3 milioni di persone che nel nostro Paese vivono con una forma grave di disabilità, quasi la metà non riesce a portare a termine un percorso scolastico, il 40% non partecipa a percorsi di formazione e non lavora, il 32% è a rischio povertà

Lo ripete convintamente, la ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli, ad ogni convegno o incontro a cui partecipa nel tour lungo lo stivale che la vede protagonista dal giorno del suo insediamento: «L’Italia sta diventando un Paese più inclusivo». Eppure i dati dicono cose differenti: degli oltre 3 milioni di persone che nel nostro Paese vivono con una forma grave di disabilità, quasi la metà non riesce a portare a termine un percorso scolastico, il 40% non partecipa a percorsi di formazione e non lavora, il 32% è a rischio povertà. E per tutti riuscire a salire su un treno, o su un autobus in una grande città, è spesso questione di fortuna.

Ministra, il suo è ottimismo o vede davvero segnali di svolta?
È chiaro che c’è ancora molto da fare: visitare i territori, incontrare le istituzioni locali, il mondo dell’associazionismo e le famiglie è importante per ascoltare e capire i loro bisogni che sono differenti dal punto di vista dell’organizzazione dei servizi e dell’assistenza, ma anche per conoscere i progetti di valore che riescono a realizzare. Mi interessa incentivare le istituzioni a lavorare con tutte queste realtà, perché in questo modo i risultati si moltiplicano e già in molte regioni o enti locali si lavora così. È un particolare periodo storico, sociale ed economico, difficilissimo per certi versi, ma che ci offre una grande opportunità: ci sono i fondi del Pnrr, c’è la Legge delega da attuare, ci sono molti progetti innovativi che guardano al futuro. E poi c’è un nuovo sguardo sulla disabilità: è finito il tempo della persona con disabilità per cui occorre “ritagliare” uno spazio. Adesso al centro ci sono tutte le persone con le loro competenze e i loro talenti che devono essere valorizzati per il bene della comunità e che possono portare un contributo di crescita per il Paese. Se saremo in grado di cogliere queste occasioni, se sapremo accompagnare questo nuovo sguardo, potremo determinare una rivoluzione in tema di disabilità.

Entriamo proprio nel merito della Legge delega. Che tempi si è data e quali sono i pilastri attuativi della norma?
La legge è stata approvata l’anno scorso e io ho il compito di attuare 5 decreti entro la fine del 2024. Il primo istituisce la figura del Garante nazionale, il secondo agevola l’accessibilità nella Pubblica amministrazione, il terzo fissa le procedure per determinare i Leps, i cosiddetti Livelli di prestazione sociale. Poi i due punti rivoluzionari. L’accertamento per la disabilità, che fino a oggi è stato effettuato con il metodo delle percentuali e delle tabelle. Si tratta di un cambiamento radicale di prospettiva, per cui istituiremo immediatamente un tavolo di lavoro. Infine, il decreto attuativo per il progetto di vita: attraverso il progetto determineremo i bisogni effettivi della persona.

Resta il nodo scoperto dei caregiver…
Vogliamo costruire un provvedimento unico che sia condiviso da tutti i ministeri competenti e che risponda a tutte le necessità, quindi sia al caregiver di persone anziane non autosufficienti che al caregiver di persone con disabilità, con una particolare attenzione ai caregiver familiari conviventi. I caregiver familiari sono persone che amano e che curano, che non desiderano essere sostituite ma tutelate e sostenute nel loro compito. Molte persone con le quali parlo mi chiedono di immaginare percorsi di sollievo che possano aiutarli a staccare ogni tanto per ricaricarsi di energie e maggiori possibilità di conciliazione attraverso misure specifiche e tutele.

Ha sollevato lo sdegno delle famiglie e delle associazioni la recente relazione della Corte dei conti sul “Dopo di noi”: la metà dei fondi destinati alla concretizzazione dei progetti di autonomia non sono stati spesi dalle Regioni ei beneficiari effettivi sono stati appena 8.424 soggetti, nemmeno il 10% della soglia minima della platea potenziale dei destinatari, stimata tra i 100 e i 150mila soggetti nella relazione tecnica alla legge. Perché succede questo?
La legge 112 del 2016 sul “dopo di noi” è stata strategica e ha dato slancio al tema del progetto di vita, oggi centrale nel Pnrr e per l’Europa, oltre che per la legge delega italiana. Questa norma, tuttavia, non è stata compresa e capita fino in fondo, forse perché in alcuni punti troppo complessa. È mia intenzione istituire a breve un tavolo con le associazioni e i soggetti coinvolti da cui possa uscire una proposta di miglioramento della norma, che la rende più facilmente applicabile. Serve anche un ragionamento con le Regioni, per capire cosa non funzioni. Quando parliamo di “dopo di noi” non possiamo non parlare anche del “durante noi” che è un tema di fondamentale importanza per le famiglie e che deve essere oggetto di ragionamento per il tavolo istituzionale.

Ma così non c’è il rischio che i bravi facciano sempre meglio, e i meno bravi restino al palo?
Per attuare pienamente questa legge è fondamentale costruire un percorso con le famiglie e con le associazioni. Certo, è un lavoro faticoso, perché non si tratta di distribuire risorse secondo criteri prestabiliti, ma di costruire un percorso di vita che sia condiviso con la persona e la famiglia, di qualità e che tenga conto della parte sociale sanitaria e socio-sanitaria, ma soprattutto che possa essere realizzato con un budget di progetto che richiede la ricomposizione delle risorse.

Anche l’inclusione lavorativa non decolla ancora.
E anche qui c’è da attualizzare una legge, la 68 del 1999. Nel corso del tempo abbiamo visto che questi percorsi hanno successo soprattutto nelle aziende che hanno creato delle figure di sostegno e di accompagnamento dedicate. Soprattutto, però, negli ultimi anni il mondo del terzo settore, le associazioni e le cooperative hanno saputo ideare percorsi innovativi: penso a produzioni alimentari, a percorsi nel campo dell’agricoltura ed esercizi commerciali. Sono state realizzate anche attività di inserimento lavorativo attraverso l’utilizzo della tecnologia e della digitalizzazione come per esempio l’archiviazione di documenti affidata ad associazioni che si occupano di formazione per persone con disturbo dello spettro autistico.

Tante leggi, tanti tavoli da riunire, tante modifiche da apportare…
A fine 2024, conclusa l’attuazione della legge delega, occorrerà un Testo unico sulla disabilità per porre ordine tra le norme e i fondi, perché nel corso del tempo si sono aggiunti sempre più in maniera frammentata.

Nel frattempo, per una persona disabile, resta difficile fare tutto: viaggiare in treno, entrare in un museo, andare a un concerto.
La Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità è stata recepita dall’Italia nel 2009: sancisce il principio dell’accessibilità universale ai servizi, tutti devono poter fare tutto e ovunque. Nel nostro Paese purtroppo si continua ad “adattare”: le strutture, i mezzi di trasporto, l’accesso alle mostre e ai concerti. Serve un cambio di passo, che può nascere solo da un cambio di prospettiva: la disabilità intesa non come competenza di chi la vive o della sua famiglia, ma come responsabilità che va condivisa con tutta la comunità. Stiamo lavorando in questa direzione, ma fino a quando non si progetteranno strutture, mezzi di trasporto, mostre e concerti per tutti, e finché non ci sarà il salto di qualità nella piena attuazione delle norme e nella garanzia dei diritti sanciti dalla Convenzione Onu, serve qualcuno che porti più in alto la voce delle persone, delle famiglie e delle associazioni. Mi auguro che presto questo percorso si completi: allora non ci sarà più bisogno di un ministero.

C’è un incontro, tra i molti che ha avuto, che l’ha colpita particolarmente?
Ogni volta che vado a visitare una realtà del territorio o ad incontrare le associazioni mi emoziono per il grande lavoro che fanno e per la passione e l’impegno che ci mettono. Soprattutto quando vedo i ragazzi e le persone più fragili esprimersi in attività ricreative, sportive, ma anche lavorative. È in questi momenti che colgo il grande valore del terzo settore, delle famiglie e mi convinco che non dobbiamo mai dimenticare che la persona è una e che ha bisogno di cure e assistenza ma anche di affetto, relazioni e attività sociali. In particolare di recente ho incontrato Marta Russo (una giovane influencer molto seguita sui social, dove racconta la sua esperienza di disabile alle prese con le difficoltà di ogni giorno, ndr), con la quale ho potuto parlare di molte problematiche, ma in particolare delle borse di studio che finora si cumulavano con la pensione d’invalidità: le une escludevano l’altra. Ho lavorato con gli uffici per modificare la norma e abbiamo inserito un emendamento apposito nella Legge di bilancio. Ora le cose sono cambiate.

avvenire.it

Disabilità: quello che resta da fare

di: Samuele Pigoni
settimananews.it

Come vengono rappresentate le persone con disabilità nel mondo dei media? -  AccessiWay

Oggi siamo lontani dalla segregazione e dalla violenza che portarono alla chiusura dei manicomi e alla rivoluzione di Franco Basaglia, ma il percorso per promuovere i diritti, il benessere e la piena dignità delle persone con disabilità è una rivoluzione non ancora terminata.

Il 3 dicembre si è celebrata in tutto il mondo la Giornata dedicata alle persone con disabilità, per promuoverne i diritti, il benessere e la piena dignità. È una data della quale tendenzialmente si accorgono e celebrano solamente le persone con disabilità, i familiari, gli addetti ai lavori, gli e le attivisti/e.

Eppure sono passati ormai 60 anni dai primi movimenti per i diritti delle persone con disabilità, dai primi disabilitiesstudies che hanno chiarito come le disabilità non siano più un ambito relegabile alla dimensione medica della cura e della protezione, essendo prima di tutto una questione di ordine sociale e di cittadinanza.

Va ricordato che con la Legge 3 marzo 2009, n.18 il parlamento italiano autorizzava la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità sottoscritta dall’Italia il 30 marzo 2007 e che la Convenzione, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, rappresenta un risultato definitivo raggiunto dalla comunità internazionale in quanto strumento internazionale vincolante per gli Stati.

La Convenzione si inserisce nel più ampio contesto della tutela e della promozione dei diritti umani e conferma una volta per tutte in favore delle persone con disabilità i princìpi fondamentali di pari opportunità, di non discriminazione, di esigenza di pieni diritti di cittadinanza sulla base dei princìpi di autodeterminazione e uguaglianza con tutti. A tal fine la Convenzione modifica alla radice la definizione di disabilità promuovendone una diversa concettualizzazione che si fa mobile, sociale e relazionale.

Mobile perché si definisce come “un concetto in evoluzione” (preambolo), non definita a partire da un qualche ancoraggio bio-medico ma sottoposta al variare dello sguardo storico che la anima (il disabile è stato nelle epoche “mostruoso”, “deforme”, “subnormale”, “handicappato”); sociale, laddove dichiara che «per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con tutti» (art. 1 comma 2); relazionale, in quanto territorio di relazioni di potere tra lo sguardo abile della maggioranza disciplinante e il corpo disabile, disabilitato e discriminato (quando non segregato) da barriere materiali e immateriali.

E su questo la Convenzione è chiara, per “discriminazione fondata sulla disabilità” – infatti – si intende: «qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo» (art. 2).

È discriminante tutto ciò che preclude il set di opportunità concrete che permettono di desiderare e vedere realizzata una vita nel mondo di tutti, a prescindere dalle caratteristiche individuali.

La Convenzione dispone che ogni Stato presenti un rapporto dettagliato sulle misure prese per adempiere ai propri obblighi e sui progressi conseguiti al riguardo. La legge italiana di ratifica della Convenzione ha istituito l’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità che ha, tra gli altri, il compito di promuovere l’attuazione della Convenzione ed elaborare il rapporto dettagliato sulle misure adottate di cui all’art. 35 della stessa Convenzione, in raccordo con il Comitato interministeriale dei diritti umani (Cidu).

Siamo lontani dalla segregazione e dalla violenza che portarono alla chiusura dei manicomi e alla rivoluzione di Franco Basaglia, ma il percorso di de-istituzionalizzazione fisica e immaginale, il riconoscimento alla persona con disabilità del diritto a una vita indipendente e progettata sulla base dell’uguaglianza con tutti, è una rivoluzione non terminata.

Un percorso che oggi è attuale e necessario e che investe i temi della casa in cui vivere, del lavoro cui aspirare, dell’affettività e della sessualità, del rapporto con la famiglia e dei dispositivi attuativi a disposizione dei sistemi socio-sanitari.

Siamo di fronte a un cambio di passo decisivo nella rappresentazione culturale delle disabilità (e per converso: delle abilità), nel riassetto dei servizi e dispositivi giuridici preposti alla tutela dei diritti di cittadinanza delle persone con disabilità, nei dispositivi pratici, educativi, relazionali con i quali costruire le capacità dei contesti (lavoro, scuola, quartiere) di eliminare le enormi barriere materiali e soprattutto immateriali residue. Barriere che abbiamo conficcate nello sguardo, molto spesso, anche in quello animato dalle migliori intenzioni.

Pubblicato sul sito della rivista Confronti. L’autore è direttore della Fondazione Time2, si occupa di management, progettazione sociale e filosofia.

Letture. Da Sparta a don Gnocchi, il lungo viaggio dei disabili oltre ogni barriera

Cosa insegna il cammino della società per il superamento dei limiti e dei pregiudizi. Con lo storico e antropologo della medicina Vittorio A. Sironi un percorso nella “diversità” e le sue lezioni
Da Sparta a don Gnocchi, il lungo viaggio dei disabili oltre ogni barriera
Avvenire

La disabilità non è l’insufficienza di un individuo che lo condanna a essere diverso dai “presunti” normali e incapace di fare tutto ciò che la società si attenderebbe da lui. Sono invece le barriere e le pretese della società a limitare le sue possibilità di realizzazione. Ferma restando la nostra altezza media, se tutti gli oggetti si trovassero collocati a due metri dal suolo, sedie e tavoli raddoppiassero la lunghezza delle gambe e i gradini avessero un’alzata tripla, diventeremmo tutti handicappati nella nostra vita quotidiana. Saremmo costretti ad arrampicarci costantemente su pericolosi sgabelli e scomode scalette, ma spesso dovremmo semplicemente rinunciare a molte attività quotidiane per l’impossibilità fisica di portarle a termine.
Chi è allora “handicappato”? Tutti coloro che non hanno la fortuna di essere cresciuti tanti centimetri oltre il consueto. Ma basta riabbassare gli elementi di arredo, ed ecco che i limiti scompaiono. Una simile prospettiva sulla disabilità corona un lungo cammino sia medico sia culturale che ha attraversato la storia dell’umanità. Merito di Vittorio A. Sironi avere tracciato questa storia che è decisiva perché una società possa dirsi rispettosa e inclusiva delle diversità. Già neurochirurgo, storico e antropologo della medicina, docente all’Università Milano Bicocca, dove dirige il Centro studi sulla storia del pensiero biomedico e collaboratore di Avvenire, l’autore in Superare la disabilità. Storia e antropologia della riabilitazione (Carocci, 196 pagine, 19 euro), descrive il tragitto sociale che ha portato dal rifiuto all’accettazione dell’handicap, istituendo un parallelo con la storia della medicina riabilitativa, che ha compiuto recentemente progressi straordinari.

Sono certamente esagerati i racconti del lancio di bambini deformi dal monte Taigeto da parte degli spartani, ma nel mondo antico i disabili subivano spesso un destino di abbandono o di discriminazione, anche se le pratiche riabilitative sono nate con la medicina romana. Un salto di paradigma avvenne nel Rinascimento con la “scoperta” del corpo quale parte dell’essere umano da non svalutare. Ma la vera svolta, che aveva gettato semi destinati a fruttificare per due millenni, fu il messaggio cristiano, che porta a considerare il portatore di disabilità una persona di pari dignità, oltre tutte le sue limitazioni che non ne compromettono il valore. In questo solco si situa anche il contributo che in tempi recenti ha dato nel nostro Paese don Carlo Gnocchi, il prete dei mutilati di guerra, che introdusse la riabilitazione come “risurrezione laica” dell’individuo segnato dalla sofferenza fisica o psichica, che deve essere letteralmente “restaurato”.
Insieme con il cambio di paradigma, il miglioramento della condizione dei disabili è venuto negli ultimi decenni grazie all’avvento di protesi tecnologiche e trapianti fino a poco tempo fa impensabili, come quello della mano. Anche la robotica sta rivoluzionando – evidenzia Sironi – la condizione di chi ha limitazioni corporee o cognitive. Nell’era dei grandi campioni paralimpici, esempi dell’”annullamento” della disabilità sia in termini atletici sia in termini culturali, il percorso sembra concluso. Ma, purtroppo, non è così. Tante sono ancora le barriere e tanti i pregiudizi. Per questo è fondamentale un libro come Superare la disabilità, guida scientifica e stimolo a riflettere sugli aspetti ideali e civili. Con l’obiettivo di un superamento che sia davvero totale e definitivo.

Oltre la disabilità, le parole per aiutare un figlio a crescere

Come si fa a parlare di affettività e di sessualità a un bambino autistico? A quale età è corretto cominciare? Sono tra le domande, enorme e complesse, rimbalzate la scorsa settimana al seminario organizzato da due Uffici pastorali della Cei, quello per le persone disabili e quello per la famiglia, con l’obiettivo, come recitava il titolo, di ‘generare percorsi di reciprocità nella comunità cristiana’.

Ad accompagnare i genitori nelle dinamiche di una questione che spesso disorienta e imbarazza lo psicologo e psicoterapeuta Giovanni Miselli, della Fondazione Sospiro, che da tanti anni lavora con le famiglie in cui c’è un figlio alle prese con un problema dello spettro autistico. «Invitiamo i genitori a pensarci un attimo prima dell’adolescenza, quando ancora la questione sembra lontana. Perché poi il problema si presenta all’improvviso e tutto risulta più difficile ». Miselli ha riferito l’episodio di una mamma da lui invitata ad un incontro sul tema. La risposta: «No, grazie. Per noi è presto, Giovanni (nome di fantasia) ha soltanto sei anni». Qualche giorno dopo la donna trova un foglio con un disegno uscito dallo zainetto del bambino che frequenta la prima elementare. «Di cosa si tratta? », chiede la mamma. «Nulla, nulla – risponde con evidente imbarazzo il piccolo nascondendo il disegno – me l’ha dato Sara (una compagna di classe)». La donna non insiste ma la sera, quando il figlio dorme, va a controllare. La bambina scrive al compagno: «Ho fatto un sogno bellissimo, noi due ci diamo un appuntamento per darci un bacio in bocca». La fresca risposta del ragazzino per nulla disorientato, ma con la tipica metodicità dei bambini austici: «Va bene, ma invitami mercoledì o venerdì alle 18,15». La mamma trasecola. Chi l’avrebbe mai detto, a sei anni? E il pensiero corre alla montagna da scalare nell’affrontare un tema così denso e coinvolgente. Sessualità? Affettività? Ma come potrà pensare Giovanni di avere una relazione affettiva, di sposarsi, di avere figli?

«Eppure – commenta lo psicologo – questa è un’occasione meravigliosa per parlare di affettività a un bambino autistico. Difficile? Certamente. Ma non serve uno specialista competente, serve soprattutto una famiglia competente. Se rendiamo competente la famiglia aumenta il senso di auto-efficacia e la famiglia sta bene. «Grazie per aver aiutato noi a crescere e grazie perché in questo modo – dirà qualche mese dopo la mamma di Giovanni – ci hai permesso di crescere meglio nostro figlio, di essere genitori migliori».

In Italia il problema dell’autismo riguarda una persona su 77, per un totale di circa 600mila persone caratterizzate da quella che la scienza considera condizione e non patologia. E ogni persona, pur nel complesso di disturbi che possono assomigliarsi, presenta specificità che obbligano gli esperti a ridefinire ogni volta l’approccio.

Ciascuno deve abbattere una barriera diversa

Perché ‘spettro autistico’? La gamma delle diversità è enorme. C’è più diversità tra le persone all’interno di questo spettro che all’esterno, tra noi ‘normali’. L’unico aspetto che accomuna queste persone è la difficoltà di interazione sociale, o meglio la capacità di cogliere le barriere invisibili che determinano le interazioni sociali. Noi ci occupiamo di costruire per tutti opportunità di apprendimento» Quanto è difficile convivere con una persona autistica? «Con ciascuno occorre tirare fuori il meglio di sé, ma bisogna farlo h24 sette giorni su sette. Altrimenti risulta difficile comunicare, capirle, aiutarle. Proprio questo impegno senza sosta fa dire a tanti genitori: ‘Sarà così tutta la mia vita? Perché proprio a noi?’. Perché spesso, oltre alle difficoltà legate alle dinamiche familiari, scatta il giudizio sociale, ci si sente diversi e comincia il disaccordo all’interno della coppia». I genitori con figli autistici – secondo i dati resi noti dallo specialista – hanno 40% di possibilità di vivere momenti di depressione e 70% di avere problemi di salute. «Mettersi nei panni di queste persone, vuol dire tentare di comprenderle. Lo stress genitoriale dipende dalla gravità della disabilità, dalla capacità di intervento e dalla qualità dei servizi disponibili. Minore lo stress dei genitori, migliore il successo della terapia. Sappiamo molto delle mamme – sottolinea Miselli – meno dei padri perché non è facile coinvolgerli e spesso assumono un altro ruolo». E i fratelli? «Spesso ricevono meno attenzioni e meno risorse economiche e possono avere difficoltà di costruirsi un’identità. Ecco perché vanno coinvolti e va loro offerta la possibilità di avere confronti con altre fratelli e sorelle che vivono lo stesso problema». Importante quindi guardare alla qualità di vita dell’intero nucleo familiare La qualità di vita di una famiglia cambierà rispetto al significato che ciascuno attribuisce a determinati valori (il benessere materiale, la cultura, le relazioni, la spiritualità).

«Nè lui ha peccato Né i suoi genitori»

Malattia e disabilità interrogano, spesso in modo straziante, anche la sfera spirituale e suscitano domande che da sempre accompagnano la vita di fede. Perché Dio permette il dolore? C’è un disegno che costringe alcuni a sopportare determinante malattie invalidanti? Ne ha parlato, in apertura del seminario, don Gianni Carozza, docente di esegesi biblica. «Nell’antichità la malattia era intesa come punizione per un peccato commesso (ma anche durante il Covid ci sono state, purtroppo, letture in questo senso) e questa convinzione sollevava Dio da ogni responsabilità, attribuendola all’uomo. ‘Hai peccato, ora sopporta la malattia’. Ma che Dio è questo giudice implacabile che distribuisce malattie come punizioni? E non ci soddisfa neppure la tesi secondo cui l’uomo è immerso in un disegno a cui non può sfuggire, accogliendo un disegno buono o malvaglio secondo una volontà imperscrutabile. Ci sono tanti esempi di questa logica perversa da cui Gesù si stacca in modo detto, soprattutto preoccupato di rivelare il volto paterno di Dio padre. Nel Vangelo del cieco nato (Gv, 9, 1-41) la risposta di Gesù alla domanda dei discepoli è nettissima: « Né lui né i suoi genitori hanno peccato, ma ciò è accaduto, affinché siano manifestate in lui le opere di Dio». Parole che, ha spiegato il biblista, vogliono liberarci dall’immagine di un Dio vendicativo «che nulla che fare con la scelta di inviare il figlio per amore». Perché allora la sofferenza? Il peccato c’entra, perché ha aggiunto Carozza, non possiamo escludere le conseguenze dei nostri comportamenti negativi, sia a livello personale sia sociale, ma le parole di Giovanni vogliono dirci che Dio è sempre all’opera. «La vita – ha aggiunto – non è destinata a cadere nel nulla anche se fa esperienza della malattia, della disabilità, della sofferenza, della morte. Dio stesso ha messo nel nostro cuore questo desiderio di senso e lo fa arrivare fin là dove possiamo concepirlo».

Rendere significativa anche la sofferenza

Ecco perché il cieco del vangelo di Giovanni è simbolo di ogni uomo incapace, per via del peccato, di vedere Dio. E allora Dio cambia la natura di questa persona che, come ‘cieco nato’, era fisiologicamente incapace di aprirsi alla luce. «Giovanni – ha detto ancora il biblista – ci accompagna alla scoperta della natura di Dio e ci mostra come la scoperta della fede ci aumenti in umanità. Nel Vangelo del cieco nato ci sono paurosi di umanità da parte delle autorità religiose che mettono sotto accusa il disabile. Negare la realtà dei fatti è la sorte di coloro che non vogliono né vedere né capire, di quelli che riducono la religione a dogmi e precetti come ‘piccoli burocrati di Dio’. Ma Gesù sbugiarda questi falsi credenti: «Visto che dite, noi vediamo, il vostro peccato rimane». Da qui il percorso suggerito dall’esegeta: fiducia, onestà, capacità di vincere il pregiudizio, sforzo di imparare a leggere con le categorie di fede anche il dolore per renderlo significativo.

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Un momento del convegno Cei su ‘Famiglia e disabilità’/ Foto Siciliani

AUTISMO E DISABILITÀ, IMPEGNO A FAR CROLLARE LE BARRIERE

Gentile direttore, sono passati 15 anni dall’istituzione della Giornata per la consapevolezza dell’autismo, ma c’è una parte importante del nostro Paese che per 365 giorni l’anno merita tutto il nostro tempo. Parliamo di persone che 24 ore al giorno hanno diritto alle dovute attenzioni e di famiglie che 7 giorni su 7 fanno il possibile per dargliele e stare accanto ai propri figli, nipoti, fratelli. L’Osservatorio nazionale per il monitoraggio dei disturbi dello spettro autistico stima che in Italia 1 bambino su 77, tra i 7 e 9 anni, presenta un disturbo dello spettro autistico. Questi, come lei sa e dice spesso, non sono numeri, bensì persone, e ci teniamo a ribadire questo concetto. Perché ogni persona è unica, ogni famiglia è unica e, come parte della comunità, abbiamo il dovere di creare luoghi di ascolto, di confronto sulle problematiche comuni, ma soprattutto sulle soluzioni. Penso alle tante associazioni, fondazioni, enti, che quotidianamente lavorano a progetti di inclusione, pensando al talento che ogni individuo ha, al valore di ogni singola persona, per aiutarlo a esprimersi al meglio.

Ogni singolo giorno una persona con disturbo dello spettro autistico ha il diritto di scegliere come investire ogni momento, con i suoi tempi e i suoi modi, che non sono uguali per tutti. È questo lo spirito con cui è nata la Convenzione Onu del 2006: creare piena ed effettiva inclusione. Per raggiungere tale obiettivo la società deve guardare il mondo da una nuova prospettiva: quella della persona con disabilità, che non ha bisogno solo di assistenza, ma di vedere riconosciuto il diritto, come tutti, di avere il proprio ruolo nella comunità. La Convenzione delle Nazioni Unite è il nostro principio guida. Lo stiamo applicando anche in sede di attuazione della Legge delega che, con l’approvazione all’unanimità in Parlamento, ha messo nero su bianco, senza distinzioni politiche, un impegno comune per garantire un progetto di vita individuale per ogni persona con disabilità.

La società necessita di un’informazione che sia funzionale a un cambiamento culturale nel nostro Paese. Vogliamo cogliere l’occasione offerta da questa Giornata per ricordare quanto sia importante informare ogni giorno gli italiani sulle tematiche che riguardano le persone con disturbo dello spettro autistico e, più in generale, le persone con disabilità. Le grandi rivoluzioni sono iniziate proprio grazie al potere dell’informazione e il ruolo sociale del giornalista è, come insegna la scuola di pensiero inaugurata da Joseph Pulitzer, quello di usare questa potente arma con coscienza.

Nel nostro Paese abbiamo numerosi esempi di buon giornalismo, che vedono la persona con disabilità come fine e non come mezzo di informazione, colgono la diversità di ogni persona, ascoltano e creano consapevolezza. Vi siete dati strumenti come la Carta dei doveri del giornalista che, come la Carta di Treviso per i minori, tutela i diritti e la dignità delle persone con disabilità, che devono essere non solo garantiti ma anche potenziati, aiutando ciascuno a superare tutto ciò che gli impedisce di esprimere la propria personalità. In altre parole, le barriere. Esse spesso non sono soltanto nell’ambiente architettonico e nella comunicazione, ma nella cultura. L’inclusione non è infatti parola retorica ma fatto concreto, un atto di libertà, che non ha bisogno di essere imposto, che nasce spontaneamente da azioni collettive.

Noi stiamo mettendo a disposizione i mezzi necessari a sostenere l’obiettivo del progetto di vita previsto dalla Convenzione. In Legge di Bilancio abbiamo incrementato il Fondo per le persone con disturbi dello spettro autistico di 27 milioni e rifinanziato per 100 milioni, per il biennio 2022/23, il Fondo per l’inclusione delle persone con disabilità, estendendolo a progetti dedicati a persone con disturbi dello spettro autistico. Nella nostra attività ministeriale stiamo tracciando una strada aperta a tutti e la stiamo percorrendo insieme alle altre Amministrazioni dello Stato, agli enti locali, alle associazioni, ai cittadini. Il percorso è ancora lungo e abbiamo bisogno di voi. Il vostro contributo sarà fondamentale per attuare un vero cambiamento, che vada nella direzione di mettere la persona al primo posto.

di Erika Stefani Ministra per le Disabilità

Grazie, gentile ministra Stefani. Le confermo che l’informazione di ‘Avvenire’ per una visione e un’azione inclusive e contro incomprensioni e barriere c’è stata, c’è e ci sarà. Ogni giorno. Auguri per un lavoro sempre più efficace. (mt)

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Il ministro per la disabilità Stefani: dobbiamo semplificare. «Cruciale l’integrazione tra sociale e sanitario, ma pure i rapporti con gli enti locali»

L’esponente della Lega: puntiamo a un approccio diverso, basato sui progetti di vita individuali. «Necessario intervenire su centri per l’impiego e didattica»

L’esponente della Lega: puntiamo a un approccio diverso, basato sui progetti di vita individuali. «Necessario intervenire su centri per l’impiego e didattica» – Lapresse

Progetto di vita individuale, semplificazione e dialogo tra socio e assistenziale. Il ministro leghista per le Disabilità Erika Stefani mette subito in chiaro: «La legge delega non è il riordino dell’universo mondo, sarebbe troppo ambizioso, ma l’inizio di un percorso su temi specifici».

Si punta molto su un diverso approccio alla disabilità basato sul progetto di vita individuale. Come si riuscirà a far dialogare enti e istituzioni a diversi livelli?

Il punto focale sta proprio nel progetto individuale di vita che parte dal presupposto per cui ogni persona debba decidere della propria vita. Con la legge delega in sostanza creiamo nuclei di valutazione multidisciplinare e multidimensionale, in cui sono presenti tutte le figure che concorrono a questo progetto, dal neuropsichiatra al nutrizionista. Altra grande novità è l’accertamento della disabilità, che è ben diversa dalla invalidità. Nella legge separiamo i due percorsi, rendendo più semplice l’accertamento della disabilità. Ulteriore passaggio è la semplificazione dei processi, oggi abbiamo più procedure – l’handicap, la sordo- cecità – mentre vogliamo garantire un’omogenea valutazione. Come pure ci sarà l’introduzione del Garante per la disabilità e la valutazione delle performance sulla Pubblica Amministrazione, perché per far sì che altri enti si responsabilizzino dobbiamo noi dare l’esempio. L’integrazione socio- sanitaria resta il nodo cruciale, ma qui si apre un grande tema che non è nella legge delega: il rapporto tra Stato, Regioni, Comuni. Nella ddl intanto abbiamo previsto i nuclei di valutazione multidisciplinare proprio per far dialogare i due settori.

Non si rischia di farla diventare come il ‘Dopo di noi’, una legge buona mai decollata? Se pretendiamo di mettere in una legge tutto ciò che riguarda il tema della disabilità non ne usciamo più, sono ottimista ma anche realistica. Ho sempre creduto che occorre cominciare il percorso, andare avanti step by step, poi affronteremo tutte le varie tematiche che si presentano. La legge sul ‘Dopo di noi’ dà gli strumenti perché privati concorrano con il pubblico per l’obiettivo. Anche il pubblico da solo può agire, peccato che le Regioni non hanno soldi e quindi tutto si ferma. Ma è anche vero che il fondo ‘Dopo di noi’ non viene utilizzato completamente da molte Regioni, perché mancano procedure e cultura. Dobbiamo uscire dall’impianto mentale risorsa-servizio senza avere una visione d’insieme. Con le Regioni e gli enti locali c’è una sfida nell’anno nuovo, per costruire strategie comuni perché tutte le Regioni partecipino ai progetti virtuosi.

Quale è stato il significato della Conferenza sulla disabilità? E la partecipazione di Draghi? La presenza del presidente del Consiglio ha avuto un valore importante, perché ha riconosciuto il lavoro svolto ma ha guardato anche al futuro, dicendo che su queste tematiche il governo c’è. La Conferenza è stata fondamentale anche perché abbiamo messo insieme tutti i protagonisti del processo, poi con la Consultazione pubblica abbiamo dato voce ai cittadini.

A proposito della Consultazione, cittadini e associazioni hanno chiesto miglioramenti su accessibilità, inclusione e inserimento lavorativo di qualità. A quali interventi pensa per rispondere a queste richieste? I risultati della consultazione saranno per noi il percorso su cui lavorare in futuro. Anche se su molte segnalazioni abbiamo già raggiunto un risultato, pensiamo agli stalli gratuiti o alle Ztl, oppure ancora al turismo accessibile su cui sono stati investiti 30 milioni di euro. Come pure si sta lavorando sul collocamento mirato, non a caso il ministro del Lavoro Orlando alla Conferenza ha parlato dei centri dell’impiego su cui bisogna intervenire e delle linee guida sul collocamento. Altro focus emerso è la mancanza della continuità didattica per i disabili e la formazione dei docenti. Sono argomenti su cui i ministri Orlando e Bianchi sono chiamati a dare risposte e io a fare da raccordo, ma anche da pungolo.

Il suo ministero sta lavorando alla Disability card. Quali sono i tempi di avvio e cosa cambierà nella vita delle persone con disabilità? Come tempi credo ormai si vada all’anno nuovo, non prima di febbraio. La card ha due elementi importanti, innanzitutto è una semplificazione perché la tessera porta con sé tutti i dati della persona con disabilità che potrà dimostrare la sua condizione, senza portarsi dietro la documentazione. Ma la riempiremo di nuovi contenuti rispetto a quella europea perché si potranno stipulare protocolli e convenzioni con enti. Come con i Beni culturali: mostrando la card si potrà entrare nei musei.

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Una serie di opere cinematografiche per riflettere sulla disabilità e la sua considerazione oggi

 L’idea da Commissione nazionale valutazione film e Servizio per la pastorale delle persone disabili
I due protagonisti di "Quasi amici" (2011)

I due protagonisti di “Quasi amici” (2011)

Non solo “Quasi amici”. La commedia francese del 2011 di Olivier Nakache ed Éric Toledano è uno degli 8 titoli che compongono il ciclo di schede cinematografiche pastorali che la Commissione nazionale valutazione film (Cnvf) propone in sinergia con il Servizio nazionale per la Pastorale delle persone con disabilità della Cei, tra luglio e agosto (le schede vengono pubblicate ogni venerdì su Cnvf.it e Pastoraledisabili.chiesacattolica.it). Registrando la bella tendenza del cinema (come delle serie tv) nell’ultimo decennio con l’abbandono dei consueti e stanchi canoni drammatici di racconto della condizione delle persone disabili, il ciclo di film desidera approfondire sguardi diversi sul tema: otto prospettive sulla disabilità che si giocano nel segno della possibilità, dello sguardo che sposa il realismo ma anche la speranza.

Sono già online i focus su “Mio fratello rincorre i dinosauri” (2019) di Stefano Cipani – dal romanzo di Giacomo Mazzariol –, film rivelazione della passata stagione e vincitore del David Giovani, che esplora con tenerezza il legame tra fratelli di cui uno con sindrome di Down, e “La famiglia Bélier” (2015) di Éric Lartigau, sul rapporto genitori-figli nella tempesta dell’adolescenza in una famiglia con disabilità uditiva.

In arrivo: “Tutto il mio folle amore” (2019) di Gabriele Salvatores, storia di un padre “riluttante” e di un adolescente con Asperger in cerca di una seconda occasione, racconto dai toni della fiaba; sul sentiero della commedia educational c’è “Wonder” (2017) di Stephen Chbosky dal libro di R.J. Palacio; ancora, “Quasi amici”, storia vera di un’amicizia che salva, quella tra un disabile e un immigrato dalle banlieue parigine. Ugualmente sulle note di un umorismo frizzante gira “Ho amici in Paradiso” (2016) di Fabrizio Maria Cortese, film sulla disabilità mentale ambientato nel Centro Don Guanella di Roma; esplora, poi, l’importanza di garantire opportunità lavorative per persone con disturbi dello spettro autistico “Quanto basta” (2018) di Francesco Falaschi. Ultima opera del ciclo è il dramma sentimentale “Il colore nascosto delle cose” (2017) di Silvio Soldini.

Otto film, dunque, otto istantanee di senso da (ri)scoprire in ambito pastorale, familiare ed educativo per superare barriere sociali, al tempo dell’isolamento da Covid-19.

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