Cultura. Istria, dove Dante è di casa

«Negli anni ’70 in Jugoslavia tra noi italiani c’era ancora paura, per le nostre scuole erano tempi duri. Alle elementari in classe eravamo in quattro… Oggi invece la maggioranza croata ha riscoperto le scuole della minoranza autoctona e gli intellettuali vi iscrivono i loro figli, anche perché sono considerate ottime». Parola di Ingrid Sever, 56 anni, che a Fiume è presidente della Società Dante Alighieri, l’ente che ha quasi cinquecento comitati in tutti i continenti e dal 1889 tutela la lingua e la cultura italiana nel mondo. Attualmente i soci del comitato fiumano sono solo trentatré, «ma erano centinaia negli anni ’90, quando dal disfacimento jugoslavo nacque la Croazia e quindi anche la nostra sede. Oggi ci stiamo dando molto da fare, ma il calo di risorse è drastico».

Lo stesso calo che lamenta anche Silvana Micovilli Wruss, 84 anni, dal 1996 attivissima presidente della Dante Alighieri a Pola. Nel suo cognome sembra riassumersi la storia complessa dell’Istria, da secoli crocevia di popoli e culture in cui accade di tutto, anche che due fratelli portino cognomi diversi – Micovilli e Micovillovich –: «Da una parte il fascismo italianizzava, dall’altra il comunismo slavizzava. Wruss invece è il cognome da sposata, mio suocero era austroungarico», sorride. E proprio sotto l’Impero asburgico a Pola era nata la Dante Alighieri, per tutelare l’italianità. «Nel 1918, quando l’Austria perse la guerra e qui diventò Italia, la “Dante” di Pola esplose letteralmente, era florida e contava 500 soci: all’ingresso del municipio fu posto un busto di Dante in marmo, poi anch’esso partito con l’esodo del 1947 e ora conservato a Venezia… sarebbe bello riaverlo indietro». Il Comitato di Pola, poi chiuso dalla Jugoslavia perché considerato irredentista, è rinato nel 1992, nel dopo Tito. E per un busto di Dante esule ne comparve uno “rimasto”: «Un cittadino croato che era entrato ad abitare in una delle case abbandonate dagli italiani venne a portarmi un Dante in marmo che aveva trovato in soffitta, non voleva che andasse perduto, ora abbiamo quello».

Anche a Spalato, la più affascinante città della costa croata, con i suoi palazzi veneti e le vestigia romane del palazzo di Diocleziano, la Dante Alighieri ha riaperto i battenti nel 1995, ottenendo dalla sede centrale di Roma «il privilegio speciale, tra i tanti comitati esteri, di assumere la denominazione di Società culturale italo-croata, a causa degli specifici rapporti storici tra l’Italia e la Dalmazia», dicono a Spalato. «Il nostro obiettivo oggi è promuovere un’ampia gamma di rapporti culturali tra i due Paesi». Risorse permettendo.

Oggi sono 489 i comitati e naturalmente i più attivi sono in quei Paesi che contano numerosi discendenti di italiani, Argentina in testa (circa cento sedi). Con qualche eccezione: gli Stati Uniti, nonostante le diffuse radici italiche, ne hanno solo sette, perché durante la seconda guerra mondiale eravamo i nemici e a pace fatta è difficile ritessere un filo interrotto; mentre in Paesi culturalmente distanti come Marocco o Tunisia le Dante Alighieri crescono e sono molto frequentate da cittadini nordafricani che apprendono la nostra lingua (la quarta più studiata nel mondo). È quella che il neo presidente della Società, Andrea Riccardi (ex ministro della Cooperazione), chiama «italsimpatia», una sorta di felice attrazione che l’Italia esercita nel mondo e sulla quale Riccardi chiede con urgenza di investire: «Facciamo presto – ha detto ad “Avvenire” nel giorno del suo insediamento –, l’italsimpatia non è eterna, se non è coltivata rischia di scemare e noi avremmo perso una grande occasione».

E non c’è altro luogo come l’Istria, Fiume e la Dalmazia per comprendere quanto questo sia vero: qui, a differenza di quanto accade negli altri comitati del pianeta, non si tratta di italiani espatriati in un Paese estero, ma di decine di migliaia di italiani autoctoni, rimasti là dove erano nati, perché furono i confini a spostarsi. In queste regioni l’italianità era passione, al punto che gli esuli persero tutto pur di restare italiani, e i rimasti subirono l’isolamento da parte della nomenklatura jugoslava ma restano i fedeli custodi di una tradizione millenaria… Un patrimonio che rischia di svanire e sarebbe un peccato: oggi molti giovani parlano ancora italiano o veneto, dalla materna all’università studiano nelle numerose scuole rette dall’Italia, alla “Dante” seguono i corsi di lingua necessari per iscriversi poi all’università di Trieste o per trovare lavoro.

«Eppure se in passato dalla sede centrale della Società, che è a Roma, ricevevamo qualche aiuto in più, ora siamo proprio all’asciutto», commentano sconsolati i presidenti dei comitati locali, che sono sei in Croazia (Albona, Fiume, Pola, Spalato, Zagabria, Zara), uno in Slovenia (Capodistria), due in Montenegro. Solo le quote dei soci e qualche piccolo sponsor permettono ancora di dare borse di studio ai meritevoli, organizzare eventi letterari, musicali e teatrali «cui partecipano anche i cittadini della maggioranza croata, ed è questo il modo giusto e pacifico per tenere in vita l’italianità di queste terre», sottolinea Silvana Wruss. Ex insegnante di latino al liceo italiano e di francese alla facoltà di Economia di Pola, è stata nominata cavaliere della Repubblica da Ciampi proprio per il suo impegno volontario.
Confermano tutto alla Società Dante Alighieri di Roma: «I 489 comitati si reggono sul volontariato e sviluppano i loro progetti in autonomia, ma adottano ovunque i princìpi della “Dante” e ad essi adeguano il loro statuto. In passato dal ministero degli Esteri noi ricevevamo fondi consistenti e potevamo elargire di più, oggi invece disponiamo di seicentomila euro annui per tutti. Ovviamente abbiamo un fortissimo interesse perché i Comitati possano lavorare ed eroghiamo quante più borse di studio possibile. Il resto arriva dalle quote di iscrizione dei soci, ma ogni realtà è a sé: se in Argentina molti comitati nascono in seno a circoli di italiani piuttosto agiati, nelle sedi africane non si può certo pretendere…».

Mira al rinnovamento, il neo-presidente Riccardi, e ha già individuato nel Mediterraneo e nei Balcani le due aree su cui puntare: Paesi come Libano, Tunisia, Marocco ed Egitto infatti hanno decine di migliaia di iscritti, mentre sulla sponda orientale dell’Adriatico, come si dice, «anche le pietre parlano italiano». «Speriamo che si accorgano di noi», si augura da Fiume Ingrid Sever, «stiamo cercando di entrare nelle superiori croate per fare cultura con i ragazzi, sarebbe importante e ci metterebbe in un’altra luce, specie oggi che l’italiano va alla grande anche grazie all’ingresso della Croazia in Europa…». «Ma per questo occorrono risorse», ricorda da Pola Silvana Wruss. «Non dimentichiamo che la nostra è un’area di bilinguismo, l’Italia dovrebbe tenerci». Un ispettore da Bruxelles ha invece rilevato che nel municipio di Pola gli impiegati non sanno più l’italiano e la “Dante” locale ha dovuto organizzare i corsi. «Per fortuna li ha pagati l’Unione Europea».

avvenire.it