Pupi Avati su Dante, suo valore è poesia non politica

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– Il suo Dante ha fatto commuovere 1.000 studenti di Civitanova appena ieri in una delle decine di proiezioni scolastiche con cui il film di Pupi Avati prolunga la sua vita oltre la proiezione in sala.

Il regista, che si è documentato per mesi diventando ancora più di prima un grande appassionato del Sommo Poeta, interpellato sulle dichiarazioni del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano giudica l’uscita, “sia detto senza alcuna polemica, un po’ pretestuosa.

Nel senso che il valore di Dante, il motivo per il quale è sopravvissuto fino ad oggi e oltre oggi è la sua dismisura poetica, immensa, misteriosa, non certo la sua posizione politica”. Avati riflette e aggiunge: “è anacronistica, visto che parliamo di 700 anni fa e di un contesto completamente diverso. Non la sua posizione politica nè la sua omniscienza lo ha reso immortale, considerato il tempo medioevale, e neppure l’uso del volgare, ma semmai il volgare applicato ad una opera poetica cosi vasta”. Nel film, con Sergio Castellitto-Boccaccio e Alessandro Sperduti-Dante, “mi sono ben tenuto alla larga dall’attribuirgli una posizione politica. Alcuni dantisti lo hanno analizzato per le sue scelte, ma Dante ‘si mise in proprio’, disgustato da tutto e il periodo peggiore della sua vita al quale attribuisce le sue disgrazie furono i due mesi in cui fu priore ‘scendendo’ in politica”. “Se penso a Dante – aggiunge Avati – e all’ideologia non mi verrebbe mai in mente la destra ma diciamo ad onore del vero che la visione delle cose del mondo di Dante è totalmente inapplicabile all’ oggi, con un mondo davvero diverso”. (ANSA).

Dante e i Papi: Vangelo in poesia

La Chiesa ha mostrato più volte il vivo e sentito desiderio di onorare degnamente la figura di Dante Alighieri, di tenere nella giusta considerazione la sua opera, considerandola come elemento essenziale del suo patrimonio culturale e religioso, per il profondo rapporto con la fede cristiana e con la riflessione teologica e filosofica sviluppatasi intorno alle verità della fede.

Ricordando i più recenti anniversari danteschi, ci si accorge che i pontefici, a nome di tutta la Chiesa, hanno tributato al sommo poeta uno straordinario, singolare onore, dedicandogli importanti documenti magisteriali. Nell’enciclica In praeclara summorum, rivolta ai professori e alunni degli istituti letterari e di alta cultura del mondo cattolico (30 aprile 1921), Benedetto XV celebrava il VI centenario della morte di Dante. Per l’occasione il pontefice aveva anche promosso il restauro del tempietto ravennate, attiguo alla basilica di San Francesco, che custodisce la tomba di Dante. Con l’enciclica il papa intendeva affermare ed evidenziare «l’intima unione di Dante con la cattedra di Pietro». Nel poema sono espresse le verità fondamentali della Chiesa cattolica, così da renderlo un «compendio delle leggi divine». A riguardo invece dei noti attacchi contro la Chiesa del tempo, papa Benedetto XV giustifica il sommo poeta: «Chi potrebbe negare che in quel tempo vi fossero delle cose da rimproverare al clero?». Per Benedetto XV Dante «conserva la freschezza di un poeta dell’età nostra », anzi egli è molto più moderno di alcuni poeti contemporanei, i quali rievocano «quell’antichità che fu spazzata da Cristo, trionfante sulla croce».

Nella ricorrenza del VII centenario della nascita di Dante, anche Paolo VIcon la lettera apostolica Altissimi cantus (7 dicembre 1965), evidenziava il profondo interesse della Chiesa per la figura di Dante. Con tale documento il pontefice istituiva, presso l’Università Cattolica di Milano, una cattedra di studi danteschi. La lettera apostolica completava la serie di iniziative attraverso le quali papa Montini volle esprimere l’ammirazione sua e di tutta la Chiesa per il cantore della Divina Commedia: il 19 settembre dello stesso anno aveva inviato per la tomba del poeta a Ravenna una croce d’oro, come segno della risurrezione che Dante professava, e il 14 novembre era stata incastonata nel battistero di San Giovanni a Firenze un’aurea corona d’alloro. Infine, a conclusione del concilio Vaticano II, il papa aveva donato a tutti i partecipanti una pregiata edizione della Divina Commedia.

«Del Signore dell’altissimo canto…». Già con l’incipit della lettera apostolica si evidenzia la centralità assoluta, in tutta la poesia italiana, del sommo poeta, definito «l’astro più fulgido» della nostra letteratura e ancora «padre della lingua italiana». Così scrivendo, Paolo VI rinnovava la profonda riconoscenza al poeta, e seguendo Benedetto XV lo annoverava tra tutti i grandi poeti cristiani. «Dante è nostro», ribadisce papa Montini, seguendo anche in questo Benedetto XV. «Nostro» nel senso di universale, ma anche nostro nel senso della fede cattolica. Paolo VI afferma che è un dovere della Chiesa riconoscere Dante come proprio, che ha come conseguenza necessaria uno studio accurato della sua opera per scoprirne gli «inestimabili tesori del pensiero e del sentimento cristiano».

Tra il sommo poeta e il pensiero cristiano vi sono numerosissimi elementi di contatto. Tra questi il fine stesso della Commedia, che ha in comune col messaggio cristiano l’intento di cambiare radicalmente l’uomo, di portarlo dalla selva oscura del peccato alla rosa mistica della santità. «Onorate l’altissimo poeta!» è l’invito-appello con cui Paolo VI conclude l’Altissimi cantus, sollecitando il «fermo impegno» soprattutto di coloro che, per vari motivi, si sentono a lui più vicini. La cultura contemporanea deve saper incontrare Dante e chiedere a lui la guida verso la «dritta via», spesso impedita dalla selva oscura, verso quello che egli ci indica come «dilettoso monte/ ch’è principio e cagion di tutta gioia».

Benedetto XVI non è meno legato a Dante dei suoi predecessori e più volte, già da cardinale, ricorda e cita il sommo poeta. Il cardinal Ratzinger, infatti, nel libro Introduzione al cristianesimo, scrivendo dello «scandalo del cristianesimo», cioè di Cristo Figlio di Dio fattosi uomo, e quindi del significato dell’essere che va ricercato non nel mondo delle idee ma nel volto di un uomo, rammenta la concretezza di questo pensiero nella conclusione della Divina Commedia di Dante: «Dentro da sé del suo colore istesso,/ mi parve pinta della nostra effigie,/ per che il mio viso in lei tutto era messo». Dante, «contemplando il mistero di Dio, scorge con estatico rapimento la propria immagine, ossia un volto umano, esattamente in centro all’abbagliante cerchio di fiamme formato da “l’amore che move il sole e l’altre stelle”».

Benedetto XVI riprende questo tema e questi versi per spiegare il significato profondo della sua prima enciclica Deus caritas est. Incontrando i partecipanti a un congresso organizzato dal Pontificio consiglio «Cor unum», il pontefice afferma: «Ancora più sconvolgente di questa rivelazione di Dio come cerchio trinitario di conoscenza e amore è la percezione di un volto umano – il volto di Gesù Cristo – che a Dante appare nel cerchio centrale della Luce. Se da un lato nella visione dantesca viene a galla il nesso tra fede e ragione, tra ricerca dell’uomo e risposta di Dio, dall’altro emerge anche la radicale la novità di un amore che ha spinto Dio ad assumere un volto umano». Nell’enciclica, si ribadisce, il papa voleva «tentare di esprimere per il nostro tempo e per la nostra esistenza qualcosa di quello che Dante nella sua visione ha ricapitolato in modo audace».

Il 4 maggio 2015, quando in Senato si sono celebrati i 750 anni dalla nascita di Dante. ho avuto l’onore di essere latore di un messaggio diPapa Francesco che si accosta ai suoi predecessori nella lode e nell’ammirazione per questo grande poeta e credente. Lo stesso pontefice, per altro, nella sua prima enciclica Lumen fidei, aveva raffigurato la luce della fede, che avvolge e coinvolge l’intera esistenza umana, attraverso un’immagine dantesca, la «favilla,/ che si dilata in fiamma poi vivace/ e come stella in cielo in me scintilla» (Paradiso XXIV, 145-147).

Avvenire

Cultura. Istria, dove Dante è di casa

«Negli anni ’70 in Jugoslavia tra noi italiani c’era ancora paura, per le nostre scuole erano tempi duri. Alle elementari in classe eravamo in quattro… Oggi invece la maggioranza croata ha riscoperto le scuole della minoranza autoctona e gli intellettuali vi iscrivono i loro figli, anche perché sono considerate ottime». Parola di Ingrid Sever, 56 anni, che a Fiume è presidente della Società Dante Alighieri, l’ente che ha quasi cinquecento comitati in tutti i continenti e dal 1889 tutela la lingua e la cultura italiana nel mondo. Attualmente i soci del comitato fiumano sono solo trentatré, «ma erano centinaia negli anni ’90, quando dal disfacimento jugoslavo nacque la Croazia e quindi anche la nostra sede. Oggi ci stiamo dando molto da fare, ma il calo di risorse è drastico».

Lo stesso calo che lamenta anche Silvana Micovilli Wruss, 84 anni, dal 1996 attivissima presidente della Dante Alighieri a Pola. Nel suo cognome sembra riassumersi la storia complessa dell’Istria, da secoli crocevia di popoli e culture in cui accade di tutto, anche che due fratelli portino cognomi diversi – Micovilli e Micovillovich –: «Da una parte il fascismo italianizzava, dall’altra il comunismo slavizzava. Wruss invece è il cognome da sposata, mio suocero era austroungarico», sorride. E proprio sotto l’Impero asburgico a Pola era nata la Dante Alighieri, per tutelare l’italianità. «Nel 1918, quando l’Austria perse la guerra e qui diventò Italia, la “Dante” di Pola esplose letteralmente, era florida e contava 500 soci: all’ingresso del municipio fu posto un busto di Dante in marmo, poi anch’esso partito con l’esodo del 1947 e ora conservato a Venezia… sarebbe bello riaverlo indietro». Il Comitato di Pola, poi chiuso dalla Jugoslavia perché considerato irredentista, è rinato nel 1992, nel dopo Tito. E per un busto di Dante esule ne comparve uno “rimasto”: «Un cittadino croato che era entrato ad abitare in una delle case abbandonate dagli italiani venne a portarmi un Dante in marmo che aveva trovato in soffitta, non voleva che andasse perduto, ora abbiamo quello».

Anche a Spalato, la più affascinante città della costa croata, con i suoi palazzi veneti e le vestigia romane del palazzo di Diocleziano, la Dante Alighieri ha riaperto i battenti nel 1995, ottenendo dalla sede centrale di Roma «il privilegio speciale, tra i tanti comitati esteri, di assumere la denominazione di Società culturale italo-croata, a causa degli specifici rapporti storici tra l’Italia e la Dalmazia», dicono a Spalato. «Il nostro obiettivo oggi è promuovere un’ampia gamma di rapporti culturali tra i due Paesi». Risorse permettendo.

Oggi sono 489 i comitati e naturalmente i più attivi sono in quei Paesi che contano numerosi discendenti di italiani, Argentina in testa (circa cento sedi). Con qualche eccezione: gli Stati Uniti, nonostante le diffuse radici italiche, ne hanno solo sette, perché durante la seconda guerra mondiale eravamo i nemici e a pace fatta è difficile ritessere un filo interrotto; mentre in Paesi culturalmente distanti come Marocco o Tunisia le Dante Alighieri crescono e sono molto frequentate da cittadini nordafricani che apprendono la nostra lingua (la quarta più studiata nel mondo). È quella che il neo presidente della Società, Andrea Riccardi (ex ministro della Cooperazione), chiama «italsimpatia», una sorta di felice attrazione che l’Italia esercita nel mondo e sulla quale Riccardi chiede con urgenza di investire: «Facciamo presto – ha detto ad “Avvenire” nel giorno del suo insediamento –, l’italsimpatia non è eterna, se non è coltivata rischia di scemare e noi avremmo perso una grande occasione».

E non c’è altro luogo come l’Istria, Fiume e la Dalmazia per comprendere quanto questo sia vero: qui, a differenza di quanto accade negli altri comitati del pianeta, non si tratta di italiani espatriati in un Paese estero, ma di decine di migliaia di italiani autoctoni, rimasti là dove erano nati, perché furono i confini a spostarsi. In queste regioni l’italianità era passione, al punto che gli esuli persero tutto pur di restare italiani, e i rimasti subirono l’isolamento da parte della nomenklatura jugoslava ma restano i fedeli custodi di una tradizione millenaria… Un patrimonio che rischia di svanire e sarebbe un peccato: oggi molti giovani parlano ancora italiano o veneto, dalla materna all’università studiano nelle numerose scuole rette dall’Italia, alla “Dante” seguono i corsi di lingua necessari per iscriversi poi all’università di Trieste o per trovare lavoro.

«Eppure se in passato dalla sede centrale della Società, che è a Roma, ricevevamo qualche aiuto in più, ora siamo proprio all’asciutto», commentano sconsolati i presidenti dei comitati locali, che sono sei in Croazia (Albona, Fiume, Pola, Spalato, Zagabria, Zara), uno in Slovenia (Capodistria), due in Montenegro. Solo le quote dei soci e qualche piccolo sponsor permettono ancora di dare borse di studio ai meritevoli, organizzare eventi letterari, musicali e teatrali «cui partecipano anche i cittadini della maggioranza croata, ed è questo il modo giusto e pacifico per tenere in vita l’italianità di queste terre», sottolinea Silvana Wruss. Ex insegnante di latino al liceo italiano e di francese alla facoltà di Economia di Pola, è stata nominata cavaliere della Repubblica da Ciampi proprio per il suo impegno volontario.
Confermano tutto alla Società Dante Alighieri di Roma: «I 489 comitati si reggono sul volontariato e sviluppano i loro progetti in autonomia, ma adottano ovunque i princìpi della “Dante” e ad essi adeguano il loro statuto. In passato dal ministero degli Esteri noi ricevevamo fondi consistenti e potevamo elargire di più, oggi invece disponiamo di seicentomila euro annui per tutti. Ovviamente abbiamo un fortissimo interesse perché i Comitati possano lavorare ed eroghiamo quante più borse di studio possibile. Il resto arriva dalle quote di iscrizione dei soci, ma ogni realtà è a sé: se in Argentina molti comitati nascono in seno a circoli di italiani piuttosto agiati, nelle sedi africane non si può certo pretendere…».

Mira al rinnovamento, il neo-presidente Riccardi, e ha già individuato nel Mediterraneo e nei Balcani le due aree su cui puntare: Paesi come Libano, Tunisia, Marocco ed Egitto infatti hanno decine di migliaia di iscritti, mentre sulla sponda orientale dell’Adriatico, come si dice, «anche le pietre parlano italiano». «Speriamo che si accorgano di noi», si augura da Fiume Ingrid Sever, «stiamo cercando di entrare nelle superiori croate per fare cultura con i ragazzi, sarebbe importante e ci metterebbe in un’altra luce, specie oggi che l’italiano va alla grande anche grazie all’ingresso della Croazia in Europa…». «Ma per questo occorrono risorse», ricorda da Pola Silvana Wruss. «Non dimentichiamo che la nostra è un’area di bilinguismo, l’Italia dovrebbe tenerci». Un ispettore da Bruxelles ha invece rilevato che nel municipio di Pola gli impiegati non sanno più l’italiano e la “Dante” locale ha dovuto organizzare i corsi. «Per fortuna li ha pagati l’Unione Europea».

avvenire.it