Marco Mengoni, ‘dall’Eurovision arrivi un messaggio di pace’

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“Mi sarebbe piaciuto andare a Kiev: avrebbe voluto dire che la guerra era finita.

La musica a suo modo è un mezzo di pace e amore ed essere uniti qui significa comunque mandare un messaggio di pace.

Io sono contrario a qualsiasi guerra in atto nel mondo”. Marco Mengoni, con il brano vincitore al festival di Sanremo Due Vite (appena certificato triplo platino), è pronto a salire sul palco della Liverpool Arena dove rappresenterà l’Italia per l’Eurovision Song Contest al via martedì con le semifinali (l’Italia ha di diritto accesso alla finale in programma sabato 13). La manifestazione è trasmessa dalla Rai. Mengoni è alla sua seconda partecipazione dopo quella del 2013 con L’Essenziale. “Rispetto a dieci anni fa – racconta – mi sto divertendo di più. La sto vivendo meglio, con meno pressione e più voglia di godermela. Ora c’è più esperienza e so gestire meglio l’emotività”.
Del voto e della gara, del resto, dice di non preoccuparsi molto. “Mi interessa relativamente. La gara è qualcosa che considero un po’ in maniera negativa, mentre cantare non lo è mai”.
Per portare sul palco della Liverpool Arena il suo mondo Marco Mengoni ha scelto l’arte di Yoann Borgeois, artista internazionale (di recente ha collaborato con Harry Styles, con Pink!, e ancora con Coldplay, Serena Gomez, Missy Elliot and FKA Twig), un performer, coreografo, direttore artistico, acrobata.
L’Eurovision sarà occasione per l’artista di allargare il suo pubblico anche in vista di un tour europeo di otto date in autunno che toccherà Spagna, Belgio, Olanda, Francia, Germania, Austria, Svizzera. (ANSA).

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Ucraina-Russia: i droni e le tonache

Nell’aggressione russa all’Ucraina si sperimentano da ambo le parti le armi più moderne di cui sono esempio i droni, ma riemergono anche correnti religiose di lunga durata espresse dal personale ecclesiastico. Tecnica militare e riferimenti religiosi ancorati nei secoli si intrecciano.

Gli elementi di cronaca delle recenti settimane vanno rapportati alla coscienza religiosa e si possono ricondurre a tre elementi: la condizione delle popolazioni nelle aree occupate dai russi (Donbass e Crimea), l’acceso dibattito sul collaborazionismo o meno della Chiesa ortodossa non autocefala in Ucraina (essa fa riferimento al metropolita Onufrio) e il peso della giustificazione alla guerra d’aggressione da parte del patriarca Cirillo di Mosca.

Deportazione dei bambini
Un decreto presidenziale di Putin (27 aprile) impone agli abitanti dei territori annessi di prendere la nazionalità russa e il passaporto della federazione prima del prossimo luglio. Quelli che non lo faranno saranno considerati stranieri e passibili di espulsione.

L’ordine riguarda la Crimea, occupata dal 2014, ma anche i nuovi territori del Donbass. Qui un milione circa ha già provveduto, ma non mancano i refrattari. In ogni caso, anche coloro che accettano la cittadinanza russa sono soggetti a pene come la deportazione se vengono riconosciuti come una minaccia per la sicurezza nazionale.

Per l’arcivescovo greco-cattolico Borys Gudziak l’insostenibile giustificazione spirituale della Chiesa ortodossa russa copre la deportazione di migliaia di bambini (il Consiglio d’Europa ha formulato l’imputazione di genocidio), l’accusa ai non ortodossi di essere nemici del popolo e spie americane, l’arresto e tortura dei preti greco-cattolici, la chiusura delle chiese. Numerosi battisti, mormoni, testimoni di Geova, cattolici «hanno visto i loro membri arrestati, incarcerati o deportati».

Nel Donbass 29 responsabili religiosi sono stati arrestati e in Ucraina 500 chiese sono state bombardate. Il bilancio da parte del patriarcato di Mosca è diverso. Sono state consegnate 2.850 tonnellate di aiuti, organizzati corsi per le suore con funzione di infermiere, attivati 200 volontari per la ricostruzione delle case a Mariupol. La nostra priorità? «Il completo ripristino della vita religiosa parrocchiale… attraverso il dialogo con le autorità locali».

La lavra e i collaborazionisti
La soluzione del contratto con la Chiesa non autocefala per l’uso della lavra delle grotte a Kiev da parte dell’amministrazione ha scatenato l’attenzione locale e internazionale (primo articolo: qui; secondo: qui; terzo: qui). Alcune chiese del complesso monastico sono già state destinate alla Chiesa autocefala (di Epifanio), ma i monaci (circa 200) sono rimasti. Sono stati avviati diversi processi coi tribunali civili e amministrativi. Per ora un solo monaco è passato dall’obbedienza a Onufrio a quella di Epifanio, subito interdetto dal primo.

Un caso a parte è quello del vescovo Paolo (Lebed), responsabile della lavra e molto chiacchierato per uno stile di vita lussuoso, proprietario di case e amante di autovetture di pregio. Già privato di alcuni diritti è stato messo ai domiciliari in una delle sue dimore. Ha detto ai monaci: «Non abbandonate la lavra, non diventate traditori».

L’accusa ripetuta ad alcuni responsabili della Chiesa non autocefala è di collaborare col nemico russo, mentre ogni giorno muoiono un centinaio di soldati ucraini in prima linea. Per il deputato ucraino V. Storozhuk troppi collaborazionisti «in talare» hanno benedetto i «liberatori» russi cooperando attivamente con loro con attività di spionaggio. Il già citato vescovo Paolo ha esaltato pubblicamente l’occupazione di Kherson da parte delle truppe di Putin. Un diacono, l’oligarca russo-ucraino V. Novinsky, ha negato che il patriarca Cirillo sostenga la guerra di aggressione.

Per il teologo russo dissidente, C. Hovurum, il metropolita Onufrio sa del collaborazionismo di alcuni suoi vescovi, ma non ha fatto nulla per impedirlo. Eppure, nel caso del vescovo Antonio di Kmelnytskyi, è bastato un sospetto di trasferimento alla Chiesa autocefala per sostituirlo. Il capo dei servizi segreti ucraino V. Malyuk ha detto di avere scambiato alcuni pope con prigionieri ucraini perché il «nemico apprezza molto in suoi agenti in tonaca».

Fra i vescovi, i collaborazionisti sarebbero una ventina su un centinaio. Il vescovo Serafino di Frankivsk, dopo l’invasione, è fuggito in Russia al servizio di Cirillo senza più tornare. Il suo sostituto, Nikita, è stato accusato di condotte immorali. Il vescovo Teodosio si Cherkassy è stato per alcuni mesi agli arresti domiciliari. Dopo la lavra di Kiev, anche il complesso monastico di Potchaȉev verrà probabilmente sottratto alla Chiesa autocefala.

Dubbi sulla libertà religiosa
Lo stesso Onufrio, molto rispettato per il suo equilibrio e la vita austera, è stato coinvolto nell’accusa di possedere un passaporto russo. Ha dovuto darne una lunga e circostanziata spiegazione affermando di aver abbandonato la cittadinanza russa da anni. «Non ho un passaporto russo… mi considero un cittadino ucraino».

Ai monaci e alla monache arriva la sollecitazione ad abbandonare la Chiesa non autocefala: ha testimoniato l’igumena (superiora) del monastero Sant’Arcangelo di Odessa. Il rettore dell’Accademia collocata nella Lavra delle grotte ha scritto a Bartolomeo di Costantinopoli per denunciare l’attiva partecipazione della Chiesa autocefala alle violenze contro chiese e monasteri che fanno riferimento a Onufrio.

Una voce a parte è quella della Chiesa greco-cattolica. L’arcivescovo maggiore, Svitoslav Shevchuk, ha messo in guardia le autorità dal «creare dei martiri», illudendosi di spegnere una comunità credente. È però consapevole delle ambiguità che abitano la Chiesa non autocefala, il cui comportamento richiama quello degli oligarchi. Quando lo stato «esige il rispetto delle leggi, diventa chiaro che quanti non le hanno mai rispettate possano sentirsi perseguitati», sentirsi offesi perché invitati a rispettarle. È legittimo che lo stato intervenga quando una Chiesa diventa pericolosa per la sicurezza di tutti. Purtroppo, ciò penalizza tutte le comunità credenti perché tutte perdono di credibilità agli occhi della popolazione.

La spinta dei politici e dei media a penalizzare la Chiesa non autocefala solleva qualche dubbio sulla correttezza formale delle decisioni. Di queste ambiguità si alimentano le molte denunce, interne ed esterne, che reclamano il rispetto dei diritti di libertà di religione e di pensiero: dal patriarca ortodosso copto, Tawadros, a quello serbo, Porfirio, dall’istituto San Sergio (Parigi) al metropolita del Montenegro, Giovanni, dalla KEK (consiglio delle Chiese d’Europa) ad alcune istituzioni politiche. Le sentenze dei tribunali forniranno una indicazione importante.

Cirillo: mai preso ordini
Privo di ogni incertezza e ambiguità è il sostegno del patriarca Cirillo di Mosca alla guerra contro l’Ucraina. Anche a costo di smentire le sue affermazioni. Nell’intervento che fece all’assemblea ecumenica di Basilea (15-21 maggio 1989) esaltava la democratizzazione interna di Gorbaciov e anzi auspicava una «democratizzazione interna profonda» per l’intera società. E citava Ef 6,12 (la lotta non contro le creature ma contro i Principati e le Potestà) non applicandola all’Occidente come fa ora, ma come impegno «morale comune a tutti».

Un appoggio alla guerra anche a costo di smentire un magistero da lui stesso approvato, come un passaggio de I fondamenti della concezione sociale (concilio russo 2000) in cui al capitolo terzo, n. 5 si esclude la giustificazione ecclesiale per «una guerra civile o una guerra di aggressione esterna». Il 18 aprile proclama: «l’isola della libertà è il nostro paese e la nostra Chiesa».

E reagisce con forza davanti alle accuse di prendere ordini da Putin. «Davanti a Dio vi dico: il presidente non ha mai dato ordini al patriarca, non li sta dando e, ne sono certo, non li darà». Ed esalta la “sinfonia” Chiesa-politica che neppure a Bisanzio «fu mai pienamente realizzata».

Il 21 aprile trasforma l’aggressore in aggredito. La «difesa della patria è il più grande dovere e un atto santo… Invito tutti voi ad elevare oggi una preghiera speciale per il nostro presidente, per le autorità e il nostro esercito, e per tutto il popolo, affinché nessuna forza malvagia esterna possa dividerci e quindi indebolirci».

Il 30 aprile irride quanti «percepiscono ancora il cosiddetto mondo occidentale come ideale. Ma questo non è ideale, è la fine, è la morte della civiltà! Matrimoni tra persone dello stesso sesso, pedofilia, “libertà” che distrugge completamente la personalità: tutto ciò che ferisce la persona, la sua autenticità, la sua natura. E qualsiasi politico pensante deve capire: non c’è prospettiva di vita dall’altra parte (Occidente), perché tutto ciò che oggi viene presentato lì come ideale, viene dall’Anticristo, dal demone. Contro Gesù Cristo».

E attribuisce le diverse posizioni delle Chiese d’Occidente alla paura: «Sì, hanno paura! Noi, anche nell’Unione Sovietica, non avevamo paura di andare controcorrente!».

Paura di chi?
Eppure, nello stesso giorno, in un’omelia durante l’ordinazione di un vescovo, mette in guardia l’eletto dalla paura: «È molto importante che il timore di Dio ti aiuti a superare la tua paura terrena e quotidiana. Chi ha paura non sa gestire efficacemente la Chiesa e guidare il popolo. La sua parola non sarà autorevole per chi ascolta. Come un capitano che ha paura di una tempesta non può guidare la nave sulla giusta rotta con mano ferma».

Il 18 aprile denuncia un pericoloso «nemico interno» e, qualche giorno dopo, specifica: «Oggi la nostra preghiera è per la nostra patria, affinché il Signore la protegga dai nemici esterni e interni, da tutti coloro che non associano la propria vita alla Russia, che sono pronti a fare soldi in Russia, ma non sono mai stati pronti a servire la patria. Dobbiamo educare le persone, anche attraverso la predicazione, all’amore per la patria che è la virtù più grande».

La cecità dell’Occidente
Dai dati di cronaca prende figura una riflessione critica di Jean-François Colosimo verso l’Occidente sul peso della fede nell’attuale contesto bellico internazionale. Senza questo non si comprende che «Vladimir Putin, in nome di una religione reinventata (Ortodossia russa o russismo ortodosso), ma con uno zelo indiscutibilmente religioso, attacchi l’Ucraina non senza disprezzare la nostra supposta a-religione e burlandosi dell’Occidente anatematizzato come decadente nei suoi costumi perché declinante nel suo credo. Che cosa ci è successo? Abbiamo castrato la storia e la geografia che la religione ha plasmato molto più che qualsiasi altra istanza ed esse sono diventate per noi come lingue straniere. Abbiamo omesso che il fatto religioso è prioritario, che appartiene al codice genetico, che struttura le mentalità collettive e che non ha bisogno di essere manipolato per influire. Abbiamo mal-giudicato che, se c’è una divisione del mondo in aree e blocchi, essa risiede anzitutto nell’immaginario. Le rappresentazioni simboliche istruiscono le istituzioni politiche, economiche e sociali. Non il contrario. Abbiamo rimosso che la cultura procede sempre dal culto. Nessuna frontiera d’ordine fisico ha mai impedito uno scontro dalle pretese metafisiche. E, infine, abbiamo occultato che il sacrificio supremo si compie tanto meglio quando viene comandato da una figura invisibile e non dimostrabile» (La crocifixion de l’Ucraine, Parigi 2022, p. 206).
settimananews.it

Fiera di Bologna. La guerra dei bambini raccontata ai bambini

Alla Children’s book fair sono molti i libri che, a causa di quanto accade in Ucraina, mettono a tema il rapporto fra i conflitti e la vita dei più piccoli
Un’illustrazione tratta dal volume “La mia casa” di Kateryna Tykhozora e Oleksandr Prodan

Un’illustrazione tratta dal volume “La mia casa” di Kateryna Tykhozora e Oleksandr Prodan – edito da Il Castoro

avvenire.it

Dopo che la sua casa è stata distrutta da una bomba, un bambino è in fuga con la sua famiglia, verso un altrove sconosciuto. E la domanda è: dove vai e che cosa puoi chiamare ancora casa, se improvvisamente l’hai perduta? Un rifugio, una stazione dove devi lasciare i bagagli e salutare il papà che resta a fare la guerra, la casa di un parente che ti ospita o il ciglio della strada dove qualcuno ti offre un tè caldo? Kateryna Tykhozora e Oleksandr Prodan, entrambi ucraini sfollati dal loro Paese, quelle scene le hanno vissute in prima persona e viste con i loro occhi. E a quelle domande, che contengono l’esperienza straziante di sradicamento di tutti i bambini coinvolti nelle guerre, hanno dato voce in un libro illustrato, La mia casa (Il Castoro) che mentre cerca di dare un senso a ciò che un senso non ha, offre un orizzonte possibile di salvezza, almeno emotiva. Nessuno può distruggere il ricordo di quel che la casa è stata e di chi in quella casa ci ha amato. La memoria è un tetto che protegge e scalda il cuore, la luce che tiene lontano il buio, le radici che legano al proprio Paese e guideranno il ritorno. Raccontare ancora la guerra dunque. E non solo quella in Ucraina, perché tutte le guerre si somigliano, tutte distruggono Paesi, dividono famiglie, seminano paura e mettono in fuga le persone. Non parlarne ai bambini e ai ragazzi è impossibile. Lo dimostrano, oltre che le proposte di un anno con la guerra alle porte dell’Europa, le novità di autori ed editori presenti a Bologna da domani al 9 marzo per la sessantesima edizione di “Bologna Children’s Book Fair”. Impossibile per la letteratura non inoltrarsi in ciò che la cronaca rimanda, non farsi racconto e storie di chi prima aveva una vita normale ed è incappato in quanto di peggio possa succedere a chiunque. Impossibile persino per la poesia: con i versi di Valerio Magrelli e le illustrazioni di Alessandro Sanna, La guerra, la pace (Rizzoli) racconta gli stessi quadri di vita quotidiana – l’estate, la spiaggia, la campagna, un giorno di nebbia e uno di pioggia…– semplicemente mettendoli a confronto in due tempi diversi. Un tempo di pace che rende gioioso ogni giorno e ogni luogo. E un tempo di guerra che rende ogni cosa insopportabile. Sono bambini e bambine messi alla prova da dolori e disastri che nessuno dovrebbe affrontare, in bilico nella propria identità ma capaci di resistere con coraggio i protagonisti dei romanzi che hanno la guerra sullo sfondo. Dalla Siria prende le mosse l’odissea di Sami in fuga dalla guerra (Mondadori), un tredicenne figlio di professionisti benestanti a Damasco, la cui vita scorre in assoluta tranquillità fino a quando la guerra civile non irrompe in città e la famiglia decide di lasciare il Paese. E lo fa affrontando un viaggio oneroso e pericoloso verso l’Inghilterra, affidandosi a trafficanti di persone, rischiando la vita, sopportando le discriminazioni e le umiliazioni di chi bussa da profugo a un altro Paese avendo perso tutto. Incontrando un’umanità talvolta pessima altre volte speciale nell’accoglienza, capace di trasformare in speranza di vita nuova la nostalgia e la rabbia per ciò che si è lasciato. Anche Lia Levi esplora i moti del cuore di una bambina ucraina messa in salvo dai genitori quando sul Paese cominciano a piovere bombe. Ma Iryna, La bambina da oltre confine (Il Battello a Vapore), mandata in Italia e accolta dalla famiglia presso cui la nonna Kateryna lavora da tempo, non si rassegna alla lontananza. Troppo forte la nostalgia. Per Iryna ci vogliono tempo, parole giuste, un amico e magari anche un cane, il suo cane, per capire che nessuna distanza può allentare i legami autentici con il proprio mondo. È una storia vera autobiografica, dura e toccante quella raccontata nel graphic novel Come stelle nel cielo (Il Castoro), ispirata alla vita di Omar Mohamed, cresciuto con il fratellino disabile Hassan in Kenya a Dadaab, in un campo profughi per i somali in fuga dalla guerra civile. Una vita dura di fame e stenti ma anche di scuola e forza di volontà che dopo anni lo porterà negli Stati Uniti, in Pennsylvania, dove ha fondato la ong Refugees Strong che aiuta ragazze e ragazzi nei campi profughi a studiare. Orecchio acerbo pubblica un lavoro degli anni ’50 che conserva una sua fresca attualità, Per caso, lo sguardo di due artisti, il testo di Natalie d’Arbeloff e i disegni di Gian Berto Vanni, sulle guerre che attraversano l’umanità da millenni: la scoperta primordiale, casuale di un bastone con il potere di uccidere che si cerca di nascondere ma casualmente riaffiora per essere inconsapevolmente usato. Finché una bambina riesce a invertire la rotta, piantando quel legno e ottenendo ancora per caso da un’arma un albero fiorito. Una speranza che a giudicare dall’attualità casualmente è continuamente tradita. Perché Il nemico, mandato a uccidere, come rac-conta questo albo di Terre Di mezzo, inferocito dalla propaganda, dai manuali e dai generaloni, a ben guardarlo è solo uno come noi, che sta nell’altra trincea ma avrebbe una gran voglia di tornarsene a casa. In questo anno infine si è fatto strada anche un altro modo di guidare i ragazzi alla comprensione dell’attualità, forse meno praticato in passato. Quello affidato alla voce degli inviati nei territori di guerra, alle loro ricostruzioni e testimonianze dirette fatte di luoghi e persone, vite vere di superstiti, di uomini, donne e bambini trasformati in profughi, sfollati, rifugiati e combattenti. Lo fanno Francesca Mannocchi, autrice di numerosi reportage per tante testate, con Lo sguardo oltre il confine (De Agostini), Stefania Battistini, inviata del Tg1, con Una guerra ingiusta. Racconti e immagini dall’Ucraina sotto le bombe (Piemme) e Domenico Quirico, reporter di guerra per tanti anni per La Stampa con Quando il cielo non fa più paura. Le storie della guerra per raccontare la pace (Mondadori) un racconto attraverso dieci parole chiave dell’insensatezza di tutti i conflitti e della pietà che tutti dovremmo conservare per restare umani.

Scongiurare il rischio di armi nucleari

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– Sull’Ucraina si deve “cercare di convincere la Russia a venire a più miti consigli e sedersi ad una tavolo per trattare una soluzione pacifica della crisi in Ucraina.

Naturalmente la pace, per quanto ci riguarda, significa una pace che preveda non la sconfitta dell’Ucraina, ma il ritiro delle truppe russe”.

Lo ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani a Tgcom24.
“Tutti quanti lavoriamo per raggiungere l’obiettivo della pace – ha aggiunto -. Vogliamo scongiurare assolutamente qualsiasi rischio, anche ipotetico, di utilizzo di armi nucleari, seppur tattiche, quindi limitate ad alcune zone, perché sarebbe una sciagura”. (ANSA).

Perugia-Assisi, la notte della marcia: «La politica può fermare la guerra»

La marcia si concluderà con una preghiera per la pace sulla tomba di san Francesco

La lunga notte della pace inizierà questa sera alle ore 21 a Perugia e si concluderà domani mattina ad Assisi, alle ore 6, quando è atteso l’arrivo della marcia straordinaria, convocata dal mondo pacifista in corrispondenza del primo anniversario del conflitto in Ucraina. Nove ore ininterrotte per discutere, confrontarsi, camminare e testimoniare, con i fatti, la scelta profetica della nonviolenza.

«Ecco cosa può fare la politica» dicono i promotori della mobilitazione, nell’appello condiviso sui social. Bastano i primi tre punti per chiarire che cosa si aspetta la società civile. «La politica deve riconoscere che è interesse degli ucraini, ma anche dei russi e nostro, che la guerra finisca al più presto e che si cominci a costruire la pace con “soluzioni concordate, giuste e stabili”». In secondo luogo, è necessario ammettere che « la “guerra alla guerra” di Putin non lo sta fermando» e che, punto numero tre, «l’invio nel campo di battaglia di armi sempre più potenti e sofisticate alimenta l’escalation militare, moltiplica gli orrori e innalza il livello dello scontro».

Il prologo e il cammino

Alle ore 21, i partecipanti alla marcia straordinaria Perugia-Assisi si incontreranno nella Sala dei Notari del Palazzo dei Priori per un” incontro di riflessione e proposta” contro tutte le guerre. Tra gli altri, interverranno l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, Ivan Maffeis, Mario Giro, della Comunità di Sant’Egidio, Stefania Proietti, sindaca di Assisi e presidente della Provincia di Perugia, Marco Tarquinio, direttore di Avvenire e Flavio Lotti, coordinatore della Marcia.

È proprio Lotti a raccontare le ore che precedono la mobilitazione, che comincerà a mezzanotte. «Si tratta di un’assoluta prima volta – spiega -. Perché abbiamo deciso di testimoniare il nostro “sì” alla pace nel buio della notte: è un gesto radicale, in una fase storica che richiede gesti simbolici radicali». Anche logisticamente, organizzare il percorso in notturna tra i borghi umbri non è cosa banale, ma è significativo che più di 700 persone si siano già iscritte alla marcia, pagandosi il viaggio e le altre spese. «Colpisce che due partecipanti su tre, tra quanti verranno, non fanno parte di associazioni coinvolte nella mobilitazione iniziale – continua Lotti -. È semplicemente gente preoccupata per l’abisso in cui stiamo cadendo, nel silenzio del mondo».

Per il resto, il variegato mondo pacifista, riunito ancora una volta sotto il cartello di Europe for peace, comprende il mondo laico e il mondo cattolico, «l’Anpi e i salesiani» esemplifica Lotti. Per ogni persona che sarà presente, stimano gli organizzatori, ce ne saranno «tante altre che avrebbero voluto esserci e non ci saranno, per ragioni contingenti. Marceremo anche per loro, ben sapendo che la maggioranza dell’opinione pubblica è stufa di bombe e carri armati».

La conclusione, la mattina presto ad Assisi, sarà ancora più simbolica, con la preghiera per la pace sulla tomba di san Francesco, la lettura di un brano della “Pacem in Terris” e la ripresa dell’appello per il cessate il fuoco pronunciato dal Papa lo scorso 2 ottobre.

Le condizioni per la tregua

La giornata di riflessione prevede nella mattinata odierna anche un incontro pubblico organizzato da Articolo 21 sull’informazione di guerra. Il peso della propaganda bellica e la necessità di cambiare linguaggio sono tra i punti-chiave della svolta in senso diplomatico richiesta dai manifestanti. «Ottenere il cessate il fuoco vuol dire fermare i combattimenti e promuovere la de-escalation militare. Sappiamo che è difficile, ma è necessario. Per questo dobbiamo fare ogni sforzo per ottenerlo – si legge nella piattaforma di proposta alla politica -. Servono autorità, visione, volontà di collaborare e potere persuasivo. Sarà necessaria la pressione di molti».

In questo senso, la notte della marcia è un altro passo, il più emblematico forse, del lungo cammino intrapreso quasi un anno fa. Un segnale rivolto all’Italia e all’Europa, in attesa dell’alba.

avvenire.it

Veglia di preghiera per la pace in Ucraina 23-24 Febbraio 2023 a Reggio Emilia

laliberta.info

Nella notte tra il 23 e il 24 febbraio dell’anno scorso, il presidente Putin diede l’ordine di invadere l’Ucraina. Contro ogni aspettativa, l’aggressore venne prima contenuto, poi ricacciato verso le zone occupate dal 2014. Tuttavia, non si contano più i morti dall’una e dall’altra parte e le distruzioni delle case e delle infrastrutture sono tali che milioni di ucraini sono fuggiti verso le città dell’ovest, sradicati dalle loro case, che spesso non esistono più, e senza prospettive.

Gravissime sono le macerie spirituali.
Due popoli, quello ucraino e quello russo, che si consideravano fratelli, sono ora divisi da un odio mortale.
Le dichiarazioni del patriarca di Mosca, Kirill, hanno santificato la guerra e scavato una voragine per le prospettive dell’unità dei cristiani.

Dalla parte degli aggrediti, si sta rafforzando, anzi, ormai è una voce unica, quella che identifica la pace con la vittoria militare. La conseguenza è, che lo spazio per il negoziato si è ormai ristretto al punto da sembrare inesistente.

La prospettiva è quella di una guerra che continui per anni, magari “a bassa intensità”, ma senza escludere esiti catastrofici.

La posizione dei governi che appoggiano l’Ucraina non è per niente chiara. Non c’è veramente null’altro da fare, se non fornire armi e proclamare un sostegno illimitato?
Che spazio può avere il Vangelo? In queste domeniche, leggiamo il Discorso della Montagna e Gesù dice: “Se tu presenti la tua offerta all’altare e ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (Mt 5,23s.). Il comportamento dei cristiani sembra dare ragione a coloro che giudicano il Vangelo bello, ma irrealizzabile.

A noi resta la preghiera: preghiera per le vittime e gli aggressori, per i morti e coloro che sono dolorosamente vivi; per i governanti e per coloro che vedono lacerarsi le loro carni e le loro speranze. Per noi e per tutti.

Pensiamo così di passare in preghiera la notte dell’anniversario, tra giovedì 23 e venerdì 24 febbraio, nella chiesa del Buon Pastore, in viale Umberto I. Inizieremo con la celebrazione della santa Messa alle ore 18.30 e concluderemo con un’altra celebrazione eucaristica alle ore 8. Ciascuno sceglierà orario e durata della sua preghiera.
Unico sussidio, la Parola di Dio, in particolare Vangelo e Salmi.

Giuseppe Dossetti

Sanremo. Tananai, un Tango di guerra per cantare la pace

Tananai, un Tango di guerra per cantare la pace

Nel video del brano di Tananai i filmati scambiati da una coppia ucraina, con una figlia, separata dal conflitto. E la canzone decolla sui social «Lancio un messaggio di umanità e di amore»

«Amore tra le palazzine a fuoco / la tua voce riconosco / noi non siamo come loro» canta Tananai mentre le bombe colpiscono i palazzi in Ucraina e si vede un uomo al fronte che carica un mitra, «è quello che sono, e non volevo esserlo». Lascia a bocca aperta il video di Tango, il brano che il cantante 27enne, vero nome Alberto Cotta Ramusino, ha portato in gara al Festival di Sanremo e che alla luce di queste immagini rivela tutto un altro significato, commuovendo davvero. E punta dritto al podio nella finalissima di stasera l’outsider che non ti aspettavi, arrivato ultimo l’anno scorso al Festival con la giocosa Sesso occasionale per poi diventare invece presto una star delle classifiche (lo vedremo da maggio in tour nei palazzetti). Dall’anno scorso ha messo la testa a posto, ha preso lezioni di canto e ha deciso di affrontare questo mestiere in modo più professionale, come dimostra questo brano che vede tra gli autori, oltre a Tananai, Paolo Antonacci e Davide Simonetta. Diretto da Olmo Parenti per la produzione di A Thing By, il video racconta la storia a distanza di Olga e Maxim, due ragazzi di 35 anni provenienti da Smolino, una cittadina in Ucraina nella provincia di Kirovohrag, che insieme hanno una figlia di 14 anni, Liza. Ed è già diventato virale sui social. Immagini girate dai protagonisti stessi con il loro cellulare e inviate l’uno all’altra raccontano nel video la nuova realtà della coppia e della famiglia separata dalla guerra. Prima dell’inizio del conflitto, Olga faceva la segretaria in una clinica, Maxim è un militare e combatte al fronte fin dal febbraio 2022. Olga e la figlia Liza sono scappate in Italia il 28 marzo 2022, circa un mese dopo l’inizio dell’invasione russa.

Scusi Alberto, come mai sino ad ora non aveva mai rivelato il contenuto reale del suo brano?
Non volevo banalizzare o strumentalizzare la loro storia. Volevo che arrivasse prima la canzone sul palco, ma ora ci tengo a raccontare questa storia e al messaggio. Era difficile veicolarlo nel modo corretto senza avere visto prima il video che è uscito due giorni fa.

Come è venuto a conoscenza della storia di Olga e Maxim?
Ero impegnato nella scrittura di Tango quando mi è stata raccontata dal mio amico Olmo, il regista del video, la storia di Olga e Maxim e sono stato subito travolto da emozioni forti e contrastanti. Mi sono reso conto che il brano su un amore a distanza parla anche di loro e ho continuato a scriverlo pensando alla loro storia. Olmo poi si è fatto dare da loro i video girati coi telefonini, da quando erano felici ai video toccanti che si scambiano oggi dal fronte.

Lei ha avuto occasione di conoscere Olga e parlarle?
Purtroppo no. Olga e sua figlia quando sono arrivate in Italia hanno passato qualche giorno nelle strutture statali di prima accoglienza ma dopo poco hanno dovuto cercarsi una stanza dove stare, trovando ospitalità nella casa di un signore italiano nel quartiere Isola di Milano. Lei ora è dovuta tornare in Ucraina perché non ce la faceva a restare. Ma lei e suo marito sono ancora divisi perché lui è al fronte.

Quale messaggio vuole fare passare attraverso questo brano e video?
L’obiettivo della mia musica è sempre stato quello di arrivare a più persone possibili e mi sembrava giusto, visto il tema della canzone, dare voce e immagini alla testimonianza di questi due ragazzi ucraini, rappresentando una delle tipologie di relazione a distanza, quella a cui non penseremmo mai: la separazione forzata a causa di una guerra. È passato un anno dall’inizio di questo conflitto e forse ci siamo dimenticati che non si tratta solo di strategia e politica ma di quotidianità che si sfaldano e si riadattano per non far svanire ogni traccia di umanità, di amore.

Un messaggio di pace inaspettato all’Ariston, soprattutto da un cantante noto per la sua immagine allegra e scanzonata.
A Sanremo ho portato un altro lato di me e questo momento lo sto vivendo molto fieramente: sono sicuro che sto facendo una cosa bella che può veicolare un messaggio di pace e umanità. E’ chiaro che pochi possono cambiare la situazione, ma questo video nel suo piccolo forse può aiutare a cambiare qualcosa. A ricordarci quanto siamo fortunati, ad essere grati di quello che abbiamo. Quando sei grato e soddisfatto sei portato più a fare del bene che del male.

Questo brano sarebbe perfetto per gareggiare ad Eurovision, che si terrà dal 9 all’11 maggio a Liverpool invece che in Ucraina. Le piacerebbe cantarlo là?
Innanzitutto in gara a Sanremo, che dà l’accesso a Eurovision, ci sono degli artisti tostissimi… Io porto sul palco che reputo migliore quello che desidero esprimere in quel momento. L’anno scorso ho portato al Festival l’allegria, quest’anno un messaggio di pace. Certo, andare a Eurovision sarebbe bellissimo soprattutto perché il mio sogno sarebbe portare il video di Tango a più persone nel mondo.

Questa sera, poco prima della proclamazione del vincitore, Amadeus leggerà una lettera del presidente ucraino Zelensky, dopoché vi erano state alcune polemiche sull’opportunità di trasmettere un videomessaggio al Festival. Che ne pensa?
Vorrei specificare che il mio messaggio è apolitico, è un puro parlare della storia di due ragazzi, delle avversità che affrontano e di quanto le guerre siano una schifezza. Non ho una idea sulla questione, so solo che io ho fatto il mio.

Anche questo brano fa parte della sua maturazione umana e artistica?
Nell’ultimo anno ho vissuto esperienze incredibili, ho fatto tanti concerti e conosciuto professionisti del settore. E ho capito che mi piace parlare di tutto quello che sento vicino a me oltre, parlando con più persone, aprendomi di più al mondo. E poi resta sempre anche la mia parte allegra. Nel tour vorrei venisse più gente possibile a cantare Tango e anche le altre canzoni, quelle che fanno ballare e divertire. Sarà una festa, una celebrazione pura della musica.
avvenire