Lo scontro generazionale. I giovani? Diventano indipendenti a 50 anni

I giovani? Diventano indipendenti a 50 anni

Puoi chiamarli Millennials, Generazione Y oppure più semplicemente Under 19. Per loro il ‘divario generazionale’, ovvero il ritardo accumulato dalle nuove generazioni rispetto alle precedenti, nel raggiungimento della propria indipendenza economica e personale è allarmante: un fossato che si allarga sempre di più. Al punto che i ragazzi di oggi saranno davvero indipendenti solo alla soglia dei cinquant’anni. Lo dice abbastanza sconsolatoAlessandro Laterza, presidente della Fondazione Bruno Visentini durante la presentazione del loro Rapporto su «Divario generazionale, un patto per l’occupazione dei giovani». Insomma, questa generazione sarà la prima dal Dopoguerra a non godere di prospettive di vita migliore rispetto a quella dei propri genitori. Tutto questo perché la ‘quarta rivoluzione industriale’ sta trasformando la nostra economia, i modelli di business e i processi produtti- vi, la qualità e quantità dell’occupazione, le competenze e la formazione del capitale umano, nonché le relazioni industriali e gli stessi schemi tradizionali dei rapporti di lavoro.

Ma non c’è da scoraggiarsi, dicono i ricercatori che hanno incontrato oltre10mila studenti, sottoponendo a 800 di loro, di età compresa tra i 14 e i 19 anni, un formulario per «capire le loro esigenze». Perché sono proprio i giovani ad essere ottimisti. «Nonostante tutto – ha spiegato Fabio Marchetti, condirettore della Fondazione – sono fiduciosi, disponibili alla mobilità, al lavoro autonomo, a rischiare». Già perché di questo hanno bisogno: di essere responsabili del proprio destino, come ha detto l’altro curatore della ricerca, Luciano Monti, che al reddito di cittadinanza ha contrapposto «il reddito di opportunità».

Ovvero dare la possibilità allo studente di oggi di potersela giocare domani ad armi pari con gli studenti di altri paesi. Ma come? Riuscendo a superare la frammentazione delle misure pro-giovani, se ne contano in Italia ben 53, che oltre a produrre scarsi risultati godono di appena lo 0,15% del Pil, con un onere diretto per lo Stato pari a poco più di 2 miliardi e mezzo di euro nel 2018. Da qui la proposta: considerando gli attuali vincoli di bilancio, serve una Legge quadro per i giovani mettendo a sistema un paniere di interventi il cui onere stimato per la prima annualità è pari a 4,5 miliardi di euro, di cui 3,7 miliardi di euro reperibili razionalizzando le risorse nazionali ed europee già stanziate per le misure generazionali e 800 milioni di euro da recuperare sulla fiscalità generale.

La proposta, in concreto, prevede la creazione di un unico strumento, che vada a sostituire tutti i precedenti, rappresentato da un fondo chiamato a sostenere il patto per l’occupazione giovanile, mediante un conto individuale ‘una mano per contare’ proprio come i cinque differenti ambiti di intervento, (scuola e lavoro, sviluppo in azienda, formazione, impiego e bonus abitazione) da cui il riferimento alle cinque dita di una mano. Un fondo individuale (stimato in circa 20mila euro per una platea di 2milioni e 250mila tennager), da mettere a disposizione dei nostri giovani che possono liberamente scegliere quando e dove utilizzarlo, e che prevede la possibilità, nell’arco di poco meno di vent’anni (tra i 16 e i 34 anni), di acquisire servizi, benefit fiscali, sgravi contributivi, al fine di integrare le proprie esperienze per raggiungere l’indipendenza economica e sociale.

«Ne possiamo parlare» ha detto il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Stefano Buffagni «nelle misure che studieremo dal 2019», mentre l’altro sottosegretario di Palazzo Chigi, Giancarlo Giorgetti, ha parlato di «strumenti» da dare ai giovani «per poter trasformare la loro intelligenza in saper fare», augurandosi di «riportare i giovani a lavorare nei loro territori». Un quadro su cui si sono trovati d’accordo sia i sindacati che i rappresentanti delle imprese intervenuti alla Luiss che ha organizzato l’evento e che può essere racchiuso con quanto detto da Mara Carfagna, vicepresidente della Camera: «Investiamo troppo nelle pensioni (16,5%) e poco nell’istruzione (4%) e ancora meno nel sostegno alla famiglia (1,4%). Bisogna promuovere l’occupazione giovanile non per giustizia ma per convenienza, perché ci conviene non sprecare il nostro capitale umano».

Papa Francesco a febbraio visita gli Emirati Arabi Uniti: ecco il programma

Papa Francesco a febbraio visita gli Emirati Arabi Uniti: ecco il programma

avvenire

Per la prima volta un Papa si recherà in un Paese della Penisola Arabica: dal 3 al 5 febbraio 2019 Francesco sarà in visita ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. L’annuncio è arrivato il 7 dicembre con una nota diffusa in contemporanea dal Vaticano e dal governo dell’emirato.

«Accogliendo l’invito dello sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan – si legge nella dichiarazione del direttore della Sala stampa vaticana Greg Burke – papa Francesco visiterà Abu Dhabi per partecipare all’incontro interreligioso internazionale sulla fratellanza umana. La visita avviene anche in risposta all’invito della Chiesa cattolica negli Emirati Arabi Uniti».

LA SANTA SEDE HA DIFFUSO ANCHE IL PROGRAMMA

Il viaggio ad Abu Dhabi cadrà poco prima di quello già annunciato in Marocco – in programma il 30 e 31 marzo. E come già accaduto nel 2018 in occasione della visita all’Università di al Azhar, in Egitto, il Pontefice interverrà a un momento interreligioso organizzato da un’istituzione islamica. È interessante inoltre osservare che sia il viaggio in Marocco sia quello negli Emirati Arabi Uniti cadranno nell’anno in cui la Chiesa ricorda gli otto secoli dall’incontro tra san Francesco e il sultano Malik al-Kamil, che avvenne a Damietta in Egitto nel 1219.

Il Papa aveva già ricevuto in udienza in Vaticano nel 2016 lo sceicco Mohammed bin Zayed mentre l’anno precedente era stato il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin a visitare gli Emirati Arabi Uniti in occasione della consacrazione della seconda chiesa cattolica di Abu Dhabi, dedicata a San Paolo e costruita nel quartiere di Musaffah. Accanto alla dimensione interreligiosa il viaggio di Francesco ad Abu Dhabi avrà anche un profondo significato ecclesiale: il Golfo Persico è da tempo la casa anche di centinaia di migliaia di lavoratori cristiani immigrati, provenienti da tanti Paesi dell’Asia e dell’Africa. Solo negli Emirati Arabi Uniti sono circa un milione, cioè il 10 per cento della popolazione. Una Chiesa migrante, che vive dietro le quinte dei grandi grattacieli spesso in condizioni precarie e che questo viaggio di Francesco aiuterà a portare alla ribalta.

In una nota il vicariato apostolico dell’Arabia Meridionale, nella cui giurisdizione si trovano gli Emirati Arabi Uniti, ha precisato che il Papa arriverà ad Abu Dhabi la sera di domenica 3 febbraio e ripartirà a mezzogiorno di martedì 5 febbraio. Lunedì 4 Francesco parteciperà alla conferenza interreligiosa, mentre la mattina successiva presiederà una Messa ad Abu Dhabi. Su questa celebrazione il vicario, il vescovo di origine svizzera Paul Hinder, ha offerto un dettaglio importante: le autorità degli Emirati Arabi Uniti hanno acconsentito al fatto che la celebrazione si tenga “in un luogo pubblico”.

Non è un fatto scontato per una città della Penisola Arabica: ordinariamente, infatti, le attività religiose delle comunità cristiane sono possibili solo all’interno delle chiese, dove ogni settimana si celebrano decine di Messe per poter accogliere tutti. Quindi per la prima volta i cristiani locali potranno tenere una liturgia in uno spazio molto più grande e senza restrizioni. «Un gesto – ha commentato monsignor Hinder – che apprezziamo e riconosciamo».

Quanto al significato di questa visita monsignor Hinder ha invitato i fedeli ad accogliere papa Francesco «con cuore aperto e pregando con san Francesco d’Assisi: “Fammi strumento della tua pace”. Possa questa visita – conclude il vicario apostolico per l’Arabia Meridionale – rappresentare un passo importante nel dialogo tra musulmani e cristiani e contribuire alla mutua comprensione e alla costruzione della pace in Medio Oriente»

Vacanze: Sardegna, Albania, Sicilia più cercate su Google

(ANSA) – ROMA, 12 DIC – La Sardegna (1/o posto) e la Sicilia (3/o) ma anche la “sorpresa” Albania sono sul podio delle mete di vacanza più cercate dagli italiani su Google nel 2018. A far scaldare il cuore dei viaggiatori dunque ci sono come ogni anno le coste nostrane ma anche una meta straniera emergente.

In classifica seguono Grecia e Croazia, amatissime dagli italiani, al sesto posto c’è la Toscana seguita dall’esotica Zanzibar e la Corsica. Chiudono il sempre gettonatissimo Salento e l’Abruzzo.

Natale…

Sogni diffusi come scintille

mille e poi mille

luci di sentimenti 

sparsi dai venti

creano nuovi colori

per un Natale di fiori

ricco d’amore 

con la gioia nel cuore

(di Giuseppe Serrone)

Accogliere i temi che nascono dalla vita dei ragazzi può cambiare le mappe della pastorale. I giovani interrogano la vita, la Chiesa cerca le risposte.

da Avvenire

Giovani a una veglia di preghiera (Siciliani)

Giovani a una veglia di preghiera (Siciliani)

Il Sinodo dei vescovi si è chiesto come accompagnare i giovani nelle scelte di vita. Riflettere sul contesto attuale e verificare lo stile con cui in esso si pone la Chiesa sono stati passi importanti per rispondere a questa domanda, con il desiderio di rimanere accanto ai giovani, favorendo il loro compimento personale e quindi la loro felicità. Al punto n.69 il documento finale del Sinodo riporta una citazione tutt’altro che pacifica di papa Francesco: «Tante volte nella vita perdiamo tempo a domandarci: ‘Ma chi sono io?’. Tu puoi domandarti chi sei tu e fare tutta una vita cercando chi sei tu. Ma domandati: ‘ Per chi sono io?’». Ci siamo chiesti chi è più urgente si confronti con queste parole. I giovani forse? Parrebbero rivolte a loro, ma come educatori incontriamo quotidianamente ragazzi coi piedi per terra che non perdono tempo in domande vuote. È raro chiedersi ‘per chi’ si vive. Tuttavia, le comunità cristiane e le città contemporanee non pullulano di giovani che si domandano chi siano realmente. Le parole del Santo Padre, allora, sembrano orientare la Chiesa stessa, così che, se ha interrogativi da diffondere, siano quelli giusti. I meno inutili, i più capaci di lasciare intravvedere il tesoro nascosto nel campo di ciascuno. Come dissodare il terreno? In effetti, molte prediche o catechesi sono percepite dai giovani come un parlare sterile, lontano dalla concretezza della vita quotidiana. Sono loro stessi ad andarsene quando seminiamo ‘domande fondamentali’ che non conducono da nessuna parte, o peggio, quando crediamo di avere tutte le risposte.

Gioele ha 21 anni e lavora sui treni merci: fa orari impossibili, ma ha un buon contratto e il mondo ferroviario era una passione fin da bambino. Talvolta ha l’impressione di sprecare il suo tempo, ad esempio quando dopo un turno di notte si trova la giornata vuota, mentre amici e familiari sono al lavoro o in università. Anche andare a dormire gli sembra un delitto. Gioele non si chiede in astratto chi sia e per chi sia, ma ha ben chiara la differenza tra sé e le voci che gli chiedono un maggiore equilibrio tra lavoro e riposo, tra impegno e tempo libero, tra tempo in casa e fuori casa. La ragazza, gli amici, il lavoro lo muovono a qualsiasi ora, con una generosità semplice e insieme creativa. Ha ragione papa Francesco: se la domanda fosse ‘ per chi tu sei?’, immediatamente apparirebbe alla Chiesa un ordine di priorità che molti giovani, come Gioele, si sono già dati, magari risultando ad adulti di eccessivo buon senso troppo liberi, nottambuli, poco presenti in casa e alle ritualità della cortesia borghese. La loro mappa è fatta di persone, non di luoghi obbligati. Il loro smartphone è presenza costante a gruppi di genere molto diverso: presenza spesso leggera, ma anche fedele e puntuale nel bisogno. Cogliere la bontà di questo modo largamente diffuso di essere al mondo significa per la Chiesa porre altre domande giuste: che ne fai del patrimonio di legami in cui sei inserito? Che profilo di te vi emerge? Dove sei te stesso e quando invece reciti una parte? Quali ambienti ti danno respiro e dove trovi che manca l’aria? La certezza di fondo è che il Regno di Dio già avanza in ciò che ‘fa vivere’. Non solo, ma che il metodo di Gesù sia questo: non un insegnamento di verità esterne, ma l’incontro con un altro sguardo su ciò che si è già, e che inizia a fiorire se lo sguardo è quello giusto.

In effetti, la storia di Gioele e di molti altri ragazzi pone l’interrogativo su cosa impegni la Chiesa quando si occupa di pastorale giovanile e vocazionale. La vita è già in corso: non la generano né la strutturano le nostre iniziative. Esse toccano una percentuale irrisoria dei battezzati e del loro tempo. Prioritario è dare un nuovo nome a processi positivi in corso, fossero anche minimali: riconoscere nei nostri interlocutori il bene come bene, indicarlo e coltivarlo. Alla base di tanta insicurezza e al fondo di molte adolescenze bruciate sta un mancato incontro con chi chiama il meglio per nome e apre gli occhi a chi ne è inconsapevole portatore. È la svolta nel discernimento: sarebbe masochismo puro abbandonare ciò che rende preziosi. In un tempo che esalta il merito costruendo contesti, prima educativi e poi lavorativi, simili a campi di battaglia, c’è una malattia, una degenerazione della competitività: se viene meno il paolino gareggiare nello stimarsi a vicenda, allora gli altri divengono semplicemente avversari, ogni battuta d’arresto una sconfitta, ogni secondo posto una tragedia. È in questo senso che l’incontro coi poveri costituisce, come fu ad esempio nell’abbraccio di san Francesco al lebbroso, una liberazione della capacità di decidere. Abbracciare la fragilità, ospitare l’inquietante consapevolezza che i limiti non contraddicono il compimento, semplicemente sblocca. «Fragilità: una parola così bella, così umana e allo stesso tempo così rinnegata dagli uomini. Mai accettata. L’ho scoperta essere un dono, un’amica, una confidente, una consolatrice, una forza». A scriverlo è Matilde, un’eccellenza: così la considerava il suo liceo, e la classifica oggi l’università. Rischiando di imprigionarla: «I professori ti conoscono da anni e tu sei quel dieci… e ho sempre pensato che se anche fossi voluta crollare non ne avrei avuto il diritto. No, non puoi perché deluderesti chi ti vede sempre al cento per cento e punta su di te a occhi chiusi». Occhi chiusi che annientano anche i migliori, dopo aver scartato chi entro parametri predefiniti non dimostra talento.

Vocazione è parola rivoluzionaria in un tempo che non ci sa vedere in relazione. Riguarda giovani connessi gli uni agli altri, ma spesso senza alcuna vertigine per ciò che li accomuna e per quanto è già loro possibile. Il Sinodo, al n.78 del documento finale, dopo aver specificato che la vocazione non è la recita di un copione già scritto, suggerisce alla Chiesa una purificazione dell’immaginario e del linguaggio religioso, «ritrovando la ricchezza e l’equilibrio della narrazione biblica». Ma quale storia biblica è semplicemente equilibrio? Vocazione è sempre interruzione di un ordine già dato, invisibile, ma ormai soffocante. L’irruzione di una nuova coscienza di sé – dono della voce e di uno sguardo altrui – riscatta il tempo perso e tanti errori fatti, di ogni esperienza mostra il guadagno, rende gloriose anche le ferite. Ogni vicenda biblica, a partire da quella di Gesù – paradigma di tutte le altre – è il contrario di una retta via, di una fedeltà acritica, di un procedere di successo in successo, senza spazio per crisi e ripensamenti. La fragilità – dobbiamo testimoniarlo – è il tratto fondamentale delle più solide e feconde scelte di vita. Non c’è ‘per sempre’ che sia statica ripetizione, accomodamento, sicurezza nel proprio ‘stato’: la Bibbia è esodo continuo, creazione sempre in corso. Gli psicologi parlerebbero di resilienza, ma una Chiesa più obbediente alle Scritture avrà parole, immagini e storie sempre nuove per descrivere cammini in cui ciascuno diventa ciò che è. Saranno i suoi stessi figli a offrirgliele. Le loro sono, infatti, traiettorie personali, ma in cui la dimensione comunitaria fa la differenza. Carla, attratta dal Vangelo, pronta a dare tutto e a seguire Gesù senza riserve, ha iniziato un’esperienza in un istituto religioso femminile. Lascia dopo qualche mese: «Ho trovato relazioni funzionali, mi è mancata la freschezza di uno stare insieme nuovo; ho visto trattamenti diversi riservati alle superiore: questa non è la vita nuova che mi aspettavo, la vedo mondana».

Una Chiesa generativa, quindi madre, è cambiata dalle generazioni che fa crescere. Se ai giovani manca la percezione di una simile efficacia delle proprie scelte, più difficilmente avvertiranno l’essere cristiani come chiamata a incidere in un mondo già occupato e concluso. Forse nella Chiesa di domani si parlerà meno di stati di vita e più di vocazioni radicali di sequela, se siamo disposti a lasciarci interpellare dai giovani. Questa generazione, infatti, ci rivela che in ogni scelta a non esser mai scontato è il battesimo e a far la differenza è il diventare, passo dopo passo, dei veri cristiani.

Scuola. «Vietato cantare»: così il condominio sfratta l’asilo

Avvenire

Uno scorcio della palestra della "Locomotiva di Momo" (dal sito della scuola)

Uno scorcio della palestra della “Locomotiva di Momo” (dal sito della scuola)

I bambini che frequentano “La locomotiva di Momo”, in via Anfossi, a Milano, portano a termine i loro doveri con diligenza: giocano, ballano, cantano, imparano. Ma così facendo disturbano i condòmini, che per vedere ristabiliti ordine e tranquillità si sono rivolti al tribunale. Ottenendo ragione. Due volte: la Corte di Appello di Milano è riuscita sia a smentire sia a confermare la sentenza del Giudice di primo grado, raggiungendo, però, la stessa conclusione: la scuola dell’infanzia, lì, non ci può stare. Perché pur non riscontrando alcun cambio di destinazione d’uso dei locali, come era stato stabilito dal primo collegio giudicante, riconosce nel fatto che i bambini cantino e ballino la violazione del regolamento di condominio. In effetti, le norme condominiali stabiliscono che è vietato destinare i locali del palazzo «… a uso sanitario, gabinetti di cura, ambulatorio per malattie infettive e contagiose, scuole di musica, di canto, di ballo e pensioni».

E scrive il giudice, l’asilo è «una scuola dove si pratica notoriamente anche musica e canto…». La sentenza è datata 31 luglio e aspettando la decisione dei giudici della Cassazione, a cui si sono rivolte Cinzia e Giuliana D’Alessandro, titolari dell’asilo, i condomini hanno fatto ricorso al giudice dell’esecuzione del Tribunale di Milano perché le sentenze di primo e secondo grado vengano eseguite e “La locomotiva di Momo” chiuda il prima possibile.

«Rischia di essere un precedente pericoloso per molte delle scuole dell’infanzia che operano a Milano e in altre città di medie o grandi dimensioni dove – spiega Sandro Bagno, portavoce de “La Locomotiva di Momo” – la maggioranza degli asili è ospitata all’interno dei condomini. I locali in questione sono completamente insonorizzati e anche le perizie dei tecnici dell’Arpa non hanno rilevato alcuna criticità. Se si equipara l’asilo a una scuola di musica perché non considerarlo anche un ristorante, visto che garantisce pranzo e merende ai bambini ogni giorno?».

La scuola delle sorelle d’Alessandro è considerata un’eccellenza per la filosofia educativa a cui si ispira, basata sul rapporto tra i bambini e la natura urbana: proprio le grandi vetrate che si affacciano sul parco pubblico di Largo Marinai d’Italia sono state determinanti nella scelta dei locali di via Anfossi, funzionali alla didattica. Quotidianamente gli spazi verdi davanti alla scuola vengono raggiunti dai bambini con facilità per lo svolgimento delle attività di gioco e di esplorazione.

Luca e Silvana: la Sindrome di Down non ferma il «sì». Che diventerà un film

da Avvenire

Un frame del documentario "Luca e Silvana - Il documentario"

Un frame del documentario “Luca e Silvana – Il documentario”

Luca e Silvana si sono conosciuti dieci anni fa e la prima cosa che lui ha detto a lei è stata “Sei la ragazza più bella del mondo, ti voglio sposare”. Questo desiderio si realizzerà solo il 5 gennaio prossimo a Bolzano, e sarà un matrimonio speciale. Perché anche loro due sono speciali: Luca Di Biasi. 53 anni, e Silvana Saudino, qualche anno di meno, hanno la Sindrome di Down. Nessun problema per la mamma della sposa, la psicologa e psicoterapeuta Claudia Cannavacciuolo, convinta dell’amore che lega i due. Ma per dieci anni molte circostanze hanno tenuto separati i due fidanzati: Luca è rimasto orfano e la casa di famiglia gli è stata interdetta per un intricato caso giudiziario.

Un frame del documentario 'Luca e Silvana - Il documentario'

Un frame del documentario “Luca e Silvana – Il documentario”

Così i due sposi vivranno insieme in un appartamento protetto, all’interno di una comunità in cui gli educatori potranno sostenerli nella loro scelta di vita autonoma.

Il particolare è che la storia d’amore di Luca e Silvano, che in questi 10 anni ha avuto momenti di difficoltà proprio per l’impossibilità di andare a vivere insieme, diventerà un docu-film. Il regista, Stefano Lisci, affascinato dalla grinta di Silvana e dalla determinazione di Luca e dal loro progetto di felicità nonostante l’handicap, ha ottenuto il sostegno di Idm Film Commission, della onlus Lebenshilfe, che in Alto Adige si occupa di sostegno a persone con disabilità, del Centro Audiovisivi Bolzano, della Provincia e del Comune di Bolzano. Produce il film Massimiliano Gianotti, presidente di Cooperativa 19, piattaforma di iniziative culturale.

Un frame del documentario 'Luca e Silvana - Il documentario'

Un frame del documentario “Luca e Silvana – Il documentario”

Le riprese sono già iniziate molti mesi fa e culmineranno il 5 gennaio, poi inizierà il montaggio e la post-produzione. Per finanziare “Luca e Silvana. Il documentario” proprio oggi è stata aperta una sottoscrizione sul sito di crowdfunding eppala.com, che sarà presentata mercoledì 12 alle 18.30 al Centro Trevi di Bolzano.

Qui la presentazione del progetto.

La strage di Corinaldo . Un mondo adulto che non vuol bene ai ragazzi

Ci sono state e ci saranno altre occasioni per discutere della valenza di musicisti amati dai giovanissimi che nei loro testi inneggiano alla droga, apostrofano le donne in modo brutale e finalizzano rabbiosamente la loro esistenza ai soldi e alla fama. Ci sono state e ci saranno altre occasioni per analizzare una società che ritiene mediamente accettabile che centinaia di preadolescenti si trovino nel cuore della notte in discoteca, anziché al sicuro nelle proprie camere.

Ma non ora, non adesso. Perché Asia, Emma, Benedetta, Mattia, Daniele (e mamma Eleonora, l’unica adulta) non sono morti perché cantavano e ballavano le canzoni ‘trap’ di Sfera Ebbasta. Non sono morti perché amavano la musica ‘sbagliata’. Né perché i genitori li avevano lasciati andare, così piccoli, alla Lanterna Azzurra. Porsi oggi queste domande, come è accaduto su alcuni media e soprattutto sui social, significa spostare l’attenzione, attribuire implicitamente, anche non volendo, parte della responsabilità della tragedia a chi questa tragedia l’ha subita.

Ci sarà tempo per interrogarci sulle rime approssimative di certi cantori delle periferie, sui messaggi più o meno diseducativi che trasmettono, sulle trasgressioni a cui inneggiano (ma non è sempre stato così dal rock in avanti, comprese le ‘Bollicine’ di Coca Cola cantate dai genitori o addirittura dai nonni dei teenagers di Corinaldo?), sulla eccessiva condiscendenza dei genitori, oggi fragili più che mai, verso modelli negativi e nichilisti. Almeno oggi concentriamo la nostra unanime disapprovazione su ciò che ha davvero causato la morte di quei sei innocenti. C’è un’inchiesta della magistratura in corso, che dovrà rispondere a molte domande. Ma già si delineano i profili di una situazione fin troppo tipica nelle notti dei nostri figli.

Chiediamoci perché tanti adulti trattino i giovanissimi come carne da macello, stipandoli in luoghi troppo piccoli, senza adeguate vie di fuga in caso di qualsiasi accidente (è un fatto). Chiediamoci perché altri adulti servano alcolici a chi visibilmente è appena uscito dall’infanzia (saranno anche loro padri o madri, conosceranno l’effetto che fa l’alcol in cervelli e corpi acerbi?). E poi, chiediamoci perché in un luogo pubblico come una discoteca sia normale che entrino droga, bombolette di spray urticante o bande di rapinatori.

Chiediamoci perché davanti alle porte di un locale per concerti stazionino indisturbati gruppi di spacciatori. Infine, perché adulti promettano a liceali e alle loro famiglie, nero su bianco, esibizioni di artisti a una certa ora, facendoli poi attendere oltre il limite della decenza. Ieri Filomena Albano, Garante dell’infanzia e dell’Adolescenza, nel 70esimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani ha sottolineato che la tragedia di venerdì notte «impone un supplemento di riflessione a proposito di diritti che pensavamo fossero garantiti, in particolare il diritto allo svago e al divertimento sicuro».

Non tutti sono disposti a considerare un concerto trap uno svago e un divertimento sano per i giovanissimi. Ma oggi, almeno oggi, non è in discussione il ‘sano’, bensì il ‘sicuro’. Oggi l’unica cosa da sottolineare è che gli adolescenti hanno il diritto di essere trattati non come polli da spennare, ma con rispetto. E con un supplemento di attenzione. Il padre di Mattia, 15enne morto alla Lanterna Azzurra, ha detto con disperata amarezza che «queste cose succedono solo in Italia». Sappiamo che non è vero, perché nessun evento più o meno di massa, forse nessun momento della vita, in qualsiasi angolo del pianeta, è a rischio zero. Ma è un fatto che in Italia le leggi sono abbondanti ma poi mancano i controlli.

E nella carenza di controlli, la responsabilità individuale si allenta. Più che al rispetto delle leggi ci si affida alla buona sorte. Anche quando la lotteria della fortuna riguarda centinaia di ragazzini. Risulta, allora, crudelmente profetica la strofa di Sfera Ebbasta nel brano ‘Figli di papà’: «No, qua nessuno ti vuole bene / Sì, qua vogliono tutti calpestarti, farti da parte ». Che non accada mai più.

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