Accogliere i temi che nascono dalla vita dei ragazzi può cambiare le mappe della pastorale. I giovani interrogano la vita, la Chiesa cerca le risposte.

da Avvenire

Giovani a una veglia di preghiera (Siciliani)

Giovani a una veglia di preghiera (Siciliani)

Il Sinodo dei vescovi si è chiesto come accompagnare i giovani nelle scelte di vita. Riflettere sul contesto attuale e verificare lo stile con cui in esso si pone la Chiesa sono stati passi importanti per rispondere a questa domanda, con il desiderio di rimanere accanto ai giovani, favorendo il loro compimento personale e quindi la loro felicità. Al punto n.69 il documento finale del Sinodo riporta una citazione tutt’altro che pacifica di papa Francesco: «Tante volte nella vita perdiamo tempo a domandarci: ‘Ma chi sono io?’. Tu puoi domandarti chi sei tu e fare tutta una vita cercando chi sei tu. Ma domandati: ‘ Per chi sono io?’». Ci siamo chiesti chi è più urgente si confronti con queste parole. I giovani forse? Parrebbero rivolte a loro, ma come educatori incontriamo quotidianamente ragazzi coi piedi per terra che non perdono tempo in domande vuote. È raro chiedersi ‘per chi’ si vive. Tuttavia, le comunità cristiane e le città contemporanee non pullulano di giovani che si domandano chi siano realmente. Le parole del Santo Padre, allora, sembrano orientare la Chiesa stessa, così che, se ha interrogativi da diffondere, siano quelli giusti. I meno inutili, i più capaci di lasciare intravvedere il tesoro nascosto nel campo di ciascuno. Come dissodare il terreno? In effetti, molte prediche o catechesi sono percepite dai giovani come un parlare sterile, lontano dalla concretezza della vita quotidiana. Sono loro stessi ad andarsene quando seminiamo ‘domande fondamentali’ che non conducono da nessuna parte, o peggio, quando crediamo di avere tutte le risposte.

Gioele ha 21 anni e lavora sui treni merci: fa orari impossibili, ma ha un buon contratto e il mondo ferroviario era una passione fin da bambino. Talvolta ha l’impressione di sprecare il suo tempo, ad esempio quando dopo un turno di notte si trova la giornata vuota, mentre amici e familiari sono al lavoro o in università. Anche andare a dormire gli sembra un delitto. Gioele non si chiede in astratto chi sia e per chi sia, ma ha ben chiara la differenza tra sé e le voci che gli chiedono un maggiore equilibrio tra lavoro e riposo, tra impegno e tempo libero, tra tempo in casa e fuori casa. La ragazza, gli amici, il lavoro lo muovono a qualsiasi ora, con una generosità semplice e insieme creativa. Ha ragione papa Francesco: se la domanda fosse ‘ per chi tu sei?’, immediatamente apparirebbe alla Chiesa un ordine di priorità che molti giovani, come Gioele, si sono già dati, magari risultando ad adulti di eccessivo buon senso troppo liberi, nottambuli, poco presenti in casa e alle ritualità della cortesia borghese. La loro mappa è fatta di persone, non di luoghi obbligati. Il loro smartphone è presenza costante a gruppi di genere molto diverso: presenza spesso leggera, ma anche fedele e puntuale nel bisogno. Cogliere la bontà di questo modo largamente diffuso di essere al mondo significa per la Chiesa porre altre domande giuste: che ne fai del patrimonio di legami in cui sei inserito? Che profilo di te vi emerge? Dove sei te stesso e quando invece reciti una parte? Quali ambienti ti danno respiro e dove trovi che manca l’aria? La certezza di fondo è che il Regno di Dio già avanza in ciò che ‘fa vivere’. Non solo, ma che il metodo di Gesù sia questo: non un insegnamento di verità esterne, ma l’incontro con un altro sguardo su ciò che si è già, e che inizia a fiorire se lo sguardo è quello giusto.

In effetti, la storia di Gioele e di molti altri ragazzi pone l’interrogativo su cosa impegni la Chiesa quando si occupa di pastorale giovanile e vocazionale. La vita è già in corso: non la generano né la strutturano le nostre iniziative. Esse toccano una percentuale irrisoria dei battezzati e del loro tempo. Prioritario è dare un nuovo nome a processi positivi in corso, fossero anche minimali: riconoscere nei nostri interlocutori il bene come bene, indicarlo e coltivarlo. Alla base di tanta insicurezza e al fondo di molte adolescenze bruciate sta un mancato incontro con chi chiama il meglio per nome e apre gli occhi a chi ne è inconsapevole portatore. È la svolta nel discernimento: sarebbe masochismo puro abbandonare ciò che rende preziosi. In un tempo che esalta il merito costruendo contesti, prima educativi e poi lavorativi, simili a campi di battaglia, c’è una malattia, una degenerazione della competitività: se viene meno il paolino gareggiare nello stimarsi a vicenda, allora gli altri divengono semplicemente avversari, ogni battuta d’arresto una sconfitta, ogni secondo posto una tragedia. È in questo senso che l’incontro coi poveri costituisce, come fu ad esempio nell’abbraccio di san Francesco al lebbroso, una liberazione della capacità di decidere. Abbracciare la fragilità, ospitare l’inquietante consapevolezza che i limiti non contraddicono il compimento, semplicemente sblocca. «Fragilità: una parola così bella, così umana e allo stesso tempo così rinnegata dagli uomini. Mai accettata. L’ho scoperta essere un dono, un’amica, una confidente, una consolatrice, una forza». A scriverlo è Matilde, un’eccellenza: così la considerava il suo liceo, e la classifica oggi l’università. Rischiando di imprigionarla: «I professori ti conoscono da anni e tu sei quel dieci… e ho sempre pensato che se anche fossi voluta crollare non ne avrei avuto il diritto. No, non puoi perché deluderesti chi ti vede sempre al cento per cento e punta su di te a occhi chiusi». Occhi chiusi che annientano anche i migliori, dopo aver scartato chi entro parametri predefiniti non dimostra talento.

Vocazione è parola rivoluzionaria in un tempo che non ci sa vedere in relazione. Riguarda giovani connessi gli uni agli altri, ma spesso senza alcuna vertigine per ciò che li accomuna e per quanto è già loro possibile. Il Sinodo, al n.78 del documento finale, dopo aver specificato che la vocazione non è la recita di un copione già scritto, suggerisce alla Chiesa una purificazione dell’immaginario e del linguaggio religioso, «ritrovando la ricchezza e l’equilibrio della narrazione biblica». Ma quale storia biblica è semplicemente equilibrio? Vocazione è sempre interruzione di un ordine già dato, invisibile, ma ormai soffocante. L’irruzione di una nuova coscienza di sé – dono della voce e di uno sguardo altrui – riscatta il tempo perso e tanti errori fatti, di ogni esperienza mostra il guadagno, rende gloriose anche le ferite. Ogni vicenda biblica, a partire da quella di Gesù – paradigma di tutte le altre – è il contrario di una retta via, di una fedeltà acritica, di un procedere di successo in successo, senza spazio per crisi e ripensamenti. La fragilità – dobbiamo testimoniarlo – è il tratto fondamentale delle più solide e feconde scelte di vita. Non c’è ‘per sempre’ che sia statica ripetizione, accomodamento, sicurezza nel proprio ‘stato’: la Bibbia è esodo continuo, creazione sempre in corso. Gli psicologi parlerebbero di resilienza, ma una Chiesa più obbediente alle Scritture avrà parole, immagini e storie sempre nuove per descrivere cammini in cui ciascuno diventa ciò che è. Saranno i suoi stessi figli a offrirgliele. Le loro sono, infatti, traiettorie personali, ma in cui la dimensione comunitaria fa la differenza. Carla, attratta dal Vangelo, pronta a dare tutto e a seguire Gesù senza riserve, ha iniziato un’esperienza in un istituto religioso femminile. Lascia dopo qualche mese: «Ho trovato relazioni funzionali, mi è mancata la freschezza di uno stare insieme nuovo; ho visto trattamenti diversi riservati alle superiore: questa non è la vita nuova che mi aspettavo, la vedo mondana».

Una Chiesa generativa, quindi madre, è cambiata dalle generazioni che fa crescere. Se ai giovani manca la percezione di una simile efficacia delle proprie scelte, più difficilmente avvertiranno l’essere cristiani come chiamata a incidere in un mondo già occupato e concluso. Forse nella Chiesa di domani si parlerà meno di stati di vita e più di vocazioni radicali di sequela, se siamo disposti a lasciarci interpellare dai giovani. Questa generazione, infatti, ci rivela che in ogni scelta a non esser mai scontato è il battesimo e a far la differenza è il diventare, passo dopo passo, dei veri cristiani.