ANNIVERSARI. Il 6 gennaio del 1980 veniva ucciso dalla mafia a Palermo il presidente della Regione: era l’erede di Aldo Moro

Era un siciliano scomodo, Piersanti Mattarella, il presidente della Regione Sicilia, ucciso il 6 gennaio di trent’anni fa da un killer tuttora sconosciuto. Uno dei quei grandi siciliani che un’isola, troppo spesso feroce con i suoi figli migliori, genera con una certa frequenza e poi divora. Un siciliano che, se non fosse stato stroncato a colpi di revolver, a soli 45 anni, davanti agli occhi attoniti della moglie e dei due figli, avrebbe potuto dare ancora moltissimo alla sua terra e all’Italia intera. Piersanti era scomodo come siciliano, perché, piuttosto che piangersi addosso, si rimboccava le maniche: voleva tirar fuori la sua terra dalla rassegnazione nei confronti del sottosviluppo e della presenza mafiosa. Era scomodo, sicuramente, come politico, perché pensava in grande e voleva liberare le istituzioni siciliane dalle clientele e dalle infiltrazioni della criminalità organizzata. Era scomodo come democristiano, per i compagni di partito ma anche per gli avversari, perché concepiva la politica come servizio alla comunità e combatteva la mafia non a parole, ma con iniziative concrete: e in questo modo sfuggiva alle classificazioni di comodo, all’agghiacciante equazione Dc siciliana uguale corruzione o, peggio, criminalità. E forse era scomodo anche come cattolico, perché la sua fede vissuta profondamente, con gioia e con naturalezza, nella vita pubblica come in quella privata, era quanto di più lontano da quel modello, piuttosto praticato nel Mezzogiorno ma non solo, di devozione esteriore, proclamata e ostentata, ma non accompagnata da una reale conversione del cuore. L’attività politica di Piersanti Mattarella affondava certamente le radici nella tradizione di famiglia: il padre Bernardo, sturziano della prima ora e antifascista, era stato più volte ministro nel secondo dopoguerra; ma aveva trovato terreno fertile nella formazione religiosa e nell’impegno giovanile nell’Azione Cattolica, negli anni fecondi e straordinari del dopo­Concilio. Una formazione che in Piersanti si tradusse in una formidabile e inesauribile tensione etica. Non fu, dunque, un caso che i riferimenti ideali di Mattarella fossero, oltre a Sturzo, La Pira e Dossetti; che rintracciasse nel meridionalismo moderno di Vanoni e Saraceno idee e spunti per la propria azione di governo e che trovasse in Aldo Moro il maestro, l’ispiratore e l’amico. Fino a condividere con lui il tragico destino di una morte violenta e crudele.
  La stagione di Mattarella alla guida della Regione Sicilia fu breve ed esaltante. Eletto presidente nel marzo del 1978 riuscì a ottenere il sostegno del Pci siciliano alla sua azione riformatrice, realizzando una sorta di ‘solidarietà nazionale’ ancor prima di quella di Moro.
  Mise le mani in territori nei quali nessuno aveva fino a quel momento osato addentrarsi: la spesa pubblica, le leggi urbanistiche, gli appalti, colpendo alla radice interessi consolidati, clientelari e mafiosi. In una
intervista al ‘Giornale di Sicilia’, uscita proprio il giorno della sua morte il 6 gennaio del 1980, aveva espresso la necessità di troncare i rapporti mafia-politica «là dove essi nascono e si annidano, nelle storiche inefficienze dei meccanismi burocratici». Ma aveva anche aggiunto che senza una rivoluzione morale della società, la Sicilia non si sarebbe mai liberata dalla schiavitù mafiosa. Fu il suo testamento politico: fu ucciso sotto casa, mentre si recava a Messa con la famiglia, poche ore dopo. Era alla guida della sua auto e non aveva la scorta, perché nei giorni festivi la lasciava libera.
  Con la sua morte terminò anche la stagione di rinnovamento. Dopo molte parole di esecrazione e di lutto, le pratiche della Regione Siciliana tornarono a essere quelle di sempre. Le indagini sul delitto, che in una prima fase avevano puntato sul coinvolgimento, in verità non nuovo, di terroristi neri
al soldo della mafia, furono molto lunghe, ma coronate da scarso successo. È vero che la magistratura, con sentenza definitiva del 1999, ha condannato all’ergastolo i vertici della cupola mafiosa come mandanti dell’omicidio del presidente della Regione Sicilia, ma troppo vaghi sono rimasti i moventi; coperte le eventuali complicità all’intero dei Palazzi; senza nome lo spietato assassino che non ebbe alcuna remora a sparare a Mattarella davanti alla moglie e ai figli. Senza contare le troppe analogie con il caso Moro, i numerosi depistaggi, il ruolo mai chiarito fino in fondo nella vicenda del terrorismo nero, dei centri di potere occulti e di pezzi di Stato deviati.
  Il senso di amarezza che lascia l’epilogo della vicenda giudiziaria è quasi pari al vuoto lasciato in Sicilia e in Italia dalla scomparsa di Mattarella, che era candidato a succedere ad Aldo Moro alla guida della sinistra democristiana. Ma, nonostante in ogni cittadina della Sicilia ci sia una strada o una piazza intitolata a Mattarella, si ha l’impressione che un velo di oblio sia caduto sulla sua azione politica, sulle sue idee, sul suo impegno per la legalità, sulla sua appartenenza alla comunità ecclesiale. In una conversazione recente, Salvatore Butera, già presidente della Fondazione Banco di Sicilia e uno dei più stretti collaboratori del presidente della Regione Siciliana, mi ha detto che «tra i morti ammazzati in Sicilia Mattarella è uno dei meno e dei peggio ricordati». Eppure, di esempi come Piersanti Mattarella l’Italia ha oggi più che mai un disperato bisogno.

 Assassinato mentre andava a messa con la moglie e i figli, il politico aveva come riferimenti ideali Sturzo, La Pira e Dossetti
Voleva liberare le istituzioni dalle infiltrazioni della criminalità organizzata e sottrarre la sua terra alla rassegnazione (di Giovanni Grasso – avvenire)