scherza –. Lo scambio con i ragazzi è sempre fonte di grande stupore, qui nelle Marche come in Lombardia o in Sicilia. Mi viene in mente, per esempio, il commento di una ragazza a pro- posito dellaPromessa.

Il protagonista, Luigi, è diventato costruttore di navi per amore di Barbara, una donna che sembra non corrispondergli. In modo del tutto fortuito, l’uomo assiste al miracolo della Madonna di San Ciriaco, il prodigio avvenuto nel Duomo di Ancona il 25 giugno 1796, nel pieno dell’avanzata di Napoleone in Italia. Luigi è tra quelli che notano il movimento degli occhi della Vergine ed è in quell’istante, come mi ha fatto notare la ragazza, che tutta l’attesa della sua vita trova compimento. Sono l’autrice del romanzo, è vero, ma non sarei stata capace di esprimermi con tanta chiarezza. Ma non solo i ragazzi a riservare sorprese. In Qualcosa di buono un ruolo importante è svolto da Irma, una badante che viene dal-l’Est e si esprime in un italiano a volte difficoltoso. Più di una persona mi ha confessato che, dopo aver fatto la conoscenza di questo personaggio, ha cominciato a guardare gli stranieri con uno sguardo differente. Sono molto contenta quando si verificano episodi come questo. Il mio desiderio, infatti, è di scrivere per tutti, in modo da raggiungere quante più persone possibili».

Insieme con l’amore coniugale, l’esperienza religiosa è un tema costante nei libri di Giorgia Coppari. «La letteratura ha sempre Dio come interlocutore – afferma –, è sempre un tentativo di rispondere all’interrogativo posto con estrema chiarezza da Guy de Maupassant: che cosa possiamo dire di questa vita nella quale siamo entrati senza averlo chiesto e dalla quale dovremo uscire senza volerlo?». Un nuovo romanzo è già pronto, ma se dovesse tornare su una delle storie che ha già in parte esplorato, Giorgia Coppari si soffermerebbe volentieri sulla vicenda di Lora, la figlia della protagonista di Chiamatemi Isa: «Una donna molto inquieta, che si converte negli Stati Uniti, in un ambiente che anche a me risultava un po’ strano – sostiene –. Poi, qualche tempo fa, mi sono imbattuta in una coppia di pellegrini che si spostavano a piedi da una città all’altra. Lei, di origine polacca, raccontava di aver incontrato la fede proprio in America. Forse con Lora non avevo sbagliato troppo, no? Anche per questo mi piacerebbe scoprire qualcos’altro di lei».

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Cultura. Letteratura: la preghiera del non detto

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Dal volume in cui Marco Beck raccoglie i suoi interventi critici, anticipiamo il ritratto del grande scrittore lombardo Giuseppe Pontiggia: narratore di successo e, insieme, uomo dalla spiritualità inquieta.

Nel catalogo delle opere saggistiche di Giuseppe Pontiggia spicca uno snello quanto pungente florilegio di quelle che, con ricalco goethiano, potremmo definire le sueMaximen und Reflexionen: Le sabbie immobili (1991), distillato di una satira ilare e tagliente brandita a fustigare le distorsioni di linguaggio e di costume della società italiana. In una pagina memorabile di quel “taccuino” Pontiggia rifletteva, con dose micidiale d’ironia, sul rapporto tra gli scrittori, l’invecchiamento e la morte: «Pochi sono gli scrittori che sanno invecchiare, ma ancora meno quelli che sanno essere morti». Un aforisma, certo. Fulminante come tutti gli aforismi che centrano alla perfezione il bersaglio della verità. È noto, del resto, che questa pregnante cifra logico-espressiva si armonizzava in modo del tutto peculiare con la prosa neo-atticistica del romanziere e saggista lombardo che ci ha d’improvviso abbandonato all’alba del 27 giugno 2003.

Singolarmente, Peppo (con questo affettuoso nomignolo da zio bonario gli si rivolgevano congiunti, amici, colleghi) si è sottratto alla norma da lui stesso enunciata. Non ha saputo – o meglio, non ha fatto in tempo a invecchiare, a ritrarsi in un suo personale De senectute, goloso com’era di vita, di storia, di attualità, di temi filosofici, civili e religiosi, di incontri umani, di letture beatifiche. […] Un candidato, Giuseppe Pontiggia, all’immortalità presso i posteri? Uno scrittore «che non sa essere morto» nel senso più nobile dell’espressione? Non scherziamo, replicherebbe il sorridente Peppo. Oppure sì, ammiccherebbe, va bene, scherziamoci sopra, ma con il condimento di una sana autoironia, rilanciando una boutade tratta anch’essa dalle Sabbie immobili: «L’ascesa dello scrittore tocca il suo culmine con la decrepitezza e la morte. Lo scrittore morto è immortale». […] Volendo incidere, su un ideale monumentum aere perennius, una sorta di epigrafe, uno stemma per eccellenza “pontiggesco”, si potrebbe a lungo esitare fra diverse sottolineature: la passione viscerale per i libri d’ogni epoca e Paese riversata in una biblioteca ricca di quarantamila volumi, identificabile di fatto con l’abitazione milanese e relative
dépendances; il generoso supporto umano intrecciato all’assistenza professionale nei confronti di giovani e meno giovani cultori della letteratura; il ruolo di coscienza critica, interprete di una sensibilità neo-manzoniana, di fronte alle vicende politico-culturali di Milano, spesso in sintonia con gli interventi dell’arcivescovo ambrosiano, il cardinale Carlo Maria Martini.

Tuttavia, al di là di queste e di altre plausibili alternative, io sceglierei una parola-chiave, una parola “scandalosa” che potrebbe, a mio avviso, siglare con fedeltà un ritratto non epidermico, non in forma di bassorilievo ma a tutto tondo, dello scrittore e – più in profondità – dell’uomo Giuseppe Pontiggia. Questa parola, immensamente semplice e semplicemente immensa, è preghiera.

La mattina di lunedì 30 giugno 2003, a conclusione dell’omelia funebre (lievitata da un’aura rasserenante, come protesa verso un orizzonte di vita eterna), monsignor Ravasi citò un brano di forte intonazione autobiografica estrapolato da Nati due volte che, nella navata centrale della chiesa milanese di San Giovanni in Laterano, risuonò con sconcertante nitore cristiano. […] È probabile che molti, fra quanti assistevano alla funzione religiosa sinceramente addolorati, abbiano a quel punto sussultato. Attraverso questa confessione da loro mai prima udita né letta (o magari letta sì, ma non meditata), attraverso questo audace colpo di sonda lanciato verso l’Infinito, avranno infatti scoperto, in Pontiggia, anche la compresenza di un esploratore dell’Assoluto:
«Forse preghiera e guarigione convergono, la preghiera è guarigione: non dal male, ma dalla disperazione. Perfino nel momento in cui si è soli, la preghiera spezza la solitudine del morente. Ancora oggi mi mette in contatto con una voce che risponde. Non so quale sia. Ma è più durevole e fonda della voce di chi la nega. Tante volte l’ho negata anch’io, per riscoprirla nei momenti più difficili. E non era un’eco».

Rare, d’altronde, risultavano le sortite autobiografiche concesse da un’indole riservata e da quella «castità di linguaggio» (bella definizione di Lorenzo Mondo) che imponeva alla conversazione la stessa
brevitas della scrittura. Con Ferruccio Parazzoli, amico di lunga data, Pontiggia aveva però, eccezionalmente, oltrepassato il limite del consueto autocontrollo: in un’intervista pubblicata prima su “Famiglia Cristiana”, poi in un volume riepilogativo dello stesso Parazzoli (Il gioco del mondo,Cinisello Balsamo, San Paolo 1998), si era confessato attratto dal mistero della trascendenza, dal paradosso per cui l’estendersi della conoscenza scientifica allarga il campo dell’ignoto.

Muovendo dalla convinzione che «la cosa più importante, in termini religiosi, è la salvezza», era giunto ad affermare: «Rispetto al problema della morte e della salvezza, lo scrivere passa in secondo piano». E si era soffermato a tratteggiare una propria escatologia, la mappa di un Aldilà dal quale tendeva ad escludere la minaccia di una condanna eterna, per lui (come per Balthasar) incompatibile con l’immagine
paterna di Dio.

Invece, di fronte a Luciano Luisi pronto a raccogliere la sua reazione a caldo subito dopo la proclamazione della vittoria al Premio del Pen Club 2001 per lo stesso Nati due volte, si era arroccato in un pensoso riserbo: «Credo sempre nel linguaggio come nella risorsa più importante che l’uomo abbia per capire ed esprimere il mondo. Però ci sono anche cose che passano nel silenzio, ci sono cose che non vengono e non verranno mai dette, ma che sono fondamentali».
Cose mai dette, ma fondamentali.

E cose solo pudicamente accennate: la preghiera, la guarigione del cuore, la speranza che sconfigge la disperazione, la salvezza insita nella risposta all’annuncio del Vangelo, nella consapevolezza che noi uomini siamo figli (tutti più o meno disabili, tutti portatori di un handicap fisico o psichico) dello stesso Padre «amante della vita», così come nella Bibbia lo rappresenta il Libro della Sapienza.

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