Liturgia / «Quanti fra i cristiani si rendono conto delle implicazioni terribili della comunione?» (Mircea Eliade)

La liturgia non può essere un atto indolore nemmeno per chi vi partecipa, poiché egli inevitabilmente porta in sé il senso di colpa per la morte di un innocente – soltanto grazie alla quale la comunità, la società, il mondo trovano la pace

In effetti, a pensarci bene, e senza finire nella polemica per la quale i primi credenti vennero addirittura accusati di antropofagia, la messa è quanto meno la reiterazione simbolica di una profonda ingiustizia: un innocente si sacrifica volontariamente (ma anche viene sacrificato!) per la salvezza di tutti gli altri.

E’ la teoria biblica del «capro espiatorio», portata alle estreme (e inquietanti) conseguenze dal filosofo René Girard. Secondo il quale le religioni consentono ritualmente lo sfogo dell’umana violenza, che altrimenti si eserciterebbe in eterni conflitti, offrendo una vittima sacrificale sostitutiva; è il caso appunto del capro “caricato” delle colpe comuni e lapidato fuori città. Ma ciò avviene anche in molti altri miti e riti: il santo, l’eroe assume i peccati (le calamità, le tragedie collettive) degli altri e così facendo li libera. «Non è meglio che muoia uno solo per tutto il popolo?», esclamò persino Caifa come giustificazione decisiva per condannare Cristo.

Il quale Cristo è sempre stato assimilato appunto, anche in tutta la dottrina teologica e spirituale ortodossa, all’agnello sacrificale; proprio della sua offerta cruenta si fa memoria viva ogni domenica sulla tavola dell’altare. Ma allora la liturgia non può essere un atto indolore nemmeno per chi vi partecipa, poiché egli inevitabilmente porta in sé il senso di colpa per la morte di un innocente – soltanto grazie alla quale la comunità, la società, il mondo trovano la pace. Anche in tale accezione dunque, in quanto cioè ripetizione di un sacrificio “ingiusto” (e non soltanto perché cena comunitaria), la messa genera comunione nella Chiesa: scaricando i conflitti di tutti sull’unica vittima prescelta, esorcizzando e prevenendo la violenza attraverso il rito collettivo.

Ha ragione Eliade: quella cristiana è dunque una fraternità pagata a carissimo prezzo; consciamente o no, ogni fedele ne è consapevole quando partecipa alla messa. Per di più constata amaramente che nemmeno il sacrificio estremo del Figlio di Dio è stato capace di generare davvero la fine dei conflitti, nella vita e nella storia; la salvezza simbolicamente annunciata dalla liturgia viene cioè immediatamente contraddetta dall’esperienza quotidiana, perciò il senso di colpa raddoppia: per il sacrificio di un innocente e, per di più, per il fatto che neppure questo sia sufficiente.

Stiamo sempre sul piano antropologico, prima dello “scatto” richiesto dalla fede. Il popolo cristiano è dunque unito, anzi costituito, dal sangue del suo primogenito: un atto di estrema generosità, ma anche un’aberrazione per una religione nella quale Dio non vuole essere vendicatore bensì padre misericordioso, dove si pretende che la logica del sacrificio di animali venga abolita in nome di un culto spirituale, in cui la salvezza è elargita per dono gratuito e non quale scambio di favori tra cielo e terra… Come conciliare tali contraddizioni? Il rischio (percepito anche da Girard) è che il modello sacrificale, ancestralmente presente nell’uomo, prevalga sullo stesso contenuto esplicito della messa.

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