Le parrocchie del futuro

La trasformazione della parrocchia “classica” implica, non da ultimo, nuove ministerialità e nuove forme di collaborazione: unità pastorali, raggruppamenti di parrocchie, comunità pastorali. Su entrambi i versanti occorre ragionare, sperimentare e… investire convintamente le proprie energie.

«Esisterà ancora la parrocchia?»: questo interrogativo, che apre la serie dei contributi raccolti nel volume, interpreta una preoccupazione comune sul destino delle comunità cristiane e delle prassi pastorali legate al cristianesimo sociale.
Nella Chiesa italiana (e non solo) si stanno delineando nuovi scenari, che vanno criticamente pensati: è in atto una trasformazione della parrocchia classica, che ne chiama in causa la forma, i tempi e gli spazi di azione. Non si tratta di avviare un’operazione di “ingegneria pastorale”, quanto di disporsi a un’autentica “ecclesiogenesi”, a partire da alcune coordinate fondamentali: la pastoralità come tensione all’ascolto di Dio e dell’umano, la sinodalità, il dinamismo di riforma, la vocazione alla fraternità e sororità, l’ospitalità e il servizio, il dialogo con la realtà contemporanea. Queste e altre dimensioni, consapevolmente assunte, strutturano una pastorale in conversione missionaria, capace di misurarsi con le sfide della città e di rimodularsi valorizzando una ministerialità plurale – maschile e femminile, individuale e familiare – attraverso cui dare forma a una nuova presenza della Chiesa sul territorio, più corrispondente al sogno di Dio.

Le parrocchie del futuro

Andrea Toniolo, Assunta Steccanella (edd.)
Le parrocchie del futuro
Nuove presenze di Chiesa
Collana: Giornale di teologia 445
ISBN: 978-88-399-3445-1
Formato: 12,3 x 19,3 cm
Pagine: 240
© 2022

Fonte: queriniana.it

Teologia / È possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente?


di: Francesco Cosentino – Settimana News
«È possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza? Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale». Le edizioni San Paolo hanno pubblicato il saggio di teologia della rivelazione di Francesco Cosentino, teologo e docente di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana: Dio ai confini. La Rivelazione di Dio nel tempo dell’irrilevanza cristiana. Anticipiamo di seguito l’Introduzione del volume.
In un colloquio sul futuro del mondo e della Chiesa, avvenuto a Roma nel 1982, a Karl Rahner fu chiesto quali fossero secondo lui i problemi teologici più urgenti; il teologo tedesco rispose senza esitazione che, alla fin fine, erano quelli di sempre: «I problemi teologici più antichi, che sono, in fondo, anche i più attuali: Com’è possibile un’autentica esperienza di Dio? Come posso conoscere veramente che Dio si è rivelato, in Gesù Cristo, in modo assoluto e definitivo?».

L’eco di quelle domande ritorna anche oggi: ha ancora senso parlare di Dio nel nostro tempo? La questione appare tutt’altro che scontata, mentre ereditiamo la compagine storica del Novecento che, attraversata da catastrofi e da epocali cambiamenti, ha «liquidato» la domanda su Dio o, tutt’al più, l’ha relegata ai contorni della vita e di una religiosità privata. Dio è ormai ai confini della vita, ai margini della storia.

Si tratta di una sfida che chiede alla riflessione teologica di uscire dall’angolo, prendendo coscienza del fatto che «il cristianesimo è ormai in una posizione minoritaria: mentre ha la pretesa di rappresentare ancora tutti, in verità tende a farsi una setta, di cui nessuno capisce più il linguaggio e la gestualità» (Elmar Salmann).

Teologia della rivelazione
Spontaneamente si tende a pensare che un simile esercizio teologico abbia a che fare con elaborate e astratte interrogazioni intellettuali, mentre invece il parlare di Dio non è mai dissociato dal suo dirsi/darsi nell’esperienza come realtà che abbraccia la totalità dell’esistenza umana e luogo che le conferisce senso e interpretazione. Tanto più che, specialmente nel nostro contesto, si può affermare che a essere venuta meno non è una qualche dimostrazione sull’esistenza di Dio quanto piuttosto la sensibilità interiore per la relazione con ciò che ci supera: «Nella questione su Dio non è mai la prova che manca. Si tratta di gusto. Ha perduto, almeno in apparenza, il gusto di Dio: ecco la diagnosi più triste e allarmante sulla nostra epoca» (Henri De Lubac).

La teologia della rivelazione è sempre strettamente legata a quell’esperienza che denominiamo fede, in un esercizio che tenta di offrire uno sguardo differente sulla vita e sulla storia, a partire da quella eccedente sorpresa del Dio rivelatosi in Gesù Cristo: Dio si manifesta come Dio solo nel suo donarsi e affidarsi al tempo e all’uomo, nel suo dimorare presso le case degli uomini in quanto Egli stesso Dio pienamente e profondamente umano.

In tal senso, ogni riflessione teologica è una teologia fondamentale pratica, che lega esperienza di Dio ed esperienza dell’uomo, e che Rahner ha saputo incarnare con queste parole: «In fondo noi vogliamo soltanto riflettere su questa semplice domanda: «Che cos’è un cristiano e perché oggi possiamo vivere questo essere cristiani con onestà intellettuale?». Mentre viviamo un’ora «caratterizzata dall’oscuramento della luce celeste, dall’eclissi di Dio» (Martin Buber), è anzitutto la possibilità stessa del parlare di Dio all’uomo contemporaneo che va nuovamente affrontata.

La parola «Dio», infatti, mentre ci rimanda alla trascendenza ineffabile del Mistero divino, è anche la parola scolpita nel cuore dell’umano e della sua vicenda, e dunque parola che ci supera: evento che mentre indica la strada apre interrogativi, che offre la pace solo al prezzo di un ribaltamento delle umane sicurezze e che invita al superamento di sé e all’ospitalità di un’alterità sorprendente.

Nella complessa compagine postmoderna è ancora questo il compito della teologia contemporanea: «Far sì che Dio sia nuovamente udito come Dio: frantumando la coscienza storica moderna, smascherando le presunzioni della razionalità moderna, esigendo attenzione per tutti quelli che sono stati dimenticati o emarginati dal progetto moderno» (David Tracy). Si tratta anzitutto di superare gli angusti confini di una metafisica che incasella Dio nelle categorie dogmatiste dell’essere, per approdare verso la specificità del Dio cristiano che, in quanto amore e relazione, si configura come un «eccesso trasgressivo», un dono che supera e sorprende.

Questo è ciò che rende Dio «più che necessario» e lo riscatta dall’emarginazione cui è stato da tempo condannato: non si tratta di un monolite arroccato nell’alto dei cieli e nello splendore della sua divinità, ma di un Dio-Amore che discende in mezzo a noi e della nostra sorte si prende cura. Evento cristiano per eccellenza, quello della Rivelazione di Dio in Cristo Gesù e nello Spirito Santo è l’accadimento che manifesta non soltanto «ciò che Dio fa» ma anche e soprattutto «ciò che Dio è»: Agape, Dio per noi.

Guardare al presente, affacciarsi al futuro
La centralità della Rivelazione, per la teologia, è un dato incontrovertibile: credere significa essere attratti e poi trasportati nella verità e bellezza della Rivelazione, per poter contemplare il mistero stesso del Dio Uno e Trino. E la Rivelazione, in tal senso, rappresenta la sintesi di tutto il sapere teologico e dell’atto di fede: la Parola di Dio si compie e si realizza nella Rivelazione di Dio in Gesù Cristo, cosicché essa diviene onnicomprensiva dell’evento della fede e della teologia.

Certo, «riproporre la questione di Dio e del suo significato per l’oggi può sembrare un’operazione quasi museale, attardata sullo sfondo di un passato religioso» (Carmelo Dotolo) che ormai non c’è più. Tuttavia, se ritornare alla teologia della rivelazione potrebbe suggerire l’idea di una sorta di viaggio all’indietro al solo scopo di rivisitare le pagine di una riflessione del passato, in realtà, riconsiderare i contenuti e i linguaggi che hanno approfondito il cuore del Mistero cristiano si presenta ai nostri occhi come un compito tanto proficuo quanto urgente; non si tratta di contemplare una ricchezza «che fu» quanto, piuttosto, di affacciarsi sull’orizzonte presente e futuro del cristianesimo interrogandosi se la domanda su Dio sia ancora determinante e decisiva tanto da potersi collocare tra le grandi domande dell’esistenza e, al contempo, affrontando alcune altre domande: è possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza?

Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale.

Si tratta di un contesto sociale e culturale da più parti definito postcristiano e, al contempo, post-ateo, in cui la crisi della fede e la discussione sul futuro possibile del cristianesimo rappresentano un pungolo per la riflessione teologica e non possono non esserlo anche per la vita della comunità credente. Tale questione è stata posta da Paul Tillich già qualche decennio fa e va oggi affrontata nuovamente in tutta la sua radicalità: «Ciò che mi preoccupa più profondamente in questi ultimi anni è la questione: il messaggio cristiano (specialmente la predicazione cristiana) è ancora rilevante per le persone del nostro tempo? E se non lo è, qual è la causa? E ciò si riflette sul messaggio del cristianesimo stesso?».

Occorre tuttavia situare l’interrogativo in un orizzonte teologico il più possibile chiaro: in riferimento al Dio di Gesù Cristo, che cioè si rivela in Gesù Cristo e in Lui ci consegna «la buona notizia», parlare di rilevanza non significa rivendicare una potenza religiosa della fede cristiana negli spazi del mondo, quanto piuttosto la capacità del cristianesimo di liberare e sprigionare nell’esistenza dei nostri contemporanei la vita che il Vangelo trasmette. Si comprende fin d’ora, cioè, che l’orizzonte in cui muoversi non è quello rispondente allo schema dell’apologetica classica, prettamente preoccupata di trasmettere la verità della fede e l’insieme delle sue dottrine, ma quello della teologia del Novecento e del Concilio Vaticano II, che intende la rivelazione di Dio come la sua stessa autocomunicazione d’amore e, perciò, l’incontro e il dialogo che Egli stabilisce con gli uomini e con la storia.

Con la vita degli uomini e delle donne
La questione non si limita a una riflessione teorica, ma investe l’orizzonte esistenziale. Lo aveva ben intuito Karl Rahner, che in una Conferenza tenuta il 22 luglio del 1982 alla Facoltà teologica di Würzburg, parlò di «una teologia con cui poter vivere», cioè si chiese se esista una teologia non stabilita su idee astratte riguardanti Dio ma su quel Dio che si è rivelato per rendere umanamente possibile e vivibile la vita umana. Rahner non nega l’importanza di una teologia accademica e scientifica, differenziata in molte discipline e settori e avente uno sterminato campo di indagine; tuttavia, una teologia che è consapevole di avere un carattere sovrascientifico, per il giovane teologo coinciderà con la concentrazione sulle questioni fondamentali, per approdare a una teologia che lo sostenga nella vita di persona umana e di credente:

«Nella sua teologia, perché sia degna d’essere vissuta, egli deve aver riflettuto con tutto l’impegno della sua esistenza e ovviamente anche con la sua razionalità su che cosa è propriamente la rivelazione; su quale rapporto intercorra fra la storia delle religioni e la storia di una rivelazione particolare e regionale; se e come sia ancor oggi possibile parlare seriamente di Dio in un mondo secolarizzato e positivamente scettico e come si possa far capire che cosa intendiamo dire con questo termine; su come fare per scoprire in sé, nell’uomo della vita quotidiana, un qualcosa come l’esperienza di Dio […]. Se si possa seriamente affermare che un uomo, per essere pienamente uomo e cristiano, debba aver qualcosa a che fare con una Chiesa e con la sua burocrazia e praticare appunto religiosamente i riti che sono in uso nella Chiesa cattolica romana».

Chiedersi se il cristianesimo sia o possa essere rilevante per l’uomo d’oggi significa interrogarsi dunque sulla sua capacità non di trasmettere una verità intellettuale, astratta e separata dalla vita, ma di comunicare la vita che Dio ci ha rivelato e donato in Gesù Cristo, e che abita in noi e nella storia per mezzo dello Spirito. Si tratta di comprendere fino in fondo, con tutte le implicazioni esistenziali del caso, che la notizia inaudita del cristianesimo è questa: la vita è possibile, nonostante tutto. Infatti:

«E proprio questa cosa inaudita da sentire che dice il Vangelo: esiste una Vita che non è delimitata dal nulla. Il Vangelo è l’annuncio che è possibile vivere veramente, dunque un annuncio buono da intendere, se è vero che ogni essere umano deve affrontare almeno una volta al giorno, la sola vera domanda: che senso ha la mia vita? Chi gli dirà quale vita vale la pena di essere vissuta?» (Dominique Collin).

Se il Dio della rivelazione cristiana possa ancora avere a che fare con la vita degli uomini e delle donne di oggi è un interrogativo che diventa sempre più scottante. A nulla serve, peraltro, tentare di affrontarlo da un punto di vista prettamente «pastorale», scivolando di fatto nel pericolo di una dicotomia tra teologia e agire ecclesiale. La domanda è invece teologica, dal momento che essa intende scavare e approfondire non solo e non tanto una crisi di pensiero ma gli ostacoli culturali, esistenziali e spirituali che impediscono al vivere odierno di aprirsi alla relazione con Dio.

Evangelizzare attraverso la Rete agganciandosi a video popolari

GUIDO MOCELLIN – Avvenire

Si chiama “Catholic-link” ed è un grande portale latinoamericano di «fonti per la nuova evangelizzazione ». L’ha ideato nel 2011, e tuttora lo dirige, Mauricio Artieda, peruviano, proveniente dal Sodalicio de Vida Cristiana (comunità attualmente nel travaglio della riscrittura, con l’assistenza della Santa Sede, delle proprie costituzioni, dopo le sanzioni comminate al fondatore Luis Fernando Figari). Ben formato nel campo delle comunicazioni sociali, tra i relatori all’incontro “Hechos29” degli evangelizzatori ispanofoni (a Monterrey, lo scorso agosto), Artieda spiega in un’intervista del 2021 a “Religion en Libertad” ( bit.ly/3E5FLvf ) che l’idea originaria era di fare un blog in cui condividere materiali per i propri studenti (all’epoca insegnava religione a Roma), scelti secondo criteri ampi: «estratti da film, pubblicità, video sulla fisica quantistica, anime… ». L’attuale portale, piuttosto popolare anche negli Stati Uniti, è ormai pensato come «un ecosistema digitale» e non come un sito a sé stante; si giova di uno stuolo di 40 giovani professionisti della comunicazione, perlopiù latinoamericani, e risulta presente anche sui maggiori social nework, con numeri di follower a sei cifre. Nel grande mare di materiali che propone, mi saltano all’occhio tre recenti post. Dall’ultima canzone di Shakira, che narra di una relazione di coppia che si spezza “ineluttabilmen-te”, Maria Claudia Arboleda ( bit.ly/3DFWsf4 ) trae spunto per una convinta catechesi sul sostegno che Dio assicura alle coppie cristiane. A un cliccatissimo video del 2019 del rapper Prince Ea sul rischio di investire tutto nella carriera lavorativa, Carla Restoy ( bit.ly/3DBANEZ ) si aggancia per proporre piuttosto, con ripetute citazioni di san Josemaría Escrivá, la possibilità di una santificazione «del», « nel» e «con» il lavoro. E uno spot pubblicitario in cui certe ciambelline aiutano la protagonista a dare a sé stessa una «seconda possibilità» serve a Myriam Ponce ( bit.ly/3WBvTjO ) per parlare dei «deserti» che la vita spirituale può attraversare e dei mezzi (la preghiera in primis) per superarli. Vedo tuttora riflessa nei tre post l’idea originaria da cui “Catholic-link” ha avuto origine: si può fare evangelizzazione anche svelando le domande su Dio celate nei prodotti della cultura popolare.

Catechesi. Lavorare in équipe: irrinunciabile

Lavorare insieme, nell’iniziazione cristiana (ma non solo), chiede alcune attenzioni: chiarire l’obiettivo, scegliere un metodo, definire i tempi, darsi delle regole… È una scelta che mette in modo numerose risorse: collaborazione e confronto tra generazioni, creatività nelle proposte, contaminazioni positive di stili ed esperienze

Catechesi. Lavorare in équipe: irrinunciabile

Abbiamo assistito in questi ultimi anni a una vera e propria rivoluzione nel modo di trasmettere la fede ai ragazzi, passando dal tradizionale “andare a dottrina” dal parroco (ricordo trent’anni fa la mia personale esperienza con il nostro allora parroco don Anselmo che ci interrogava su tutte le preghiere, i precetti, le virtù, i vizi capitali, i comandamenti che dovevamo rigorosamente imparare a memoria) a una iniziazione cristiana che coinvolge non solo i bambini ma anche i loro genitori e non centrata più sulla figura del parroco ma di laici formati e chiamati a lavorare in equipe.

Penso in particolare al Tempo della Fraternità che coinvolge i preadolescenti guidati da un’équipe di catechisti ed educatori giovani e/o altri operatori pastorali presenti nella parrocchia. Una scelta fuori dal comune, coraggiosa, innovativa, sfidante, fatta ormai quasi dieci anni fa per aiutare i ragazzi a entrare in contatto con una comunità più ampia del piccolo gruppo a cui appartengono, una comunità di adulti, di educatori, di catechisti, di missionari che vogliono prendersi cura del loro percorso di crescita.

L’équipe stessa diventa per i ragazzi un esempio di fraternità, di relazione con tutte le gioie ma anche le inevitabili difficoltà che il lavorare insieme comporta.

Sono stata coinvolta in questi ultimi anni nella formazione a catechisti ed educatori del Tempo della Fraternità sul tema del lavorare in equipe cercando di far cogliere loro la ricchezza e il valore di questo nuovo metodo. Certo non mancano i risvolti critici come ad esempio la difficoltà di mettere insieme età, stili, idee, culture, esperienze diverse tra catechisti ed educatori che possono in alcuni casi aumentare la conflittualità, rendere più lunga la preparazione degli incontri, creare frustrazione, ma le esperienze fatte hanno anche dimostrato come l’obiettivo comune di mettere al centro i ragazzi e il desiderio di far vivere loro esperienze di crescita e di fede abbia fatto superare le difficoltà iniziali e fatto maturare nella capacità di lavorare insieme.

Sicuramente alcune attenzioni diventano fondamentali per le équipes: chiarire l’obiettivo, scegliere un metodo, definire i tempi, darsi delle regole per rendere la conduzione armoniosa, poter disporre di risorse economiche, fisiche (importanza di spazi dedicati), poter contare su una comunità per risolvere eventuali problemi e non sentirsi soli.

La scelta del lavorare in équipe non può che continuare, così da mettere in moto risorse irrinunciabili: la collaborazione e il confronto tra generazioni, la creatività e dinamicità delle proposte ai ragazzi e la contaminazione positiva tra stili ed esperienze dei catechisti e degli educatori. Sono convinta che dovremo continuare ad accogliere la sfida di ulteriori cambiamenti, pur mantenendo fede all’obiettivo.

DIFESADELPOPOLO.IT

La questione sinodale richiede una ricostruzione storica condivisa che permetta di uscire da alcuni pantani ecclesiali che sembrano oggi ineluttabili

Non ho la possibilità di rispondere puntualmente alle riflessioni qui svolte da Sergio Ventura a partire dalla mia rubrica su Jesus dello scorso luglio. Provo tuttavia a reagire in spirito di dialogo.

Accostare due sinodi così lontani è chiaramente una provocazione che, in quanto tale, resta precaria e fragile. L’intento era unirmi a coloro che avvertono urgente la necessità di una narrazione di parresìa sui decenni coincisi con le presidenze della CEI del card. Ruini e dei suoi immediati successori (a scanso di equivoci, «parresìa» non è qui da intendersi come «grande sincerità e coraggio individuali», ma nel senso molto più complesso che Andrea Grillo ha ben spiegato qui).

Non sono uno storico, ma occupandomi di teologia, posso riconoscere come non esista quasi nessun tema di grande attualità per la Chiesa italiana che non si trovi a dover fare i conti con quanto è successo negli ultimi quarant’anni, su cui è tuttavia difficile una narrazione condivisa. Trattando ad esempio del tema «teologia e cultura», due anni fa scrivevo insieme alla prof.ssa Stella Morra che:

«a metà degli anni ’80, la Conferenza Episcopale Italiana, su richiesta esplicita di papa Giovanni Paolo II, insistette molto sulla promozione di alcuni valori identitari, intorno cui costruire un profilo riconoscibile del cristiano cattolico italiano. Tali intenti trovarono una concretizzazione esplicita in una serie di iniziative sfociate nel Progetto Culturale della fine degli anni ’90. Lo scopo dichiarato era strutturare su valori o principi – che poi avrebbero trovato nei documenti magisteriali la qualifica di «non negoziabili» – una sorta di scheletro culturale del popolo di Dio. Esso, tuttavia, ha creato una situazione di conflitto – per certi versi diremmo inevitabile – che la chiesa italiana non aveva mai vissuto con questi toni, a differenza di altri paesi vicini come la Francia. La forte polarizzazione che ne è scaturita – anche all’interno della chiesa stessa – ha portato a una sconfitta di tutte le parti: abbiamo infatti quasi completamente rigettato una matrice popolare senza tuttavia conquistarne altre, consumandoci in scontri duri e spesso sterili» (Incantare le Sirene. Chiesa, teologia e cultura in scena, EDB, Bologna 2019, 234).

Questo embrionale tentativo di valutazione – molto più articolati sono ad esempio i saggi di Sorge giustamente citati da Ventura, o gli studi di De Rita – non vuole essere un giudizio di valore sull’operato dei singoli, sui quali ci sembra pleonastico ricordare che tra cristiani vale sempre l’attribuzione delle migliori intenzioni e il riconoscimento dell’assunzione di responsabilità in spirito di servizio, quanto piuttosto una ricostruzione che permetta di uscire da alcuni pantani in cui oggi vige quasi una sensazione di ineluttabilità, più che di immobilismo. Pur riconoscendo ai protagonisti del tempo la loro retta intenzione e la bontà di alcune scelte, penso che oggi sia evidente come i prezzi pagati siano stati molto alti. E non solo per la «cultura», ma anche per molti altri campi dell’evangelizzazione.

Faccio un altro esempio. Negli stessi anni del testo che evocavo nel pezzo su Jesus, il prof. Severino Dianich avvertiva che interpretare la «missione» nel senso del «compito pastorale» – come poi è stato spesso fatto – avrebbe portato inevitabilmente a una «strozzatura individualistica, soprattutto quando missione e compito pastorale restano determinati da un’ecclesiologia della struttura invece che dell’evento, da una teologia della chiesa nella quale, in maniera esplicita o nascosta, si pensa la chiesa esistente quando esiste il suo apparato sociale, dal quale essenzialmente emana la sua operosità, e non quando esiste il fatto comunionale come principio del suo agire. […] Se alla chiesa “piantata” resta da svolgere un compito pastorale che non è la missione, il suo problema principale non è più quello del rapporto con il mondo, ma quello della salvezza dei singoli cristiani. Il problema del rapporto con il mondo, dalla grande questione dell’impatto del vangelo con la storia si riduce alla piccola questione della rivalità fra la chiesa e lo stato, e della distribuzione delle competenze fra autorità religiosa e civile nella determinazione della vita pubblica dei cittadini. Succede così che si ha una chiesa decisamente apolitica alla base e una chiesa fortemente politicizzata al vertice: l’abbondantissima letteratura sul problema chiesa-stato, dove la chiesa non è la comunità cristiana ma solo la gerarchia, e dove lo stato non è la comunità civile ma la sua organizzazione nelle strutture dell’autorità, testimonia della grave restrizione di interessi nella quale una simile teologia prima o poi va a finire» (Chiesa estroversa, San Paolo, Cinisello Balsamo 20182, 133-134. [ed. or. 1987]) [1].

Era il 1987. Internet era fantascienza e il delitto d’onore era stato abrogato da solo 6 anni. Ma i grandi teologi hanno questo di bello, che vedono lontano. E i loro insegnamenti sono qualcosa cui si può tornare. A patto ovviamente che la storia sia raccontata tutta e, in quegli anni, la posizione di Dianich non fu certo tra le più ascoltate.

Tornare alla dignità del sacerdozio battesimale, vivere senza paura l’ecumenismo, riconoscere le questioni di genere, ridare slancio al movimento liturgico, stare dalla parte dei poveri anche quando non è comodo, affrontare il conflitto imparando la fraternità: l’elenco potrebbe continuare, ma questi temi non vanno interpretati come i singoli campi di battaglia in cui oggi dobbiamo entrare per sconfiggere l’avversario di turno (fuori e dentro la chiesa), quanto piuttosto le direttrici della forma che la chiesa italiana prenderà nel prossimo futuro. Questa prospettiva si acquisisce, a mio giudizio, assumendo anche un valido punto di vista storico, di cui abbiamo necessità urgente.
vinonuovo.it

Atti: il Vangelo senza confini


Il Vangelo fino ai confini della terra. Testimonianze e missione negli Atti degli apostoli
di: Roberto Mela
commento

Antonio Landi, professore della Pontificia Università Urbaniana, raccoglie e aggiorna sei articoli già pubblicati su riviste specializzate di Teologia e di Esegesi biblica (l’ultimo è ancora in stampa). La centralità del tema studiato nell’ambito del libro degli Atti ne fa un commentario in nuce della struttura essenziale che lo sostiene. Se esso si caratterizza come il libro della “corsa della Parola”, va ricordato che questa avviene sulle gambe degli apostoli e dei testimoni…

Struttura del libro
Un’Introduzione (pp. 7-19) fornisce gli elementi essenziali di narratologia per individuare in Atti la trama con le sue caratteristiche di esito di riconoscimento o di soluzione, i momenti di suspense, la narrazione per episodi drammatici, il confronto serrato fra i personaggi (sygkrisis) ecc.

I capitoli si incentrano su aspetti fondamentali del libro. Il primo analizza il passaggio “Dal riconoscimento alla testimonianza. Il riconoscimento della risurrezione in Luca e Atti” (pp. 19-48). Il secondo studia “Lo statuto testimoniale degli apostoli in Atti” (pp. 49-83), mentre il terzo si sofferma sul tragitto “Da Gerusalemme ai confini della terra. I destinatari della missione cristiana in Atti” (pp. 83-103). L’analisi di “Pietro, una figura identitaria per la cristianità lucana” (pp. 103-128) precede l’approfondimento vertente su “L’inclusione dei gentili” (pp. 129-148). Chiude il volume un capitolo dedicato a “Paolo e lo Spirito in Atti” (pp. 149-172).

Le Conclusioni (pp. 173-176), precedono le sigle (pp. 177-178), la Bibliografia (pp. 179-198), l’Indice dei nomi (pp. 199-202), l’Indice delle citazioni (bibliche, pp. 203-222; non bibliche, pp. 223-225).

È inevitabile che qualche concetto o analisi compaia più volte nella trattazione, data la natura originaria del libro, ma sempre interessanti e mai ripetitivi in modo pedissequo. I tre capitoli inziali sembrano di interesse generale, e ci concentriamo su di essi. Gli altri trattano figure e temi più particolari.

Dal riconoscimento alla testimonianza
È noto il fatto che la conclusione del Vangelo di Luca e l’inizio di Atti si sovrappongano con il fenomeno dell’embricatura, per cui alcune tematiche sono riprese due volte. Dal riconoscimento del Risorto si passa alla testimonianza del Risorto.

La tomba vuota è un indizio insufficiente per testimoniare la risurrezione di Gesù. Per poter capire i fatti avvenuti, occorre riattivare la memoria delle parole di Gesù dette in precedenza e che si organizzano attorno un “dei”, una necessità salvifica che abbraccia AT e NT. Scritti della Torah, dei Profeti e dei Salmi – seppur con testimonianze a volte molto tenui –, sono preannunci della necessità salvifica della morte e risurrezione di Gesù.

Gli Undici – con altri, probabilmente – sono commensali del Risorto e, ripercorrendo i fatti e compiendo un esercizio di interpretazione ermeneutica, arrivano a scoprire, con la luce dello Spirito, che la risurrezione è un’iniziativa di Dio, pieno compimento di parole e di eventi già presenti nell’AT come tipi (esodo, servo sofferente, salmo di fiducia del giusto nel suo non essere abbandonato nella polvere della morte ecc.).

Già presente all’inizio del Vangelo di Luca con le parole di Giovanni Battista e di Gesù a Nazaret, la salvezza assume un carattere universale. Essa comprende la conversione e il perdono dei peccati a partire da Gerusalemme stessa.

Come in tutte le cose, l’annuncio dei discepoli-testimoni, ampliato in spazi più universali, suscita una duplice reazione: divisione e incredulità, sia tra i gentili (cf. At 17, Areopago) sia tra gli ebrei. Ad Antiochia di Pisidia, Paolo (con Barnaba) denuncia il rifiuto del vangelo da parte dei giudei con parole di interpretazione teologica: «Era necessario che a voi per primi fosse annunciata la parola di Dio ma, poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani» (At 14,46).

Il rifiuto dei giudei della diaspora sarà l’occasione storica, non teologica, dell’annuncio ai pagani. L’annuncio del vangelo ai pagani era un deliberato progetto divino, fondato sulle Scritture di Israele (cf. Is 49,6b citato in At 13,47), legittimato dalla cristologia lucana, secondo cui Gesù è la salvezza che Dio ha predisposto per tutti popoli, «luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele» (Lc 2,32).

«Anch’essi [= i pagani] ascolteranno», sono significativamente le ultime parole di Paolo a Roma (At 28,38). Col ritratto di Paolo che predica senza impedimenti a Roma si conclude l’opera doppia di Luca. Gesù risorto è vincitore sulla morte. «Riconosciuto nei segni della parola, annunciata e compresa, e del pane, spezzato e condiviso, il Risorto è testimoniato dai suoi apostoli da Gerusalemme fino ai confini della terra, perché chi ascolta possa convertirsi e credere nel Cristo vivente, e così ottenere la salvezza» (p. 47).

La finale aperta di Atti chiede al lettore di continuare la testimonianza di Pietro, di Paolo e degli altri apostoli.

Lo statuto testimoniale degli apostoli in Atti
Nel libro degli Atti, gli apostoli (che per Luca sono solo i Dodici, integrati con Mattia dopo la morte di Giuda) assumono uno statuto testimoniale caratteristico. Gli incaricati della missione sono soprattutto il collegio dei Dodici. Già in Lc 24,28 dal Risorto essi sono chiamati martyres di tutte queste cose: vita, insegnamento, passione, morte e risurrezione di Gesù. A loro e ai due discepoli di Emmaus Gesù risorto apre le sacre Scritture e le loro menti affinché le capiscano, sappiano riconoscere nella risurrezione il compimento di tutto ciò che era stato detto e fatto da Gesù e predetto nelle Scritture.

Sono soprattutto la passione e la risurrezione di Gesù il nucleo della proclamazione apostolica che gli apostoli devono attuare come testimoni e interpreti/profeti. Devono essere testimoni attendibili dei fatti e interpreti corretti del loro significato salvifico. La novità assoluta dell’incarico sta nel collegare l’annuncio alle genti della conversione in vista della remissione dei peccati con l’adempimento delle Scritture (Lc 24,46-47).

La missione salvifica inaugurata dal Battista e compiuta da Gesù si prolunga con la predicazione degli apostoli. L’autorità che la fonda è quella di Gesù e la potenza che la anima è quella dello Spirito Santo promesso. Quanto è accaduto a Gesù corrisponde alle promesse fatte da Dio ai padri. Pietro lo testimonia a Gerusalemme e nel sinedrio, come farà coraggiosamente anche Stefano, perdendovi la vita in un furibondo linciaggio.

Pietro aprirà per primo la strada dell’evangelizzazione ai pagani in casa di Cornelio. Paolo porterà l’annuncio ai confini della terra. Progressivamente la missione apostolica si cristologizza. In Lc 9,2 essa ha per oggetto il Regno di Dio, mentre in At 1,8 il Risorto identifica se stesso con il contenuto della predicazione.

At 1,8 indica un percorso geografico-teologico-testimoniale di progressiva universalizzazione della testimonianza e dei destinatari da raggiungere, oltre ogni prospettiva nazionalistica. Lc 2,30-32, ricorrendo al linguaggio di Is 42,6 e 49,6b, universalizza il messaggio della salvezza alle genti, legittimate da Luca sulla base delle Scritture. At 2,5, con la menzione di ogni etnos presente a Gerusalemme, indica l’universalità dei destinatari dell’annuncio salvifico. Lo Spirito Santo sarà effuso «su ogni carne» (At 2,17) e alla salvezza potrà ambire «chiunque invocherà il nome del Signore» (At 2,21).

Lo Spirito Santo è l’agente che fa passare potentemente dall’essere all’agire, alla prassi della testimonianza. La promessa da attendere annunciata dal Risorto (Lc 24,49; At 1,4) è lo Spirito stesso con cui saranno battezzati i Dodici e anche altri a Pentecoste. Lo Spirito ha una forza potente (dynamis) che è alla base dell’annuncio, della testimonianza fatta con parrhesia/franchezza, del battesimo dei primi credenti, della forza testimoniale degli apostoli sotto processo e di Stefano di fronte al Sinedrio.

Il cammino degli apostoli è tratteggiato da Luca in stretto confronto/sygkrisis col percorso compiuto da Gesù nel Vangelo. Essi attuano una testimonianza collegiale, anche quando parlano singolarmente. Questo avviene anche tramite prodigi ed eventi miracolosi. La testimonianza assume, infine, l’aspetto della veridizione, in quanto l’apostolo testimonia con tutta la sua vita, incluse persecuzioni, incarcerazioni, sofferenze mortali e uccisioni.

La missione dei testimoni è posta in tal modo sotto il segno della croce.

Testimoni di me
Se in Lc 24,47 gli apostoli devono esser testimoni «di tutte queste cose», in At 1,8 il Risorto dice loro che «di me» sarete testimoni. Questo particolare – secondo Landi – richiama la convocazione d’Israele davanti alle nazioni «per deporre a favore della realtà e dell’unicità di Dio; in Is 43,10.12; 44,8 il popolo è invitato a rendere testimonianza dell’unico vero Signore, per avere sperimentato la sua azione salvifica (Is 43,11) e la sua benevola premura (Is 44,6-7)». Israele è chiamato a testimoniare l’unicità di Dio di fronte all’idolatria dei popoli. Non esiste altro salvatore all’infuori di YHWH (Is 43,11-12). La salvezza, riconosciuta come prerogativa del Dio di Israele, è riletta in chiave cristologica ed è parte dell’annuncio apostolico. Esiste quindi un rapporto tipologico tra la testimonianza d’Israele alle genti e la missione degli apostoli, così come descritta da Luca-Atti» (p. 72).

Gli apostoli realizzano così la tipologia del servo isaiano. In Lc 24,48 il Risorto riecheggia Is 43,10.12; 44,8) caratterizzando l’identità degli apostoli come testimoni di Cristo; in At 1,8 il Risorto riecheggia Is 49,6b e caratterizza gli apostoli grazie all’estensione della missione apostolica fino ai confini della terra.

Paolo il «Testimone»
Il ritratto testimoniale di Paolo è quello di una persona che, da persecutore, diventa testimone con la sua parola, i segni prodigiosi, il suo annuncio, il suo imprigionamento sulla stregua di quello di Gesù.

Per Luca, Paolo non è uno dei Dodici, non avendo accompagnato Gesù dal battesimo di Giovanni Battista alla risurrezione. Ma, a partire dall’evento di Damasco, egli è abilitato a vincere la sua cecità e ad annunciare Cristo soprattutto per la via della sofferenza. Anche il suo percorso in Atti è costruito narrativamente da Luca con una sygkrisis serrata con le vicende di annuncio, prodigi, sofferenza e imprigionamento di Cristo, oltre che con il percorso degli altri apostoli.

Alla stregua degli apostoli (Lc 24,48; At 1,8), Paolo è costituito testimone su iniziativa del Risorto (At 9,15, 22,14; 26,16). La sua missione consiste nel rendere testimonianza a Gesù (At 9,15; 22,15; cf. 26,22-23), così come gli apostoli sono chiamati ad annunciare la passione e la risurrezione del Cristo e la salvezza a tutte le genti (Lc 24,47).

Luca non conforma la missione di Paolo a quella dei Dodici, ma in ogni caso Paolo è «testimone/martys» (At 22,15; 26,16). «L’incontro col Signore risorto [a Damasco] configura l’identità e la missione di Paolo, scelto come testimone per annunciare il suo Nome a Israele e alle genti (…) L’incontro con il Cristo risorto e glorificato, sulla via di Damasco, ha segnato nella vita di Saulo una trasformazione radicale sul piano dell’essere e dell’agire: egli non è più l’accanito persecutore, che inveisce scontro i seguaci della Via (8,3; 9,1-2), perché è stato scelto dal Risorto per diventare un araldo (9,15); non ritiene più suo dovere operare attivamente contro il nome di Gesù il nazareno (26,9), poiché è stato investito della missione di rendere testimonianza in pubblico al nome di Gesù (9,15)» (p. 74).

Non c’è subordinazione della missione di Paolo a quella dei Dodici. Paolo si incontra tre volte con la comunità di Gerusalemme. Luca descrive una continuità senza per questo sminuire o tacere le differenze. At 1–12 ha come protagonista Pietro. At 13–28, l’apostolo Paolo.

Secondo lo studioso Aletti, sembra che in Atti si assista a una progressiva «evoluzione della testimonianza al Risorto: dall’attestazione della realtà della risurrezione (Pietro), si passa al racconto di un incontro che ha cambiato una vita ed è divenuto il punto di riferimento per eccellenza, per sé e per gli altri (Paolo) (p. 78).

Con la figura di Paolo, Luca passa da una testimonianza collegiale a una maggiore individualizzazione dell’annuncio evangelico. La figura di Paolo è inoltre caratterizzata in modo particolare dal tema della sofferenza. Il ripudio da parte dei giudei e le fasi del processo a cui è sottoposto ricalcano da vicino quelli del Cristo. Nella sofferenza del discepolo (Paolo) si riverbera la passione del maestro (Gesù) (p. 80).

Per quanto riguarda Paolo, è utile riportare il bilancio conclusivo tracciato da Landi. «In ultima analisi, è possibile ritenere che Luca preferisce attribuire a Paolo l’appello di testimone, anziché quello di apostolo, non per subordinarlo ai Dodici (…) né per equipararlo a essi (…), ma per evidenziare il suo ruolo nella storia della salvezza. Di fatto, se gli apostoli garantiscono la continuità tra il ministero terreno di Gesù e la Chiesa primitiva, Paolo è presentato come il testimone dell’universalizzazione della salvezza alle genti» (p. 81).

Riprendiamo anche le considerazioni conclusive esposte da Landi circa la testimonianza degli apostoli. «In Atti la testimonianza degli apostoli si presenta come esclusiva e autorevole: esclusiva, perché essi non solo hanno preso parte al ministero pubblico di Gesù e condiviso la sua predicazione (cf. Lc 24,44), ma hanno anche assistito, seppur da lontano, alla sua crocifissione [NB: in nota egli rimanda ai gnōstai di Lc 23,49 e al fatto che Luca non menziona la fuga degli apostoli]; inoltre, lo hanno visto risorto e hanno udito le sue parole (24,36-47). Tuttavia la loro testimonianza non si esaurisce in una semplice esposizione di bruta facta, ma ne sono soprattutto interpreti autorevoli, perché il Risorto ha aperto la loro mente alla comprensione delle Scritture e ha infuso in loro lo Spirito» (p. 71).

Chiesa e Israele
Un accenno al c. III “Da Gerusalemme ai confini della terra. I destinatari della missione cristiana in Atti”. L’autore ricostruisce il percorso della testimonianza degli apostoli e di Paolo fra gli ebrei a Gerusalemme e nella diaspora e agli ebrei e ai pagani delle varie regioni, fino a Roma.

Landi si domanda, quindi, se Chiesa e Israele rappresentino in Atti una tensione irrisolta. Ricorda i segni di continuità (tempio, divinità, Torah, missione). Luca adotta il pattern isaiano per modellare, da un punto di vista narrativo e teologico, la missione della Chiesa. «Nella prospettiva lucana, la Chiesa risponde alla vocazione dell’Israele escatologico, inteso come popolo di Dio che, radunato dallo Spirito, ha lo scopo di proclamare a tutte le genti la salvezza realizzata da Dio per mezzo di Gesù Cristo» (p. 91).

Chiari, però, sono anche i segni di rottura: il tempio, la dottrina della giustificazione senza la necessità della circoncisione, l’ermeneutica cristologica delle Scritture ecc.

L’evangelo annunciato ai gentili non è tuttavia una svolta inattesa. «In realtà, non si tratta di una scelta improvvisa ne può esser rubricata come diretta conseguenza del rifiuto di Israele di accogliere il messaggio evangelico. La destinazione universale della salvezza è iscritta nell’identità (Lc 2,32) e nella missione di Gesù di Nazaret (Lc 4,16-30); di conseguenza, contraddistingue anche l’impegno testimoniale della comunità cristiana (Lc 24,47; At 1,8). Luca ha premura di segnalare la svolta missionaria al mondo gentile in alcuni episodi-chiave del suo racconto…» (p. 95).

A partire dall’operato di Pietro presso Cornelio e poi con l’apostolato di Paolo si attua la progressiva evangelizzazione del mondo gentile, con ripetuti esiti di ostilità e di apertura.

Per un bilancio conclusivo sul tema sul rapporto tra Israele e Chiesa in Atti lasciamo ancora la parola all’autore. «In realtà, il dittico lucano non ha lo scopo di caratterizzare la comunità cristiana come una comunità isolata, in contrapposizione con l’Israele incredulo, intenta a ingraziarsi la simpatia delle autorità imperiali. Il programma teologico che Luca si prefigge d’illustrare a beneficio dell’illustre Teofilo (Lc 1,3) è incentrato sull’ambizioso progetto di operare un’integrazione che includa giudaismo e gentilità, presentando il cristianesimo “sia come compimento delle promesse inscritte nella Scrittura sia come risposta alla ricerca religiosa del mondo greco-romano”» (p. 102, con cit. di Marguerat, La prima storia, 94, corsivo di Marguerat).

Il libro di Atti è molto amato dal popolo credente e da molti appassionati di storia, letteratura, e di altri interessi culturali. I saggi del prof. Landi approfondiscono a livello di Teologia biblica un elemento cruciale del testo biblico, quello della testimonianza, decisivo anche per la vitalità testimoniale della Chiesa del nostro tempo.

Antonio Landi, Il Vangelo fino ai confini della terra. Testimonianza e missione negli Atti degli Apostoli (Studi sull’Antico e sul Nuovo Testamento s.n.), San Paolo, Cinisello B. (MI) 2020, pp. 240, € 22,00, ISBN 9788892222793.

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fonte: settimananews