L’ospedale come luogo di evangelizzazione, missione umana e spirituale

di MARIO PONZI

“L’ospedale come luogo di evangelizzazione, missione umana e spirituale”: sarà questo il tema della XXVII conferenza internazionale organizzata dal Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, che si terrà dal 15 al 17 novembre di quest’anno in Vaticano. Una scelta, dice monsignor Jean-Marie Mupendawatu, segretario del dicastero, fatta in considerazione dell’Anno della fede e del prossimo Sinodo dei vescovi incentrato sulla nuova evangelizzazione. La Chiesa, infatti, ha sempre avvertito il servizio ai malati come parte integrante della sua missione. Oggi tuttavia essa ha maturato una più chiara consapevolezza del ruolo attivo del malato, non solo destinatario di un servizio pastorale ma chiamato al compito di protagonista e responsabile dell’opera di evangelizzazione e di salvezza. “E certamente l’ospedale – dice il prelato – è un luogo privilegiato nel quale egli può realizzare questa sua peculiare missione umana e spirituale”. Ma lo è ancor di più dove “ospedale è lui stesso, cioè il malato”, i medici “sono dei volontari” e le corsie sono “lo scantinato o il garage di una parrocchia”, come accade là dove la Chiesa non ha ancora pieno diritto di cittadinanza. In proposito il segretario racconta l’esperienza vissuta recentemente in Vietnam, dove si è recato per celebrare la Giornata mondiale del malato.

In cosa consistono e come nascono questi singolari ospedali vietnamiti?

Sono l’esempio più bello della carità della Chiesa che si manifesta anche nelle più dure ristrettezze, sia economiche che sociali. Ne ho visitato uno ad Hôchiminh Ville, nel febbraio scorso, quando sono andato in Vietnam per celebrare con la Chiesa locale la Giornata del malato. È stato voluto dal cardinale Jean-Baptiste Pham Minh Mân, arcivescovo di Thàn-Phô Hô Chí Minh. Generalmente sono piccole strutture ricavate in garage o scantinati di parrocchie, allestite in modo semplicissimo e con scarsi mezzi, nelle quali vengono assistiti malati che non hanno possibilità di accedere alle cure perché estremamente poveri. Nella struttura di Hôchiminh Ville sono assistiti malati terminali, soprattutto quelli colpiti dall’Aids. Arrivano la mattina ma la sera devono rientrare nelle loro case. Per legge non possono trascorrere la notte in questi locali. Vengono quindi ricoverati dalla mattina alla sera per fare un’analisi, per avere i medicinali, per farsi curare piaghe o ferite. Quando però la situazione richiede interventi più complessi, c’è l’obbligo di trasferire le persone all’ospedale.

Chi lavora in queste strutture?

È proprio questa la più bella testimonianza offerta dalla Chiesa: vedere la grande lezione d’amore dei tanti volontari che prestano la loro opera accanto a questa gente. Dunque è persino improprio parlare di lavoro. A meno che non si intenda parlare di lavoro missionario. Ci sono religiosi di diverse congregazioni, suore e moltissimi laici che si aiutano l’un l’altro per alleviare le sofferenze di quanti si rivolgono alla struttura. Inoltre, ci sono medici che lavorano normalmente negli ospedali pubblici, i quali sono ben lieti di dedicare il loro tempo libero a quest’opera caritatevole. Numerosi anche gli studenti di medicina. Ricordiamo che in quel Paese la Chiesa non ha – non può avere – né istituti di cura né istituti d’istruzione.

Qual è l’atteggiamento delle autorità nei confronti di queste strutture?

Diciamo che, come accade in tante altre realtà, c’è una porzione importante della popolazione che non ha accesso praticamente alle cure, a causa della sua povertà. La Chiesa se ne prende carico ma lo fa in modo molto discreto e senza pubblicità. È un impegno molto importante soprattutto per fronteggiare l’Aids.

Quante ce ne sono nel Paese di queste strutture?

Direi che nelle parrocchie più grandi è possibile organizzarle. Per esempio in quella dei domenicani, dove abbiamo celebrato la messa per la Giornata del malato, ne hanno allestita una abbastanza grande. Anche se hanno pochi mezzi, riescono a fare un ottimo lavoro di assistenza. Hanno persino un’ambulanza, dono della Conferenza episcopale italiana, con la quale vanno a prendere i malati al mattino e li riportano a casa la sera. Ci sono poi le suore della Carità che fanno un lavoro straordinario a favore delle donne con problemi psichici, che vengono letteralmente raccolte per strada, perché spesso non hanno nessuno che si occupi di loro. Le curano in un modo straordinario. Realizzano veramente quell’ospedale della carità, ispirato da madre Teresa, che non ha altre mura se non quelle dell’amore. E sono luoghi-non luoghi di evangelizzazione straordinari.

Che non soffrono certo di problemi di gestione.

Assolutamente. Gestiscono l’amore, quello ricevuto in dono da Cristo: e si tratta di un bene che non va mai in crisi. Cosa che invece può capitare quando ci sono da gestire strutture sanitarie complesse. Anzi, in questa ottica gli istituti diventano quasi un ostacolo perché impegnano in compiti che hanno poco a che fare con la spiritualità della pastorale. Ma certo l’ottica è completamente diversa, perché bisogna considerare altri contesti. Resta comunque il fatto che missionari e volontari dimostrano ancora una volta che la Chiesa non è fatta di strutture ma di persone, che il nostro tempio è il corpo, il corpo di Cristo.

È dunque una Chiesa viva, quella che è in Vietnam.

È una bellissima Chiesa, che ha tanti giovani, tante vocazioni. Ho visto l’attenzione dei pastori – cominciando dal cardinale stesso – nel promuovere le vocazioni. Ci sono pochi seminari ma sono molto frequentati. I fedeli partecipano come possono, attivamente e con tanto fervore. Alla messa per la Giornata mondiale la bellissima cattedrale di Hôchiminh Ville era gremitissima. C’erano tanti malati ma anche moltissimi giovani, quelli che aiutano. E la cosa straordinaria è che tra loro c’erano anche diverse persone di altre religioni, soprattutto buddisti. Testimonianza interessantissima. Anzi, ci sono molti centri nei quali cattolici e buddisti lavorano insieme.

Possono essere un esempio per alcune delle istituzioni gestite da enti e congregazioni religiose in Italia e nel mondo?

Dobbiamo tornare secondo me alla “missione” della Chiesa nel mondo della salute. Perché, questo è il punto, noi ci siamo per continuare l’operato del Signore. E per il Signore il luogo di cura è un luogo di evangelizzazione, di carità, di amore. A una persona che ha bisogno, bussa e chiede, occorre rispondere come ci ha detto di fare il Signore. Del resto, ce lo ha mostrato lui stesso. Con la medicina, con la scienza, noi possiamo restituire la guarigione, ma non dobbiamo limitarci a ciò. Questo è il rischio: si bada solo al corpo, si pensa solo a restituire salute in conseguenza di una domanda fisiologica. Si corre così il rischio di non compiere pienamente il mandato del Signore, che comprende anche la salute dell’anima. Il fine della missione della Chiesa è la salus animarum. Questo è il criterio che si deve seguire per valutare ogni cosa che fa la Chiesa. Se noi cerchiamo di costruire un bellissimo ospedale senza anima, senza salvezza, siamo fuori dalla missione che ci viene dal nostro Signore. Per questo non possiamo pensare da manager. Non è questo il nostro compito. Il Signore non ci ha detto di fare così. Potremmo anche lasciare gli ospedali, ma certo non possiamo lasciare il nostro servizio al mondo della sofferenza e della salute. È una missione da portare comunque avanti, anche al di fuori degli ospedali. L’esempio è lì, in quella terra del lontano oriente, dove la pastorale della salute si identifica veramente con la pastorale dell’amore e della carità.

(©L’Osservatore Romano 25 aprile 2012)