Giornata Mondiale del Malato

Pubblichiamo il testo integrale del messaggio di Papa Francesco per la 31a Giornata Mondiale del Malato (11 febbraio 2023). Nei prossimi numeri de La Libertà daremo spazio alle iniziative in diocesi.

Cari fratelli e sorelle!
La malattia fa parte della nostra esperienza umana. Ma essa può diventare disumana se è vissuta nell’isolamento e nell’abbandono, se non è accompagnata dalla cura e dalla compassione. Quando si cammina insieme, è normale che qualcuno si senta male, debba fermarsi per la stanchezza o per qualche incidente di percorso. È lì, in quei momenti, che si vede come stiamo camminando: se è veramente un camminare insieme, o se si sta sulla stessa strada ma ciascuno per conto proprio, badando ai propri interessi e lasciando che gli altri “si arrangino”. Perciò, in questa XXXI Giornata Mondiale del Malato, nel pieno di un percorso sinodale, vi invito a riflettere sul fatto che proprio attraverso l’esperienza della fragilità e della malattia possiamo imparare a camminare insieme secondo lo stile di Dio, che è vicinanza, compassione e tenerezza.

Nel Libro del profeta Ezechiele, in un grande oracolo che costituisce uno dei punti culminanti di tutta la Rivelazione, il Signore parla così: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, […] le pascerò con giustizia” (34,15-16). L’esperienza dello smarrimento, della malattia e della debolezza fanno naturalmente parte del nostro cammino: non ci escludono dal popolo di Dio, anzi, ci portano al centro dell’attenzione del Signore, che è Padre e non vuole perdere per strada nemmeno uno dei suoi figli. Si tratta dunque di imparare da Lui, per essere davvero una comunità che cammina insieme, capace di non lasciarsi contagiare dalla cultura dello scarto.

L’Enciclica Fratelli tutti, come sapete, propone una lettura attualizzata della parabola del Buon Samaritano. L’ho scelta come cardine, come punto di svolta, per poter uscire dalle “ombre di un mondo chiuso” e “pensare e generare un mondo aperto” (cfr n. 56). C’è infatti una connessione profonda tra questa parabola di Gesù e i molti modi in cui oggi la fraternità è negata. In particolare, il fatto che la persona malmenata e derubata viene abbandonata lungo la strada, rappresenta la condizione in cui sono lasciati troppi nostri fratelli e sorelle nel momento in cui hanno più bisogno di aiuto. Distinguere quali assalti alla vita e alla sua dignità provengano da cause naturali e quali invece siano causati da ingiustizie e violenze non è facile. In realtà, il livello delle disuguaglianze e il prevalere degli interessi di pochi incidono ormai su ogni ambiente umano in modo tale, che risulta difficile considerare “naturale” qualunque esperienza. Ogni sofferenza si realizza in una “cultura” e fra le sue contraddizioni.

Ciò che qui importa, però, è riconoscere la condizione di solitudine, di abbandono. Si tratta di un’atrocità che può essere superata prima di qualsiasi altra ingiustizia, perché – come racconta la parabola – a eliminarla basta un attimo di attenzione, il movimento interiore della compassione. Due passanti, considerati religiosi, vedono il ferito e non si fermano. Il terzo, invece, un samaritano, uno che è oggetto di disprezzo, è mosso a compassione e si prende cura di quell’estraneo lungo la strada, trattandolo da fratello. Così facendo, senza nemmeno pensarci, cambia le cose, genera un mondo più fraterno.

Fratelli, sorelle, non siamo mai pronti per la malattia. E spesso nemmeno per ammettere l’avanzare dell’età. Temiamo la vulnerabilità e la pervasiva cultura del mercato ci spinge a negarla. Per la fragilità non c’è spazio. E così il male, quando irrompe e ci assale, ci lascia a terra tramortiti. Può accadere, allora, che gli altri ci abbandonino, o che paia a noi di doverli abbandonare, per non sentirci un peso nei loro confronti. Così inizia la solitudine, e ci avvelena il senso amaro di un’ingiustizia per cui sembra chiudersi anche il Cielo. Fatichiamo infatti a rimanere in pace con Dio, quando si rovina il rapporto con gli altri e con noi stessi. Ecco perché è così importante, anche riguardo alla malattia, che la Chiesa intera si misuri con l’esempio evangelico del buon samaritano, per diventare un valido “ospedale da campo”: la sua missione, infatti, particolarmente nelle circostanze storiche che attraversiamo, si esprime nell’esercizio della cura. Tutti siamo fragili e vulnerabili; tutti abbiamo bisogno di quell’attenzione compassionevole che sa fermarsi, avvicinarsi, curare e sollevare. La condizione degli infermi è quindi un appello che interrompe l’indifferenza e frena il passo di chi avanza come se non avesse sorelle e fratelli.

La Giornata Mondiale del Malato, in effetti, non invita soltanto alla preghiera e alla prossimità verso i sofferenti; essa, nello stesso tempo, mira a sensibilizzare il popolo di Dio, le istituzioni sanitarie e la società civile a un nuovo modo di avanzare insieme. La profezia di Ezechiele citata all’inizio contiene un giudizio molto duro sulle priorità di coloro che esercitano sul popolo un potere economico, culturale e di governo: “Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza” (34,3-4). La Parola di Dio è sempre illuminante e contemporanea. Non solo nella denuncia, ma anche nella proposta. La conclusione della parabola del Buon Samaritano, infatti, ci suggerisce come l’esercizio della fraternità, iniziato da un incontro a tu per tu, si possa allargare a una cura organizzata. La locanda, l’albergatore, il denaro, la promessa di tenersi informati a vicenda (cfr Lc 10,34-35): tutto questo fa pensare al ministero di sacerdoti, al lavoro di operatori sanitari e sociali, all’impegno di familiari e volontari grazie ai quali ogni giorno, in ogni parte di mondo, il bene si oppone al male.

Gli anni della pandemia hanno aumentato il nostro senso di gratitudine per chi opera ogni giorno per la salute e la ricerca. Ma da una così grande tragedia collettiva non basta uscire onorando degli eroi. Il Covid-19 ha messo a dura prova questa grande rete di competenze e di solidarietà e ha mostrato i limiti strutturali dei sistemi di welfare esistenti. Occorre pertanto che alla gratitudine corrisponda il ricercare attivamente, in ogni Paese, le strategie e le risorse perché ad ogni essere umano sia garantito l’accesso alle cure e il diritto fondamentale alla salute.

“Abbi cura di lui” (Lc 10,35) è la raccomandazione del Samaritano all’albergatore. Gesù la rilancia anche ad ognuno di noi, e alla fine ci esorta: “Va’ e anche tu fa’ così”. Come ho sottolineato in Fratelli tutti, “la parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune” (n. 67). Infatti, “siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile” (n. 68).

Anche l’11 febbraio 2023, guardiamo al Santuario di Lourdes come a una profezia, una lezione affidata alla Chiesa nel cuore della modernità. Non vale solo ciò che funziona e non conta solo chi produce. Le persone malate sono al centro del popolo di Dio, che avanza insieme a loro come profezia di un’umanità in cui ciascuno è prezioso e nessuno è da scartare.
All’intercessione di Maria, Salute degli infermi, affido ognuno di voi, che siete malati; voi che ve ne prendete cura in famiglia, con il lavoro, la ricerca e il volontariato; e voi che vi impegnate a tessere legami personali, ecclesiali e civili di fraternità. A tutti invio di cuore la mia benedizione apostolica.

Francesco

laliberta.info

Santo Stefano, perché si celebra il 26 dicembre? E perché è festa?

(Quadro di S. Stefano nella Cappella della Chiesa di Santo Stefano a Reggio Emilia)

La ricorrenza che ricorda il primo martire cristiano cade il giorno dopo Natale ma non è una festa di precetto

Dopo Natale arriva Santo Stefano, questo lo sanno tutti. Ma forse non tutti sanno perché questa ricorrenza ricade proprio il 26 dicembre, il giorno dopo Natale. E perché in Italia è un giorno festivo. Ecco qualche curiosità su questa giornata.
Chi era Santo Stefano?
Stefano era greco e fu il primo dei sette diaconi scelti a Gerusalemme dalla comunità cristiana perché aiutassero gli apostoli nel ministero della fede. Fu dunque coevo di Gesù e visse negli anni in cui il suo messaggio iniziò a diffondersi. F anche il protomartire, cioè il primo cristiano ad aver dato la vita per testimoniare la propria fede in Cristo e per la diffusione del Vangelo (anche se la morte avvenne dopo il martirio di Giovanni Battista).

Il suo martirio è descritto negli Atti degli Apostoli: venne lapidato alla presenza di Paolo di Tarso che in seguito si convertì lungo la via di Damasco.

È possibile fissare con una certa sicurezza la data della sua morte per la modalità con cui avvenne: il fatto che non sia stato ucciso mediante crocifissione (ovvero con il metodo usato dagli occupanti romani), bensì tramite lapidazione, tipica esecuzione giudaica, significa che la morte di Stefano è avvenuta nel 36 d.C., durante il periodo di vuoto amministrativo seguito alla deposizione di Ponzio Pilato.
Perché si festeggia il 26 dicembre?
La celebrazione liturgica di Santo Stefano è fissata per il 26 dicembre, subito dopo il Natale, perché nei giorni seguenti la nascita di Gesù, furono posti i “comites Christi”, cioè i più vicini nel suo percorso terreno e primi a renderne testimonianza con il martirio. Così il 26 dicembre c’è Santo Stefano primo martire della cristianità, poi il 27 San Giovanni Evangelista, poi il 28, i seguenti.

Perché in Italia è un giorno festivo?
E’ stato lo Stato italiano, nel 1947, a decidere di rendere festivo il giorno dopo Natale, mentre prima era un giorno normale lavorativo: la Chiesa ricorda Santo Stefano. Il giorno di Santo Stefano è festeggiato pure in Austria, Germania, Irlanda, Danimarca, Catalogna, Croazia e Romania.

Il giorno festivo non è causato dalla ricorrenza del Santo, pur esponente importante dei Santi della Chiesa, ma esiste allo scopo di allungare le feste di Natale, come ad esempio il lunedì dell’Angelo, ossia la Pasquetta, che è stata stabilita per lo stesso motivo. Entrambe le date non sono feste di precetto, ma sono state stabilite dallo Stato, per rendere più solenni e fruibili le feste di Natale e Pasqua.

Il dibattito. Comunicare il Vangelo e la Chiesa in Rete: perché è così difficile?

Su Internet bisogna per forza fare i conti con la cultura “orizzontale” che caratterizza oggi tutte le dinamiche sociali e relazionali. Conoscerne le caratteristiche può essere un valido aiuto
Comunicare il Vangelo e la Chiesa in Rete: perché è così difficile?
Avvenire

Chi vuole fare in rete una comunicazione “di contenuti” e non soltanto “di intrattenimento”, si trova a navigare in un mare burrascoso tra Scilla e Cariddi: nel sovraccarico informativo della rete si rischia di essere sommersi, di non riuscire ad ottenere visibilità, ma se si cerca la visibilità con le tecniche e il linguaggio propri della rete, si rischia di rendere la comunicazione poco significativa, omologata alla cultura della rete. Questi temi sono stati tra gli oggetti di una riflessione attenta da parte dell’Ufficio comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana, della Fisc e di WeCa, del Servizio informatico della Cei e di tanti Uffici diocesani, che si sono incontrati in due diverse iniziative di convegno a ottobre e a novembre.

Se l’analisi della situazione è chiara e condivisa, occorre adesso tentare di avviare qualche sperimentazione concreta, che possa diventare indicazione praticabile da tutti. Le modalità di funzionamento della Rete favoriscono una cultura “orizzontale”, in cui ogni opinione ha diritto di cittadinanza con un pari valore di autorevolezza e di verità.

È un effetto del venire meno dei riferimenti oggettivi, dell’affievolirsi del pensiero critico e del discernimento culturale, ma è anche il risultato di caratteristiche specifiche della Rete: l’intercambiabilità di ruoli tra chi produce contenuti e chi li riceve, la progressiva disintermediazione del sapere per cui non ci sono più figure riconosciute con il ruolo di trasmissione delle conoscenze, che viene invece demandato alla rete, ai motori di ricerca, ai social.

La “cultura orizzontale”, tipica del nostro tempo, privilegia l’azione rispetto al pensiero, la decisione basata su reazioni immediate, sul pensiero “veloce”, emotivo, rispetto a quella frutto di riflessione e di razionalità, di pensiero “lento”.

Apparentemente la cultura orizzontale sembra favorire la partecipazione e la condivisione, ma tende piuttosto all’appiattimento, all’omologazione, all’espulsione delle opinioni che si discostano dal pensiero prevalente, indipendentemente dal valore oggettivo che possono avere.

E la Rete, che facilita l’accesso veloce a una grande quantità di informazioni, induce a un certo impoverimento della capacità di cogliere i significati e i collegamenti di senso, con la progressiva incapacità a comprendere e gestire la complessità dei concetti e degli avvenimenti.

La “cultura orizzontale” rischia sempre più diffusamente di trasformarsi in “cultura dell’ignoranza”, caratterizzata dal “sapere tutto e non capire niente”, dal rifiutare ogni parere autorevole per affermare solo le proprie opinioni, confrontandosi con gli altri solo per riceverne conferma. La Rete, ambiente di vita e non più soltanto strumento di comunicazione, diventa costantemente “mediatore culturale”, si interpone tra noi e il nostro stesso pensiero, cambiando le nostre capacità cognitive e le nostre attitudini di apprendimento.

Se a ciò si aggiunge che la Rete è stata anche, in questi ultimi due anni soprattutto, mediatrice di relazioni tra le persone, possiamo intuire quanto l’ambiente di rete sia oggi un potente “filtro” che influenza in profondità la nostra vita. Se nell’era della comunicazione tradizionale, definita da “il mezzo è il messaggio”, bastava apprenderne le tecniche e i linguaggi, nella Rete che “deforma il messaggio” e “inventa l’ambiente” di comunicazione, occorre la capacità di comprendere il contesto e decodificare i messaggi.

Magistero, modernità e riforma

di: Giuseppe Guglielmi – Settimana News
ASCOLTO ATTIVO NELLA PASTORALE" - Diocesi di Vicenza

Michael Seewald è un giovane (1987) teologo e storico del dogma dell’Università di Münster che ha già al suo attivo diverse pubblicazioni, due delle quali tradotte in italiano[1]. Il volume su cui ci soffermiamo brevemente, intitolato Riforma. Quando la Chiesa si pensa altrimenti[2], presenta un’interessante disamina del magistero ecclesiastico e dei dispositivi epistemologici sottesi a questa pratica discorsiva.

Lo sforzo compiuto da questo teologo consiste in una storicizzazione del dogma. Egli ritiene (e noi con lui) che tale impresa sia necessaria per una teologia che intenda essere sempre più consapevole della necessaria appartenenza tanto del magistero ecclesiale quanto della tradizione cristiana ad un orizzonte culturale. D’altra parte, è solo attraverso questa lettura che è possibile riconoscere come la cornice dogmatica stabilita dal magistero rappresenti «soltanto una tra le forme che si può dare la fede cattolica; è una forma determinatasi storicamente, ma non l’unica possibile» (9)[3].

Tuttavia, parlare di formazione storica del dogma può restare un’affermazione generica e non priva di fraintendimenti. Per chi, ad esempio, presuppone che la tradizione cristiana fuoriesca da un’origine nitida e si dispieghi in un progresso storico senza accidentalità, questo studio arrecherà irritazioni piuttosto che interrogativi. Su questo punto è lo stesso Seewald a mettere subito in chiaro che la sua impostazione può essere riconosciuta soltanto da «chi è disposto a storicizzare la propria posizione teologica – o almeno cerca di farlo, dato che non sarà mai possibile farlo del tutto in quanto ciascuno è parte della storia che tenta di interpretare» (9-10).

Entrare in un regime di storicità significa, infatti, prendere coscienza della relatività del proprio punto di vista e dunque assumere un atteggiamento di revisione permanente. Quanto al magistero ecclesiastico e al sapere teologico, far fronte a questo compito significa mettere a tema alcune questioni.

Magistero e modernità
Seewald invita a non leggere il rapporto tra modernità e tradizione in senso meramente oppositivo, e pertanto a non ascrivere alla modernità unicamente la causa di una frattura tra la tradizione istituzionale e il bagaglio di fede del singolo. Tale concezione veicola infatti un modello semplicistico oltre che dicotomico di tradizione: da una parte, vi sarebbe una tradizione unica, continua e oggettiva, custodita dall’autorità religiosa; dall’altra, una tradizione parziale e soggettiva perché frutto di appropriazione e selezione personale.

Mi preme aggiungere che si tratta di un’ingenuità (ma fino a che punto?) messa in evidenza anche da teologi come C. Theobald, P. Gisel e A. Grillo[4]. Per parte sua, Seewald specifica che il magistero non può essere inteso come una sorta di contenitore che raccoglie e trasmette una tradizione già bella e pronta. Al contrario, il magistero costruisce la tradizione di cui si fa garante. Con le sue decisioni, infatti, la Chiesa seleziona, tra una pluralità di possibili dottrine, solo alcune, che diventano pertanto reali[5]. In altre parole, l’ortodossia si costituisce come insieme di possibilità realizzate. Quanto invece viene escluso, resta nello stato di pura possibilità. Professare perciò dottrine che sono state escluse significa entrare nell’eterodossia[6]. Anche la tradizione, che a prima vista appare come semplicemente traghettata da un’istituzione, va dunque percepita – al pari della sua appropriazione da parte del singolo – come un insieme di slittamenti e di riprese.

Non è possibile richiamare qui le tappe principali della costituzione moderna del dogma riprese nel testo. In sintesi, diciamo che nell’epoca moderna l’insegnamento dogmatico si presenta nei termini di una decisione giuridica, avente la forma di una proposizione autoritativa che mira ad essere un’interpretazione corretta della rivelazione (oggetto primario; cf. Dei Filius, in ES 3011). I due soggetti degli insegnamenti dogmatici (magistero infallibile) sono la totalità dei vescovi e il papa (cf. LG 25). Tale insegnamento è esercitato nella forma straordinaria e ordinaria dei vescovi uniti al papa e nella forma straordinaria del solo pontefice (ex cathedra/primaziale).

Seewald si sofferma sulla struttura del magistero infallibile, mettendone in evidenzia la gestazione moderna. Tale magistero «ha avuto lo scopo di presentare l’insegnamento della Chiesa sotto forma di dottrina dogmatica, proponendola cioè in forma decisionale e sanzionata dall’autorità» (57). Questa forma di magistero è perciò già indice del fatto che la Chiesa stessa ha assunto i modelli socio-politici della modernità. Ma si è trattato di un’assunzione «strategica» – chiosa ripetutamente Seewald – nel senso che la Chiesa ha accordato un privilegio a quegli aspetti della modernità funzionali all’esercizio del suo potere, mentre ha sbarrato la strada ad altre pretese.

Ed è proprio dentro questo clima strategico che il teologo tedesco rilegge il caso limite del magistero ordinario del romano pontefice (ad es. le “encicliche”). Esso «aveva lo scopo di dare al papa quei poteri e quell’autorità di cui egli aveva bisogno per essere strategicamente all’altezza della modernità e della sua pressione decisionale, senza però doversi conformare sul piano normativo al ruolo centrale che la Modernità riconosceva alla competenza decisionale del singolo in campo religioso» (58).

Il contesto teologico della creazione di un magistero ordinario del papa è databile a metà Ottocento (K. Kleutgen e lo scontro con J.B Hirscher) e il dibattito circa il suo carattere vincolante è attestato nella Tuas libenter di Pio IX e nella Humani generis di Pio XII. Il Vaticano I stabilì la necessità di un actus fidei divinae et catholicae non solo nei confronti del magistero straordinario ma anche di quello ordinario (cf. ES 3011). Su quest’ultimo punto però, aggiunge Seewald, “non” si specificò se tale magistero ordinario fosse riferito unicamente a quello dei vescovi uniti al papa o anche al magistero del solo romano pontefice[7].

Ciò spiega perché la questione del magistero ordinario del papa abbia dato adito a diversi dibattiti. Sta di fatto – conclude Seewald – che «nella normativa canonica attualmente vigente non è stabilita l’infallibilità» (17), sebbene, azzarda il nostro autore, «ai papi non dispiacesse l’idea di poter fare affermazioni definitive e di porre termine a dispute anche senza impiegare la forma solenne della propria potestà» (18).

Uno sbilanciamento sul piano giuridico: il caso del magistero definitivo
Il Vaticano I non ha dunque stabilito se il magistero ordinario del papa avesse il carattere dell’infallibilità. Neanche il Vaticano II ha fatto affermazioni in tal senso. Inoltre, osserva Seewald, i padri conciliari hanno anche respinto la posizione contenuta nello schema De Ecclesia (23 novembre 1962) secondo la quale l’oggetto del magistero infallibile andava esteso anche all’ambito della natura umana (il non rivelato) e, più nello specifico, della ragione. Siamo qui nell’ambito del cosiddetto “oggetto secondario” del magistero.

Ma a quanto pare, tale aspirazione continuò ad essere coltivata, se si considera che, come fiume carsico, riemerse nei decenni successivi. A partire infatti dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, si è assistito all’introduzione di quello che oggi generalmente viene indicato con l’appellativo di magistero definitivo, sancito in ultima istanza da Giovanni Paolo II con il motu proprio Ad tuendam fidem (1998). In base all’attuale configurazione giuridica, questo magistero si colloca ad un secondo livello, perché segue quello infallibile e precede quello autentico.

Seewald non lo qualifica in questi termini, preferendo parlare di magistero che si riferisce a ciò che non è contenuto nella rivelazione (oggetto secondario)[8]. Il teologo di Münster fa notare che, con il magistero definitivo, si crea un nuovo concetto di dogma, non più legato in modo esclusivo alla rivelazione. «Ora possono diventare dogmi anche le dottrine appartenenti all’oggetto secondario, che dallo stesso magistero non sono considerate rivelate ma soltanto connesse con il deposito della rivelazione» (74).

Il risvolto di questo inasprimento del magistero ecclesiastico è stata la configurazione della Chiesa in senso più giuridico (autorità giuridica) che testimoniale (autorità epistemica). Insistendo sul modo apodittico con cui vengono presentate queste decisioni e dunque sull’osservanza (de fide tenenda) da prestare ad esse, il magistero è andato sbilanciandosi a favore della funzione di insegnare (docendi) piuttosto che di apprendere (discendi). Questo sbilanciamento – osserva Seewald – ha nuociuto alla sua capacità di autocomprensione critica: il magistero è diventato sempre più incapace di riconoscere i propri errori, le proprie debolezze e di ammettere l’opportunità di cambiare orientamento. Celare le discontinuità è diventata così la sua preoccupazione costante.

Sotto il velo delle continuità: tre tipi di sviluppo dogmatico
Seewald intende allora procedere con una decostruzione di quella che stigmatizza come «cosmesi della continuità» (88), mettendo in luce alcuni cambiamenti attuati dal magistero negli ultimi secoli. In estrema sintesi, egli individua tre principali modelli di sviluppo dogmatico, a ciascuno dei quali consacra uno o due casi specifici.

Il primo modello è quello dell’autocorrezione esplicita: la Chiesa dichiara apertamente di abrogare ciò che ha precedentemente stabilito[9]. Ma l’autocorrezione (e veniamo così al secondo modello) è stato il meno praticato tra i processi di sviluppo dogmatico. Esponendo infatti l’insegnamento della Chiesa alla conflittualità, mette in discussione quell’alone di immutabilità di cui si è soliti fregiarla. Per questo motivo si è preferito un altro tipo di sviluppo dogmatico, quello dell’oblianza. Si tratta cioè di «introdurre correzioni dottrinali facendo un ricorso consapevole all’oblio» (105), nella speranza cioè che nessuno si ricordi delle precedenti posizioni della Chiesa sulla stessa materia[10].

A proposito di questo secondo modello di sviluppo, Seewald non cela le sue critiche. Evitando un’autocorrezione esplicita, la Chiesa corre il rischio di perdere la sua pretesa di essere un’istituzione di senso. Nascondere le proprie mosse nuoce ad una Chiesa che intende essere credibile sul piano socio-culturale ed entrare nel dibattito pubblico (autorità epistemica). Vi è, infine, per Seewald anche una terza modalità di sviluppo dogmatico. Si tratta dell’occultamento dell’innovazione. In pratica, la Chiesa sostiene con forza una posizione, ma non dice che lo può fare grazie al fatto di essersi corretta di recente su tale questione[11].

A mio avviso, questi tre modelli di sviluppo dogmatico di cui si è potuto solo fare cenno, stanno a mostrare un dato di fondo: il magistero, al pari di ogni altra forma di comunicazione della fede e più in generale di ogni altra pratica discorsiva, può paragonarsi ad una stoffa su cui è imbastito un disegno. Quello che prima facie si vede è ovviamente il disegno. Occorre girare il tessuto per leggervi le tracce di una cucitura fatta di cesure, riprese, puntelli. È proprio questa tortuosità a costituire la linearità degli effetti di superficie.

Continuità della Chiesa o delle sue proposizioni dottrinali?
Per tenere proficuamente in tensione la «continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato» (Benedetto XVI) [12], nella discontinuità vissuta nel corso della sua storia, occorre – per Seewald – far leva sull’indefettibilità della Chiesa (continuità materiale) piuttosto che sull’idea dell’indefettibilità delle norme dottrinali. Queste infatti sono storicamente situate (rispondono alla sacramentalità della rivelazione) e sono affidate alla Chiesa.

Quando perciò la Chiesa non riesce più a presentare in modo credibile il suo insegnamento come Vangelo, deve operare una sterzata. Ma questo significa, prosegue Seewald, che «lo sviluppo dogmatico non si deve pensare come una continua aggiunta di nuovi pezzi a un edificio o come una crescita numerica di decisioni dogmatiche, ma include l’aspetto della correzione del contenuto dogmatico» (160)[13].

Dato che trovo molto importante quest’ultima osservazione di Seewald, provo a ritornarvi con alcune mie osservazioni. Nello studiare lo sviluppo del dogma, occorre indagare criticamente le regole che presiedono alle formazioni discorsive, denominare le procedure interne ai discorsi, come anche individuare i principi che classificano, ordinano e distribuiscono. È quanto hanno fatto alcuni studiosi contemporanei, i quali hanno insistito sulla necessità di portare alla luce procedure come il «commento» (Foucault), il «sistema cumulativo» (Theobald), le «cristallizzazioni» (Gisel).

A mio avviso, si tratta di procedure che obbediscono al dispositivo generale secondo cui essentia involvit existentiam, ovvero quel dispositivo che stabilisce un quadro armonizzante e totalizzante entro cui andrebbero inseriti gli eventi. Le evenemenzialità della storia, alla stregua dei tasselli, riceverebbero perciò la loro significatività entro un mosaico più grande già costituito e normalizzante. Ciò che però viene ad essere depotenziata qui è proprio la storicità della fede stessa, la quale non sempre si accontenta di ri-formulare con altre parole lo stesso contenuto, ma richiede anche l’apertura a nuove comprensioni e, di rimando, l’eventuale correzione di alcune formulazioni.

Consapevolezza e discernimento: per una Chiesa sinodale
La lettura di questo volume mi spinge ad evidenziare almeno due stimoli che l’impresa teorica di Seewald consegna al dibattito teologico.

Il primo input è quello di riconoscere (in termini di consapevolezza) la modernità della Chiesa. Seewald ritiene che una posizione anti-moderna risulta essere comunque un progetto moderno. Slogan del tipo: «La Chiesa deve modernizzarsi», risultano in tal caso ambigui. Associare riforma e modernizzazione è fuorviante perché la Chiesa, scrive Seewald, «è già moderna»! Al massimo occorre chiedersi

«se la modernizzazione della Chiesa cattolica finora attuata sia ben riuscita o se invece ci siano motivi per situare la fede cristiana nel tempo presente secondo un profilo diverso da quello attuato finora. Solo attraverso una storicizzazione di questo genere è possibile superare la logora contrapposizione tra uno status quo carico di norme, da una parte, e progetti di riforma che se ne distanziano presentandosi come presunte forme di ribellione, dall’altra. Lo status quo magisteriale, infatti, che nella Chiesa cattolica si circonda volentieri dell’aura di “ciò che è sempre stato così”, a un’osservazione più attenta risulta in realtà relativamente nuovo e risale, se si pensa per esempio allo sviluppo del concetto di dogma sotto Giovanni Paolo II, a un passato recente» (77).

Da qui il compito futuro che individuo in questo programma: quello di fare teologia consapevoli del carico di storia di cui siamo intessuti e delle preoccupazioni del presente in cui il Vangelo del Regno chiede di essere vissuto. Un compito che richiede capacità di argomentazione critica, nel riconoscimento − al di là delle idee e degli orientamenti differenti sul piano ecclesiale e teologico − di dover rispondere sempre ad un presente, senza rimandi a momenti ideali o ad epoche normative, a sviluppi lineari e a processi irreversibili.

Dietro i discorsi ammantati di continuità, come lo stesso Seewald mostra in questo studio, giocano il più delle volte non dichiarate preoccupazioni di ottenere stabilità nel presente e necessità di perpetuare se stessi, piuttosto che effettivi riscontri storiografici e di fede vissuta. La continuità, lungi dal significare il restare bloccati in un’architettura dottrinale, va intesa piuttosto come un fenomeno ecclesiale. Questo significa che la Chiesa deve continuamente vivere un atteggiamento di riforma, nel senso di «dare forma» alla propria missione in linea con il messaggio del vangelo.

Solo se si tiene presente questa esigenza, si comprende la necessità di una correzione anche sul piano dogmatico. Ciò non significa, aggiunge Seewald, che la Chiesa debba cambiare “comunque”. Ma che, anche quando si ritiene di restare fermi su qualcosa, una Chiesa che si pensa altrimenti lo deve fare passando attraverso un confronto argomentativo e non «in base al grado dell’ordine sacro» (183).

In definitiva questo saggio può aiutarci a comprendere il senso di una Chiesa sinodale, ovvero di una Chiesa che intende fare del discernimento e della consapevolezza il suo asse centrale. Il rischio è infatti che, pur partendo da genuine intenzioni, la sinodalità diventi uno slogan della stagione ecclesiale che stiamo vivendo, anziché criterio e prassi di coloro che intendono mettersi alla sequela di Gesù Messia.

Giuseppe Guglielmi è docente presso la Facoltà teologica di Napoli (sez. San Luigi) e direttore della rivista Rassegna di Teologia. Il presente testo è una sintesi di un contributo più ampio che comparirà nella rubrica «Presentiamo un Libro» del numero 1/2023 di Rassegna di Teologia.

[1] Personalmente ritengo che il primo scritto (Il dogma in divenire. Equilibrio dinamico di continuità e discontinuità, Queriniana, Brescia 2020), resti più sul piano formale del trattato teologico, ovvero di quei testi didatticamente utili in quanto orientativi per chi voglia accostarsi alle questioni storiche e teologiche, ma non particolarmente originali sul piano dell’apporto scientifico.

[2] M. Seewald, Riforma. Quando la Chiesa si pensa altrimenti, Queriniana, Brescia 2022 (le citazioni del volume saranno riportate direttamente nel corpo dell’articolo).

[3] Seewald insiste nel ribadire che la dottrina della Chiesa non si risolve in una delle sue forme, quale può essere quella dogmatica. Si dà dunque una distinzione tra vangelo e dogma. Il vangelo è l’annuncio dell’agire salvifico di Dio, in parole ed opere, mediante Gesù Cristo. Inoltre, questo vangelo è affidato alla comprensione umana e dunque alla precarietà e fallibilità del pensiero. A proposito del rapporto tra vangelo e dogma Seewald rimanda a W. Kasper, Il dogma sotto la Parola di Dio, Queriniana, Brescia 1968, 28s.

[4] Cf. C. Theobald, Spirito di santità. Genesi di una teologia sistematica, EDB, Bologna 2017, 219-249; P. Gisel, La teologia: identità ecclesiale e pertinenza pubblica, EDB, Bologna 2009, 125; Id., Che cos’è una tradizione? Ciò di cui risponde, il suo uso, la sua pertinenza, Inschibboleth, Roma 2019, 21ss; A. Grillo, Da museo a giardino. La tradizione della Chiesa oltre il “dispositivo di blocco”, Cittadella, Assisi 2019.

[5] Queste selezioni stanno a dimostrare che «il magistero non è custode di un patrimonio che si è trovato fra le mani già definito, ma è esso stesso a dargli forma determinando con le sue decisioni cosa faccia parte della tradizione e cosa no» (54).

[6] È proprio a partire da questa immagine delle possibilità realizzate e di quelle che non realizzate, come anche della linea di confine che le separa, che Seewald costruisce il suo discorso sulla riforma intesa come operazione che sposta tale linea «trasformando qualcosa che finora è stato reale in qualcosa che in futuro sarà solo possibile o qualcosa che era possibile in qualcosa che d’ora in poi sarà reale» (138).

[7] La giuridizzazione della fede spostò così l’asse della discussione circa le questioni dottrinali dalla competenza teologica a quella giuridica. In questo quadro, si chiede Seewald, «perché continuare ancora a fare teologia […] visto che c’è il papa che dice ciò che è giusto, e ci sono i canonisti che danno forma giuridica a ciò che è giusto, difendendolo con sanzioni penali?» (66).

[8] Ricordiamo qui brevemente gli interventi degli ultimi decenni che hanno portato alla formazione del magistero definitivo: il documento Congregazione per la Dottrina della fede Professione di fede e giuramento di fedeltà (1988); l’Istruzione Donum veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo (1990) della medesima Congregazione; la modifica apportata alla parte finale del paragrafo 88 del Catechismo della Chiesa cattolica, nella seconda edizione latina del 1997 (la prima edizione è del 1992); il motu proprio Ad tuendam fidem del 1998, con il quale Giovanni Paolo II inserisce il secondo tipo di insegnamento del magistero (definitivo) nel Codice di diritto canonico; la Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della «Professio fidei» della Congregazione per la Dottrina della Fede che appare in calce al motu proprio. Il Codice riformulato secondo il motu proprio, descrive il magistero definitivo in questi termini: «si devono pure fermamente accogliere e ritenere anche tutte e singole le cose che vengono proposte definitivamente dal magistero della Chiesa circa la fede e i costumi, quelle cioè che sono richieste per custodire santamente ed esporre fedelmente lo stesso deposito della fede; si oppone dunque alla dottrina della Chiesa cattolica chi rifiuta le medesime proposizioni da tenersi definitivamente» (can 750 § 2).

[9] L’esempio riportato da Seewald è quello relativo alle modifiche introdotte dal magistero ecclesiastico nella dottrina teologico-liturgica del ministero ordinato (cf 88-105).

[10] L’esempio riportato questa volta dal teologo di Münster è quello relativo alla recezione teologica della biologia evolutiva nell’enciclica Humani generis di Pio XII e alla silenziosa correzione successiva (cf. 105-116).

[11] In questo caso, uno degli esempi presi da Seewald è quello relativo alla riabilitazione del valore della libertà di coscienza e di religione (cf. 116-130).

[12] Benedetto XVI, «Discorso di Sua Santità Benedetto XVI alla curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi» (22.12.2005), in EV 23/1531 (cf. 150).

[13] «È possibile che una dottrina semplicemente non sia più in grado di trasmettere ciò che ogni dottrina della Chiesa deve comunicare: il vangelo. Se, per esempio, il ministero ordinato non si presenta più come ministerium (LG 10), come servizio alla fede della comunità». Può succedere, infatti, che nel corso di eventi storici contingenti esso abbia acquisito «la forma di un ordine monarchico o corporativo» e che si sia innalzato «alla sfera di realtà sacrosanta». Pur considerando che «una forma simile di organizzazione sociale della Chiesa fosse adeguata in passato […]; per il presente essa è – a voler essere prudenti – discutibile e, se non ci sono argomenti a suo favore, la si deve modificare» (167).
settimananews

“Donne Chiesa mondo” parla della povertà al femminile

Che cosa significa povertà? Il povero è qualcuno da aiutare o un esempio da seguire? Parte da questi interrogativi la riflessione di Alessandra Smerilli sul nuovo numero di “ Donne Chiesa mondo”.

Nel mese in cui cade – il 13 novembre – la VI Giornata mondiale dei poveri, la rivista dell’Osservatore romano ha voluto affrontare la questione – quantomai attuale – dalla prospettiva femminile. Povere si può essere per scelta, per ribellione alla schiavitù del mercato e del consumo, per inseguire un’idea altra di felicità. È questa la povertà di Chiara, ben raccontata nell’articolo di Giuseppe Perta, studioso di storia medievale. In un’età “maschia” – scrive –, ritagliò per sé e per le consorelle uno spazio di libertà ed emancipazione, sintetizzato nella “Regola”, la prima scritta da mano di donna, della più grande congregazione di religiose al mondo, raccontata dalla superiora Françoise Petit nell’intervista di Marie-Lucile Kubacki. La povertà di suor Veronica Maria, all’anagrafe Emanuela Fittante, descritta da Gloria Satta. Promettente ballerina di flamenco, ha lasciato tutto per fondare la comunità religiosa delle Piccole suore di Gesù e di Maria, caratterizzata dalla pratica della povertà radicale per evangelizzare le persone attraverso l’azione itinerante. C’è, però, anche una povertà che significa negazione dei propri diritti, abbruttimento, schiavitù. È il risultato «dell’economia che uccide», per parafrasare papa Francesco, come ricorda nel suo articolo Luigino Bruni, pronta a scartare gli uomini e soprattutto le donne. Già le donne. Come sottolinea suor Smerilli, religiosa, segretaria del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale e economista di fama, «neanche la miseria livella i generi».

Da questa povertà fuggono le centroamericane accolte e aiutate a Tapachula, in Messico attraverso la danza – come dice Antonella Mariani – dalla comboniana Pompea Cornacchia. La rivista si interroga anche su quale profilo anno le povere attuali “nella” e “per la Chiesa”. E lo fa facendo riflettere sul tema teologi, vescovi, sacerdoti, religiose, attiviste. Dalle testimonianze, risulta innegabile una indigenza specifica di genere, con indicatori diversi da quelli strettamente monetari, che è fatta di emarginazione, solitudine, esclusione, relazioni distorte di potere, diseguaglianza. Ci sono tante povertà femminili. Qualche volta invisibili.

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Un’insistita sottolineatura degli aspetti faticosi della vita matrimoniale sembra dominare troppi discorsi ecclesiali, mettendo in ombra ciò che è buono, bello e gioioso del matrimonio

di SERGIO DI BENEDETTO e GILBERTO BORGHI – vinonuovo.it

Dopo aver letto con attenzione gli Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale e aver avanzato alcune considerazioni sugli elementi positivi e alcune note sui nodi che ci sono parsi problematici, vogliamo condividere un post scriptum finale, una preoccupazione che nasce dal tono generale del documento, insieme a un’aria che si respira ultimamente attorno al matrimonio in alcuni ambiti ecclesiali, ossia quella per cui il matrimonio sarebbe quasi solo fatica, sforzo, sacrificio, rinuncia, crisi, problema: sono termini e questioni che sembrano dominare il discorso sulla vita matrimoniale.

La domanda che nasce spontanea in noi è molto semplice: ma crediamo davvero che il matrimonio sia bello? Che la vita matrimoniale risponda a un desiderio bello e buono di Dio sull’uomo e la donna? Siamo convinti che il matrimonio è anche gioia, letizia, serenità, compimento?

L’impressione è che troppo spesso in ambito ecclesiale tendono a prevalere i toni più drammatici e cupi quando si parla di matrimonio. Indubbiamente, non siamo ingenui né disincarnati: sappiamo che oggi la vita di coppia in senso lato e la vita matrimoniale in modo specifico conoscono un momento di crisi, che la statistica stessa si incarica di ricordare (solo nel 2020 – anno peraltro di pandemia – ci sono state quasi 180.000 rotture, tra separazioni e divorzi). E siamo anche ben coscienti che il contesto sociale e culturale in cui viviamo spinge per ‘relazioni liquide’ (Bauman), con forte insistenza su emotività, identità, individualismo, piena e immediata soddisfazione dei propri desideri: fattori che mal si conciliano con ogni relazione umana, matrimonio incluso.
Dunque, è innegabile che ci siano componenti di fatica nella scelta e nella ‘pratica’ della vita di coppia, ed è bene dare rappresentazioni realistiche del matrimonio, soprattutto in un documento pensato per i fidanzati.
Ma, al tempo stesso, non possiamo nascondere che paiono prevalere le parole di fatica e di dubbio, di pena e di rinuncia del sé. Anche in questo caso Amoris Laetitia era capace di parole di consolazione, speranza, fiducia (fin dal titolo: la gioia dell’amore). E che nella pastorale ci fosse la tentazione a insistere più sulla sforzo che sulla bellezza del matrimonio lo dichiarava lo stesso Papa Francesco: «Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita» (AL, 37).

Quello che si fatica a comprendere è che per uscire dalla dittatura liquida ed emotiva in cui viviamo, non serve più a nulla un richiamo forte alla volontà razionale, affinché si imponga su queste inclinazioni deleterie e ci permetta di vivere il bene, perché questa strada oggi non è più percorribile. E Francesco lo sa bene, quando, ad esempio, per stare alla sfera della sessualità, in AL mostra come la deriva dell’eros da ‘consumare’ non si ferma innalzando barriere etiche e limitandosi a mettere in guardia dai pericoli della sessualità, bensì riconoscendo in una ritrovata unità interiore tra gioia e piacere la condizione che oggi permette di non consegnare l’eros alla mentalità consumistica della post-modernità, e di viverlo perciò in pienezza. «È dolce e consolante la gioia che deriva dal procurare diletto agli altri, di vederli godere […]. I gesti che esprimono tale amore devono essere costantemente coltivati, senza avarizia, ricchi di parole generose» (AL 129 e 133). Per il papa un vero amore «non rinuncia ad accogliere con sincera e felice gratitudine le espressioni corporali dell’amore nella carezza, nell’abbraccio, nel bacio e nell’unione sessuale» (AL 157) perché da buon figlio di sant’Ignazio di Loyola sa che «non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare interiormente le cose» (Esercizi spirituali, annotazione 2)

Una narrazione della vita matrimoniale che non tenga conto del bene e della gioia che in essa si trova, soprattutto da chi poi ha scelto altri stati di vita, è contraddittoria con quanto la sapienza cristiana e la vita umana hanno sperimentato nel corso del tempo, e cioè che anche una vita che si fondi sull’amore di coppia può essere pienamente umana, pienamente cristiana e bella, feconda, capace di pace, di crescita e di benevolenza. È una vita che merita di essere vissuta. Altrimenti, solo sostando sulla ‘crisi’ e sul ‘problema’ (in un atteggiamento preventivo che poi risulta anche un poco artificiale e moralistico), faremo un discorso parziale: «Tutto quanto è stato detto non è sufficiente ad esprimere il vangelo del matrimonio e della famiglia se non ci soffermiamo in modo specifico a parlare dell’amore» (AL, 89).
Insomma, è vero che sempre meno persone scelgono il matrimonio cristiano; è vero che esistono delle difficoltà. Ma se non abbiamo il coraggio di raccontare in modo bello il matrimonio (evitando al tempo stesso le semplificazioni e le ‘fantasie emotive’), di testimoniare la sua ricchezza, la sua fecondità, negheremo quello che dovrebbe essere, invece, un pilastro della sensibilità e della coscienza cristiana: «Il Vangelo della famiglia è risposta alle attese più profonde della persona umana: alla sua dignità e alla realizzazione piena nella reciprocità, nella comunione e nella fecondità» (AL, 201).

A meno che, e questo è un dubbio che non vorremmo avere, non si pensi sottotraccia che una vita evangelica, nelle sue diverse forme, non sia pienamente umana…

Anche su questo, in fondo, bisognerebbe riflettere. Non dobbiamo però dimenticare che pure il tono, il modo, lo stile e l’insistenza solo su certi argomenti tende a consolidare e veicolare una visione della vita.