Panettone o pandoro? I dolci tradizionali di Natale e le specialità regionali

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di Ida Bini (ANSA) – ROMA, 25 DIC – Impasti morbidi, lunghe lievitazioni, profumi inebrianti, materie prime eccellenti: i panettoni e i pandori artigianali, famosi e amati in tutto il mondo, sono i veri protagonisti delle feste natalizie. Ma non sono gli unici: in questo periodo pasticceri di tutta Italia riescono a stupirci con numerose specialità legate alle tradizioni regionali, creando dolci golosi, irresistibili e di altissima qualità.
Ecco un viaggio tra i dolci natalizi tradizionali, da nord a sud d’Italia. Partiamo dal panettone, il simbolo gastronomico natalizio più conosciuto, nato a Milano otto secoli fa come un pane lievitato a base di farina, acqua, uova, burro, frutta candita, uvetta e scorzette di cedro e arancio. Molte sono le leggende legate alla sua nascita, ma due sembrano le più attendibili: la prima di fine ‘400 riguarda il figlio di un condottiero che per stare accanto all’amata s’improvvisa pasticcere come il padre di lei, tale Toni, e crea un pane ricco, fatto con farina, lievito, burro, uova, zucchero, cedro e aranci canditi. La seconda narra che per la vigilia di Natale, alla corte del duca Ludovico il Moro, era stata predisposta la preparazione di un nuovo dolce a forma di cupola, ma durante la cottura il pane che conteneva acini d’uva si bruciò; il cuoco, disperato, venne soccorso da uno sguattero di nome Toni, che gli consigliò di servirlo ugualmente dicendo che era una specialità con la crosta. Uno degli artefici del panettone moderno è il pasticcere Paolo Biffi, mentre la creazione dell’attuale confezione del dolce è dell’imprenditore Angelo Motta nella prima metà del Novecento. L’altro dolce simbolo del Natale italiano nel mondo è il pandoro, nato a Verona due secoli fa come variante del duecentesco Nadalin. E’ famoso per la sua irresistibile pasta soffice, il profumo di vaniglia e la forma a tronco, servito con una spolverata di zucchero a velo. Il dolce, brevettato il 14 ottobre 1894 da Domenico Melegatti, è a base di farina, zucchero, uova, burro, lievito e burro di cacao.
Tornando in Lombardia, a Cremona, si prepara un altro dolce popolare e antichissimo: il torrone. Gli ingredienti sono miele, albumi e frutta secca; ci sono tante varianti in base al miele utilizzato, alla durezza o morbidezza dovuta al tempo di cottura e al rivestimento del cioccolato o dell’ostia. Sulle tavole del Piemonte si serve il tronchetto di Natale, di provenienza scandinava, molto calorico grazie a burro, mascarpone, uova, crema di marroni, panna e cioccolato. La sua forma ricorda quella di un tronco: secondo la leggenda, infatti, si ispira al ceppo di legno che le famiglie contadine piemontesi mettevano sul fuoco per riscaldarsi durante la notte di festa. Il pandolce, o pandoçe, è il dolce di Genova, arricchito con canditi, uvetta, pinoli e finocchietto; si può trovare in due versioni: quella più antica e tradizionale, segnalata fin dai tempi di Andrea Doria, è alta e ha una lunga, laboriosa lievitazione mentre quella più recente è bassa, ricca di burro e con una consistenza più vicina a una frolla. Il certosino o pan speziale è il tipico dolce natalizio bolognese, nato da una ricetta medioevale e preparata dagli speziali, i farmacisti dell’epoca. Furono poi i frati della Certosa di Bologna a prepararlo come lo si consuma oggi con farina, mandorle, pinoli, miele, canditi, marmellata di mele cotogne o mostarda, cacao e cioccolato e decorato con frutta candita, noci, mandorle e spennellato con miele caldo. E’ di Siena e della tradizione toscana un altro dolce tipicamente natalizio: il panforte, conosciuto anche come panpepato, perché originariamente era un pane arricchito con spezie e pepe. Risale al 1200 ed era composto da acqua, miele e frutta fresca che, dopo pochi giorni, dava origine a muffe e a un sapore acidulo. La ricetta, poi, subì modifiche negli anni con l’aggiunta di frutta candita, miele, mandorle, spezie e pepe. Oggi l’impasto viene preparato con mandorle, frutta candita, spezie miste come cannella, chiodi di garofano, noce moscata, zenzero, sciroppo di miele, zucchero e cotto in forno. Nelle Marche si utilizzano ingredienti poveri per creare il bostrengo con mosto d’uva cotto, pane raffermo, uova e riso, insieme alla buccia degli agrumi. Il mosto d’uva si utilizza anche in Sardegna, tanto che qui il dolce tradizionale, preparato sin dal giorno dei morti, si chiama pan’e saba, cioè pane di mosto. Sulla tavola natalizia di Roma arriva il pangiallo, dolce realizzato con farina, olio, acqua e una glassa gialla di zafferano. Il ripieno viene invece preparato con farina, noci, mandorle, nocciole, pinoli, fichi secchi, miele, cacao amaro e scorza di arancia, a cui viene aggiunta anche la ricotta. Il dolce risale all’epoca imperiale, dove si usava prepararlo durante il solstizio d’inverno come buon auspicio per il ritorno alla primavera. A Napoli per Natale si preparano gli struffoli, dolce povero di origini greche, dove si chiamavano “strogulos”, che significa “pasta sferica”. Si tratta infatti di morbide palline di pasta dolce, fritte, passate nel miele e arricchite con canditi e confettini colorati. Storicamente gli struffoli erano preparati nei conventi dalle suore e portati in dono alle famiglie nobili che si erano distinte per azioni di carità. Sempre a Napoli si preparano anche i roccocò, piccole ciambelle speziate, arricchite con mandorle tostate, da ammorbidire nello spumante o nel vino dolce. Più a sud, in Puglia, si preparano le cartellate, coroncine di pasta aromatizzata, fritte e ricoperte di miele o di vincotto. La tradizione vuole che la sfoglia durante la cottura assuma la forma delle fasce di Gesù Bambino. In Calabria a Natale si consumano i fichi chini, farciti con frutta secca, cioccolato e canditi, e sovrapposti in modo da formare una croce. Anche in questo caso la nascita del dolce risale al Medioevo e la sua preparazione è legata alle monache che posizionando quattro fichi aperti a metà ottenevano una croce. Nella Sila calabrese si prepara anche la pitta ‘mpigliata, pasta dolce ripiena di frutta secca e spezie, ripiegata su se stessa a forma di rosa o di semplice schiacciata. Infine c’è la cubaita, tipico dolce siciliano di Modica in provincia di Ragusa: è una ricetta che arriva dal Medio Oriente, realizzata con miele, sesamo, mandorle e buccia di arance e limone. E’ un dolce profumato e molto duro, croccante alternativa al torrone. (ANSA).

“De gustibus” non è la solita cucina in tv

gastronomia

«Mi chiamo John Dickie e faccio lo storico». Si presenta sempre così il conduttore di De gustibus (History, venerdì alle 21). Lo premette per far capire che è inglese, che vanta qualche frequenza a Oxford e che conosce bene il nostro Paese tanto da insegnare Studi italiani all’University College di Londra, oltre ad aver scritto di mafia e di cucina, ovvero delle cose che qualificano, nel male e nel bene, l’Italia nell’immaginario collettivo degli stranieri. Autore di Con gusto. Storia degli italiani a tavola (a cui il programma di History si ispira), Dickie è convinto che il genio italico si esprima soprattutto ai fornelli. Per questo da gennaio ha proposto in sei puntate un viaggio nel passato del nostro Paese per raccontare la storia italiana attraverso il cibo. Partito dall’antica Roma, ha attraversato il Rinascimento, esplorato il Risorgimento, la Grande Guerra, il Fascismo, raccontato la cucina del boom economico per arrivare ai giorni nostri. È passato dall’opulenza dei banchetti degli imperatori e delle corti rinascimentali alla misera tavola della plebe affamata e al semplice rancio dei soldati, incontrando studiosi e chef noti al grande pubblico, fornendo curiosità e aneddoti, ricreando e assaggiando cibi e bevande del passato e sfatando alcuni miti che contraddistinguono il nostro passato culinario. Ad esempio, sembra incredibile, ma per i viaggiatori del Settecento la cucina italiana era la peggiore d’Europa. A rimettere le cose a posto ci ha pensato Pellegrino Artusi, «il padre della cucina italiana moderna». All’interno della serie (che si è appena conclusa, ma già da stasera partono le repliche) una delle puntate ci ha portato “A pranzo con il Papa”, perché anche la Chiesa ha influito sulla cucina nostrana. Ma non solo: il cibo, o meglio il non cibo, favorì anche l’elezione di Gregorio X nel 1271, quando a Viterbo i cardinali riuscirono, dopo tre anni, a mettersi d’accordo una volta messi a pane e acqua. In ogni caso, la religione è stata un grande stimolo alla creatività degli italiani a tavola, che adesso sono assediati da una tv piena di cucine e di chef, ma De gustibus si distingue: è un programma divulgativo, intelligente, ironico quanto basta e ovviamente gustoso. John Dickie è un ottimo commensale che costruisce i suoi tour con la precisione di un film.

tratto da Avvenire

In viaggio con gusto… Fra cecatielli e cavatelli, che paste!

Il Vallo di Lauro, territorio compreso nella provincia di Avellino è all’estremità sud-occidentale della provincia irpina e confina sia con la provincia di Napoli sia con quella di Salerno. E qui la fanno da padrona i formaggi, in particolare il caciocavallo, ma anche il pecorino, la ricotta fresca ed essiccata, la scamorza, il fiordilatte. Curiose sono le diverse varietà di mele che si sono conservate: la più famosa è l’Annurca, ma ci sono anche specie più rare come la Chianella, Grottolella, Limoncella e Zitella. Tra i salumi spicca una specialità come la salsiccia di polmone, o le cervellatine preparate con con carne suina, budello naturale, sale e spezie essiccate. Gli ammugliatielli sono invece realizzati con interiora di agnello lattante avvolte a uno stecco di legno, aromatizzate con aglio, prezzemolo, formaggio e peperoncino. Insomma, per usare un ossimoro si può parlare di questa valle come una ricchezza di piatti poveri. E difatti sono diversi i tipi di pizza (così chiamata anche se diversa dall’accezione conosciuta di pizza) che si possono assaggiare e che solitamente vengono offerti nelle case ma anche nelle osterie. La pizza chiena, ad esempio, è una variante della lavorazione del pane casereccio; si utilizza la pasta di pane che viene imbottita con salsiccia piccante, pezzi di lardo (sia magro che grasso) pezzi di formaggio bovino (scamorza, scamorzone, formaggio). Il tutto viene cotto in forno a legna direttamente sul piano del forno o nelle stagnere? È una specialità tipica del periodo pasquale. Tutto l’anno, invece, si trova la pizza di ricotta, ovvero un pasta salata ripiena, ottenuta con farina di frumento tenero, olio, sale, uova, poca acqua e ricotta di pecora. Pregevole è poi la pizza di scarola, ottenuta con sfoglia di grano tenero e un ripieno di scarole lessate saltate in padella con aglio ed olio, aggiunta di pinoli e capperi, ma anche foglie di bietola da coste. Ed è consumata principalmente coi primi freddi. Altre specialità della valle del Lauro sono la zuppa di soffritto, realizzata con carne e interiora suine e ovicaprine, sugna, spezie, aromi, alloro in foglie essiccate, peperoncino semi-piccante. Da realizzare è poi il ragù di castrato che prevede 400 gr di polpa di castrato, 400 gr di pomodori pelati, 50 gr di lardo, 2 cucchiai di olio extravergine di oliva, mezzo bicchiere di vino rosso, 1 cipolla, 2 spicchi d’aglio, rosmarino, peperoncino, sale. La carne si taglia in piccoli pezzi che andranno fatti soffriggere con il lardo l’aglio e la cipolla, e poi il peperoncino e il rosmarino. Durante la lenta cottura si aggiunga il vino, poco alla volta e, da ultimo, i pelati. Con questa partenza, non rimane che favorire l’amalgama degli ingredienti, lasciando cuocere a fuoco lento per circa 2 ore, aggiungendo, se fosse necessario, qualche cucchiaio di acqua calda. Il ragù andrà poi a impreziosire le paste tipiche della zona come i cecatielli, le matasse o i cavatelli. In loco lo considerano un primo piatto, ma data la ricchezza di gusti e di calorie, con un bicchiere di buon vino rosso, anche un Aglianico del Taburno, può rappresentare un sostanzioso piatto unico. Da provare!

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