Reggio Emilia. Cent’anni di psichiatria. A Piero Benassi il Primo Tricolore

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Neurodiversità e autismo nell’infanzia 18 nov 2023 – Piero Benassi (ph. Laura Sassi)

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Giovedì 4 aprile, alle ore 15 nella Sala del Tricolore, il sindaco Luca Vecchi consegnerà il Primo Tricolore al professor Piero Benassi, medico psichiatra, per trent’anni – dal 1964 al 1994 – direttore dell’Ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia.

La cerimonia è promossa dal Comune di Reggio Emilia in collaborazione con l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia e il Lions Club Reggio Emilia Host, a pochi giorni dal centesimo compleanno del professor Benassi.

La consegna del Primo Tricolore vuole essere un riconoscimento a un cittadino illustre di Reggio Emilia, la cui storia professionale, di ricerca e docenza si è incentrata sullo studio della mente e sulla psichiatria. Per l’occasione in Sala del Tricolore sarà distribuita ai presenti una copia del nuovo libro di Piero Benassi, Come funziona il cervello?

Oltre ad aver diretto a lungo l’Ospedale San Lazzaro, fra i principali istituti psichiatrici italiani, gestendone fra l’altro la complessa fase della chiusura, Benassi è stato docente di Psichiatria all’Università di Bologna e direttore della Rivista Sperimentale di Freniatria dal 1964 al 1997.
Per Decreto del presidente della Repubblica (7 gennaio 1999), Benassi ha ricevuto la Medaglia d’Oro al merito della Sanità pubblica.

È autore di oltre trecento pubblicazioni scientifiche e dal 2002 al 2014 è stato presidente dell’Associazione per il Museo di Storia della Psichiatria presso il San Lazzaro di Reggio Emilia. Dal 2002 al 2014, inoltre, è stato vicepresidente della Società italiana di Psichiatria.

Tra i numerosi titoli a sua firma, negli ultimi anni ha pubblicato: Compendio delle cure psichiatriche e le vulnerabilità della condizione umana (2018); Storie di una psichiatria viva (2019); Narrazioni e storie in psichiatria (2020); Ansia, fobie, ossessioni. La relazione che cura (2021); Una storia di libertà (2022). Nel 2023 ha pubblicato La storia del famoso manicomio San Lazzaro di Reggio Emilia.

La partecipazione è libera, a riempimento dei posti a disposizione.

Una lettura messianica della storia

di: Flavio Lazzarin
in Settimana News

Anni fa, Gino Paoli cantava “Quattro amici al bar” e anche oggi rimango perplesso per il messaggio del cantautore, conformato all’impossibilità di lottare per cambiare il mondo e che delega, senza troppa convinzione, il sogno di cambiare alle nuove generazioni.

Più triste di Paoli è Belchior che percepisce drammaticamente la sconfitta e, in “Come i nostri genitori”, ci dice dei pericoli dietro l’angolo, perché i nemici hanno vinto. E mostra il suo dolore nel constatare che la sua generazione che ha, apparentemente, tentato di tutto per cambiare il mondo, non è di fatto riuscita nemmeno a cambiare sé stessa e “noi siamo ancora gli stessi e viviamo come i nostri genitori”.

La scomparsa del Marx profetico
La mia generazione ha cominciato ad occuparsi di politica in modo antistituzionale negli anni ’60, ma già nel decennio successivo, siamo stati costretti ad ammettere la verità rivelata dalla sconfitta. In Europa assistemmo al tentativo rivoluzionario della Baader-Meinhof, di Giangiacomo Feltrinelli, delle Brigate Rosse.

In America Latina, cominciando con Che Guevara, maestro di tutti i fuochi rivoluzionari, abbiamo conosciuto guerriglie in Bolivia, in Uruguay, in Argentina, in Cile, in Perù, in Venezuela, in El Salvador, in Guatemala, in Nicaragua; in Colombia, c’è stato l’indimenticabile Camilo Torres, in Brasile Carlos Marighella, Carlos Lamarca e i guerriglieri dell’Araguaia.

Guerriglie, che hanno rappresentato, forse, quasi tutte le variabili ideologiche della sinistra: anarchici, indipendentisti nazionalisti e indigeni, marxisti, leninisti, stalinisti, trotzkisti, maoisti. E cattolici. Tutti rivelano nella sconfitta le aporie e gli equivoci ideologici del marxismo. È in questo tempo che si consuma definitivamente – colpo sparato al cuore di tutti i partiti comunisti (in Albania il proiettile giunge con un certo ritardo) – il divorzio ideologico tra il Marx sociologo e il Marx profeta.

Avevamo, in tutto il ’900, una prospettiva marxista unitaria in cui l’analisi politico-economica dei processi capitalisti procedeva di pari passo con la certezza del ruolo provvidenziale del proletariato industriale. Negli anni ’70, questa concezione filosofico-politica si frantuma. Del marxismo resta la lezione irrinunciabile della critica dell’esistente e del primato dell’economia politica capitalista sul potere culturale e propriamente politico, in cui lo stato è il “garzone di bottega” del capitale.

Ma il Marx profetico, che riprende, secolarizzandolo, il luogo teologico della “felix culpa”, scompare dalla prassi e dal pensiero di sinistra. Non c’è più la colpa e non sussiste più il nuovo redentore che avrebbe dovuto essere la classe operaia. E non c’è più risurrezione, spazzata via la fede illusoria del protagonismo rivoluzionario operaio.

Ed è qui che si esplicita con chiarezza l’impasse delle sinistre che rimangono orfane di sogni, di progettualità politica e di utopia. Si arrendono, obbedienti, alla lettura postmoderna di Jean-François Lyotard e Gianni Vattimo e accettano acriticamente la tesi della morte definitiva delle cosiddette “grandi narrazioni”.

Il teatro del mondo
Ci rimane l’analisi, la descrizione più o meno intelligente delle congiunture politiche, ciò che, da molto tempo, definisco l’“elenco della spesa del supermercato”. Insomma, la sinistra si colloca davanti alla realtà come se fosse a teatro e dimentica che la lotta contro l’ingiustizia ha bisogno di attori veri e nuovi.

Recentemente abbiamo assistito alle varie edizioni del Forum Social Mundial, che, con Guy Debord, siamo obbligati a definire eventi “mercantil-spettacolari”: forum colonizzato dalle letture accademiche e dalle Ong. E, in Brasile, assorbito e manipolato da una sinistra governista, opportunista e inconcludente.

Chi attualmente sta mostrando l’emergenza e l’insorgenza di nuovi attori sono gli eredi dell’Operaismo, una sinistra radicalmente antiautoritaria, che scommetteva sul protagonismo della classe operaia, contro le mediazioni sindacali e partitiche, ormai condannate ad un irrimediabile riformismo.

Sorto in Italia, a partire del pensiero di Mario Tronti, incontra, prima in Potere Operaio e più tardi nell’Autonomia Operaia movimenti e strategie politiche concrete. Quest’area di insorgenza, anch’essa sconfitta negli anni ’70, riappare oggi nel pensiero di Antonio Negri, figura importante e contradditoria di quegli anni bui e difficili. E si irradia nelle posizioni di Giuseppe Cocco e Bruno Cava Rodrigues, nell’area di dibattito e di valorizzazione del metodo di analisi marxista, che è l’Università nomade.

La moltitudine
Il nuovo protagonista delle lotte anticapitaliste sarebbe per loro la moltitudine, le moltitudini. Coerentemente analitici non si azzardano – mi pare – nemmeno per sbaglio a pensare religiosamente questo attore come un succedaneo della classe operaia redentrice. Ma gliela farei questa domanda: il meccanismo redentore della “felix culpa” continua presente, nonostante ancora occulto e vaccinato, dalla possibilità autocritica?

Infatti, mi pare, al posto degli operai, appare la moltitudine, nuovo protagonista rivoluzionario, come provvidenziale forza costituente, tanto potente e minacciosa che solo il suo spauracchio può spiegare razionalmente le planetarie e irrazionali reazioni fasciste.

Esempio lampante di questa scommessa sulla moltitudine provvidenziale è la lettura che Cava fa dell’invasione russa dell’Ucraina, interpretata come risposta alle mobilitazioni delle moltitudini nell’Euromaidan, la Primavera Ucraina del 2013 e 2014, e come prevenzione repressiva putiniana e panrussa della possibilità di mobilitazioni moltitudinarie in territorio russo.

Sarebbe necessario studiare a fondo le Primavere arabe dal 2011 in poi, ma – ancora una volta ignorante presuntuoso – non riesco a frenare la lingua e almeno domandare: nel 2022 come stanno l’Egitto, la Siria, la Libia?

Se poi pensiamo alle moltitudini del 2013 brasiliano, non possiamo ignorare che furono sconfitte, soprattutto per la miopia autoritaria e l’incapacità di analisi della sinistra e dei suoi rari intellettuali. Il giugno 2013 vede una moltitudine non solo senza alleati e articolazioni consistenti, ma repressa violentemente dalla Polizia Militare, azionata o appoggiata da governi di sinistra. La primavera brasiliana si sgonfia o sceglierà più tardi la destra fascista.

I dubbi sull’effettivo potere politico delle moltitudini ritornano quando osservo due momenti assolutamente contradditori nella storia recentissima del Cile. Infatti, in Cile, se nel 2019 si rivela prepotentemente il potere costituente della moltitudine e funziona prodigiosamente la cospirazione di articolazioni alleate al potere delle masse, nel 2022, nell’ora del plebiscito per approvare la nuova Costituzione – questa volta non più nelle piazze, ma nel segreto delle urne – la moltitudine vota contro un testo che tutelerebbe popoli indigeni, ambiente, le donne e la classe che più ha pagato il prezzo delle politiche neoliberali.

Un orizzonte di speranza
Per superare l’impressione di un amaro pessimismo che non lascia spazio alla Speranza e alla lotta dirò, concludendo, su chi scommetto. Mi pare che l’alternativa, quasi un maturo controcanto – o forse una nuova melodia – è la traiettoria dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, in Chiapas, profezia di tutte le insorgenze dell’Abya Ayala, caratterizzate dal protagonismo dei popoli originari, in una prospettiva di classe, anticoloniale, antistatale e antioccidentale.

EZLN che scommette con coerente radicalità sul controllo religioso, politico e culturale dei territori e, con questo, mostra di aver imparato la lezione della sconfitta dei guerriglieri urbani, della montagna e della foresta.

Come le numerose insorgenze indigene, quilombolas e comunità tradizionali rurali e urbane ci insegnano, la speranza di un futuro fraterno e giusto viene da minoranze abramitiche, piccoli resti, che difendono ancestralità e territori. Non sorge dalle dispute elettorali, che si fondano sul potere della maggioranza o da moltitudini che, ignare, si assoggettano alle astuzie dialettiche della storia.

E sorge dalla certezza che solo una lettura messianica della storia, quella di cui ci parla l’ebreo Walter Benjamin e l’ebreo Gesù, il Messia del “no” radicale, testimoniato senza paura contro i poteri omicidi della storia, inspira e anima la lotta che sconfigge il nemico. E anche la morte.

Papa Luciani: il nuovo beato nella biografia di Preziosi In libreria “Il sorriso del Papa”, sul Pontefice dei 33 giorni

 © ANSA

(ANSA) – ROMA, 30 AGO – la storia di un Papa che in appena trentatré giorni ha lasciato un segno indelebile nella storia della Chiesa.

La beatificazione di Albino Luciani, il “Papa del sorriso” – domenica 4 settembre in Piazza San Pietro da parte di papa Francesco -, riporta all’attenzione del mondo intero la figura di un uomo di fede e di Chiesa che seppe fare della sua vita un capolavoro di umiltà, di tenacia, di spirito di servizio e di amore per tutti.    Nel suo “Il sorriso del Papa. La vita di Albino Luciani e i trentatré giorni di Giovanni Paolo I” (Edizioni San Paolo 2022, pp. 288, euro 22,00), da ieri in libreria, Antonio Preziosi, con un racconto di stile giornalistico, ricostruisce dettagli ed episodi della vita di Albino Luciani e del pontificato di Giovanni Paolo I, che fu pastore della Chiesa universale per pochissimo tempo, ma seppe tracciare una via ancora attuale con la forza del suo esempio di vita e del suo proverbiale sorriso.

Una biografia aggiornata e attenta a tutti gli aspetti della figura del Pontefice che regnò solo per un mese: teologo, pastore, padre conciliare, uomo di intensa e per alcuni aspetti innovativa spiritualità.
L’autore, Antonio Preziosi è giornalista, saggista e scrittore. Attualmente è direttore di Rai Parlamento. A lungo corrispondente del servizio pubblico da Bruxelles, ha svolto per anni l’incarico di inviato speciale seguendo i principali avvenimenti di politica interna e internazionale. Ha diretto anche Radio Uno, Giornale Radio Rai e Gr Parlamento. Studioso di questioni religiose e vaticane, è stato inoltre Consultore del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. Per Edizioni San Paolo ha pubblicato nel 2021 “Il Papa doveva morire”, una ricostruzione inedita e intensa dell’attentato a Giovanni Paolo II e delle sue conseguenze, dentro e fuori la Chiesa. (ANSA).

PUBBLICAZIONI Diocesi: Reggio Emilia, ultimata la storia bimillenaria della Chiesa locale. Mons. Caprioli, “profondamente intrecciata con storia comunità civile”

(Foto: diocesi Reggio Emilia)

Quattro solidi volumi articolati in sette tomi per complessive 5.165 pagine, una sessantina tra qualificati ricercatori ed estensori, oltre ad un cospicuo apparato cartografico di trentatré tavole. Questi i numeri che sintetizzano e denotano la “Storia della diocesi di Reggio Emilia-Guastalla”, finalmente giunta a conclusione. Un’impresa ciclopica avviata nel 2006 dal vescovo Adriano Caprioli e affidata alla curatela di don Giovanni Costi e Giuseppe Giovanelli ed edita dalla Morcelliana di Brescia; a Maria Cristina Costa si deve il coordinamento del fondamentale apparato cartografico.
“Conoscere la storia di una Chiesa – ha scritto mons. Caprioli nella premessa al primo volume edito nel 2012 – è conoscere così l’unica Chiesa di Cristo, che, come afferma il Concilio Vaticano II, si realizza concretamente nelle Chiesa locali”.
Gli autori dei singoli contributi sono eminenti accademici e membri della Sezione di Reggio Emilia della Deputazione di Storia patria per le antiche provincie modenesi. Questa la articolazione dell’opera: vol. I “Dalle origini al Medioevo”; vol. II “Dal Medioevo alla Riforma del Concilio di Trento”; vol. III “Dalla Riforma tridentina alla Rivoluzione francese” (due tomi); vol. IV “Dalla Rivoluzione francese al Concilio Vaticano II” (tre tomi).
La redazione dei singoli volumi è stata supportata da un comitato scientifico di esperti: Alba Maria Orselli, storia antica; Maurizio Tagliaferri, storia medievale; Mario Rosa, storia moderna; Arnaldo Nesti, storia contemporanea.
Alla base di questa monumentale impresa editoriale sta un paziente e tenace lavoro di ricerca a tutto campo e scavo negli Archivi ecclesiastici e di Stato e nelle Biblioteche di Reggio Emilia, Guastalla, Ravenna, Milano (Biblioteca Ambrosiana), Mantova, Bologna, Modena, Parma, Cremona, Sarzana, Massa e Lucca; fonti preziose sono state reperite nell’Archivio Apostolico Vaticano e nella Biblioteca Vaticana. Compulsati migliaia di preziosi documenti, spesso inediti, come le fondamentali relazioni dei vescovi diocesani predisposte per le “Visita ad limina”. “Calata nel quotidiano, collocata in un territorio con tutte le sue configurazioni non puramente geografiche, ma sociali, economiche, istituzionali, spirituali e religiose, la parabola storia di una Chiesa locale – annotava ancora Caprioli – è profondamente intrecciata con la storia della società civile”.

sir

La storia. Corpus Domini: cosa significa, cosa si celebra

Originariamente in calendario il giovedì che segue la prima domenica dopo Pentecoste, lo si celebra prevalentemente la domenica successiva. Il 3 giugno il Papa a Ostia.
Papa Francesco durante il rito del Corpus Domini.

Papa Francesco durante il rito del Corpus Domini.

Avvenire

Una festa di popolo

Il Corpus Domini (Corpo del Signore), è sicuramente una delle solennità più sentite a livello popolare. Vuoi per il suo significato, che richiama la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, vuoi per lo stile della celebrazione. Pressoché in tutte le diocesi infatti, si accompagna a processioni, rappresentazione visiva di Gesù che percorre le strade dell’uomo.

Le origini nel Medio Evo, in Belgio

La storia delle origini ci portano nel XIII secolo, in Belgio, per la precisione a Liegi. Qui il vescovo assecondò la richiesta di una religiosa che voleva celebrare il Sacramento del corpo e sangue di Cristo al di fuori della Settimana Santa. Più precisamente le radici della festa vanno ricercate nella Gallia belgica e nelle rivelazioni della beata Giuliana di Retìne. Quest’ultima, priora nel Monastero di Monte Cornelio presso Liegi, nel 1208 ebbe una visione mistica in cui una candida luna si presentava in ombra da un lato. Un’immagine che rappresentava la Chiesa del suo tempo, che ancora mancava di una solennità in onore del Santissimo Sacramento. Fu così che il direttore spirituale della beata, il canonico Giovanni di Lausanne, supportato dal giudizio positivo di numerosi teologi presentò al vescovo la richiesta di introdurre una festa diocesi in onore del Corpus Domini. Il via libera arrivò nel 1246 con la data della festa fissata per il giovedì dopo l’ottava della Trinità.

Papa Urbano IV e il miracolo eucaristico di Bolsena

L’estensione della solennità a tutta la Chiesa però va fatta risalire a papa Urbano IV, con la bolla Transiturus dell’11 agosto 1264. È dell’anno precedente invece il miracolo eucaristico di Bolsena, nel Viterbese. Qui un sacerdote boemo, in pellegrinaggio verso Roma, mentre celebrava Messa, allo spezzare l’Ostia consacrata, fu attraversato dal dubbio della presenza reale di Cristo. In risposta alle sue perplessità, dall’Ostia uscirono allora alcune gocce di sangue che macchiarono il bianco corporale di lino (conservato nel Duomo di Orvieto) e alcune pietre dell’altare ancora oggi custodite nella basilica di Santa Cristina. Nell’estendere la solennità a tutta la Chiesa cattolica, Urbano IV scelse come collocazione il giovedì successivo alla prima domenica dopo Pentecoste (60 giorni dopo Pasqua).

L’inno scritto da san Tommaso d’Aquino

Papa Urbano IV incaricò il teologo domenicano Tommaso d’Aquino di comporre l’officio della solennità e della Messa del Corpus et Sanguis Domini. In quel tempo, era il 1264, san Tommaso risiedeva, come il Pontefice, sull’etrusca città rupestre di Orvieto nel convento di San Domenico (che, tra l’altro, fu il primo ad essere dedicato al santo iberico). Il Doctor Angelicus insegnava teologia nello studium (l’università dell’epoca) orvietano e ancora oggi presso San Domenico si conserva ancora la cattedra dell’Aquinate e il Crocifisso ligneo che gli parlò. Tradizione vuole infatti che proprio per la profondità e completezza teologica dell’officio composto per il Corpus Domini, Gesù – attraverso quel Crocifisso – abbia detto al suo prediletto teologo: “Bene scripsisti de me, Thoma”. L’inno principale del Corpus Domini, cantato nella processione e nei Vespri, è il “Pange lingua” scritto e pensato da Tommaso d’Aquino.

In numerosi Paesi, tra cui dal 1977 l’Italia, la celebrazione è stata tuttavia spostata alla domenica successiva. In molte Chiese locali però, tra cui obbligatoriamente a Milano, anche alla luce della recente riforma del calendario ambrosiano, la data è rimasta invariata così che la celebrazione e la processione eucaristica, rimane al giovedì. Così anche a Roma fino all’anno scorso quando il Papa ha deciso di spostare alla domenica la processione del Corpus Domini. In particolare quest’anno Francesco celebrerà il Corpus Domini a Ostia. Il 3 giugno infatti alle 18 il Pontefice presiederà l’Eucaristia nella piazza antistante la parrocchia di Santa Monica dalla quale partirà la processione che giungerà nel piazzale vicino alla chiesa di Nostra Signora di Bonaria dove il Pontefice impartirà la benedizione ai fedeli. Si interrompe così una tradizione che da oltre quarant’anni prevedeva il rito a San Giovanni in Laterano. Al tempo stesso Bergoglio, ripercorrendo i passi di Paolo VI che proprio a Ostia nel 1968 guidò la processione del Corpus Domini, sottolinea la centralità delle periferie, fisiche e esistenziali, nel suo pontificato

Studiosi a confronto sul cinema e l’audiovisivo nella storia del cattolicesimo

Il convegno a Roma organizzato da Cast

In corso fino al 10 giugno a Roma il convegno internazionale “La storia del cattolicesimo contemporaneo e le memorie del cinema e dell’audiovisivo”, organizzato dal centro di ricerca Cast “Catholicism ad audiovisual studies”. Presentati gli studi in corso per la catalogazione e la conservazione di un patrimonio storico fondamentale

Offrire un primo “stato dell’arte” sulle fonti audiovisive e le pratiche di ricerca per lo studio della storia del cattolicesimo contemporaneo.  Questo si propone il convegno internazionale su “La storia del cattolicesimo contemporaneo e le memorie del cinema e dell’audiovisivo” organizzato oggi e domani a Roma, nel Centro Studi Americani di Palazzo Antici Mattei, dal Centro di ricerca Cast – “Catholicism and Audiovisual Studies” dell’Università Telematica Internazionale UniNettuno, con la collaborazione, tra l’altro, della Direzione generale Cinema e Audiovisivo del Ministero della Cultura.

Le sfide aperte dalla svolta digitale

Oltre quaranta relatori, da questa mattina, si stanno confrontando sulle sfide “e le frontiere aperte dalla svolta digitale sia per le politiche di conservazione del patrimonio storico legato all’audiovisivo, sia però anche per le scelte metodologiche che caratterizzano i nostri progetti di ricerca accademica” ha spiegato nel discorso introduttivo il fondatore e presidente di Cast, monsignor Dario Edoardo Viganò, vice cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e di quella delle Scienze Sociali. Nel pomeriggio di giovedì, infatti, i direttori delle più importanti istituzioni cinetecarie italiane, dall’Archivio storico Luce alla Cineteca del  Centro sperimentale di cinematografia, moderati dal vicedirettore editoriale del Dicastero per la Comunicazione Alessandro Gisotti, dibattono proprio su questi argomenti in una tavola rotonda dal titolo “Il patrimonio cinematografico sul cattolicesimo: tecnologie digitali tra conservazione e descrizione, restauro e filologia del film”.

Protagoniste le istituzioni che conservano audiovisivi

Un importante appuntamento internazionale che ha chiamato anche a raccolta le istituzioni piccole e grandi di varia tipologia (cineteche, archivi, biblioteche) che conservano materiale audiovisivo legato a realtà cattoliche ed enti ecclesiastici “con l’intento – chiariscono gli organizzatori – di mappare l’esistente e procedere a un raffronto teorico e tecnico sulle pratiche d’archivio audiovisivo”.

Il caso mediatico di Don Vesuvio

Già nella mattina di giovedì, Massimiliano Gaudiosi, dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa ad esempio, ha presentato la ricerca avviata su documentari e programmi televisivi italiani e internazionali dedicati a “Don Vesuvio”, il soprannome del sacerdote napoletano Mario Borrelli, scomparso nel 2007, che nel secondo dopoguerra si travestiva da “scugnizzo” per vivere per alcuni mesi in mezzo ai senzatetto, fino a creare la “Casa dello scugnizzo” per aiutare almeno i più giovani ad inserirsi nella società. Di lui si occuparono a lungo media italiani e stranieri, aiutandolo così a raccogliere fondi per le sue opere benefiche. La ricerca di Gaudiosi, su documenti inediti dell’archivio privato del sacerdote, mira a far luce “su una figura il cui impatto sull’immaginario cattolico del dopoguerra è stato troppo trascurato”. “L’attenzione – spiega il ricercatore – sarà posta in particolare sulla grande disinvoltura con la quale un rappresentante del clero”, diventato rapidamente uomo di copertina e protagonista di film ed inchieste per cinema e tv, “sia riuscito a portare al centro dell’attenzione mediatica i problemi di Napoli e dei suoi giovani, mostrando però anche i progressi di un efficiente modello assistenziale”.

Vaticana News

26 Dicembre S. Stefano, primo martire. Titolare della Chiesa al centro a Reggio Emilia

La festa di santo Stefano, all’indomani del Natale di Nostro Signore, dice lo stretto legame esistente tra l’incarnazione e la passione, tra il Natale e la Pasqua. Martire è il testimone della fede nel Dio incarnato, e ne annuncia la Pasqua, l’offerta della vita per la salvezza del mondo.
Di Stefano parlano gli Atti degli Apostoli (cc. 6-7): è il primo nominato dei sette diaconi incaricati di curarsi della distribuzione quotidiana di cibo, in particolare alle vedove. “Uomo di fede e pieno di Spirito santo”, apparteneva alla prima comunità cristiana di Gerusalemme.
Ebreo di origine ellenistica, Stefano (che in greco significa “coronato”) aveva una profonda conoscenza delle sacre Scritture, e questo gli consentì di sostenere una lunga disputa nel sinedrio, davanti al quale fu condotto a causa della sua attiva predicazione, soprattutto tra gli ebrei della diaspora, che egli guadagnava numerosi alla fede in Gesù crocifisso e risorto. Arrestato e condotto al giudizio del sinedrio, venne condannato, e un gruppo di fanatici, aizzando contro di lui il furore del popolo, prese a colpirlo con sassi, deponendo i mantelli ai piedi di un giovane, chiamato Saulo – il futuro Paolo – presente alla lapidazione. Stefano intanto pregava e diceva, come il suo Signore: “Padre, accogli il mio spirito”. Poi piegò le ginocchia e gridò forte: “Signore, non imputare loro questo peccato”(At 7, 59-60).
La sua festa, attestata alla data del 26 dicembre dal Martirologio di Nicomedia (361), dal Lezionario di Gerusalemme (415-417) e dal Martirologio siriaco, è già presente in occidente nel V secolo. L’uccisione di Stefano e la persecuzione che ne seguì costituirono l’occasione concreta che spinse il gruppo degli ellenisti a disperdersi. Cacciati da Gerusalemme si trasformarono in missionari itineranti, e il cristianesimo, da movimento interno al giudaismo, iniziò il suo cammino autonomo nel mondo.
La leggenda si impadronì della figura di questo santo; la proliferazione di reliquie autentiche o meno, nate dal ritrovamento del suo sepolcro in Palestina, contribuì a incrementare il suo culto, già vivo nelle comunità cristiane. La cronaca di questo ritrovamento fu stesa dallo stesso autore della scoperta, il prete Luciano di Kefar-Gamla.

chiesadimilano.it

 

Perché Natale è proprio oggi

Il Natale è la festa che nella tradizione cristiana celebra la nascita di Gesù, che però non nacque davvero il 25 dicembre. Le fonti storiche sulla vita di Gesù, cioè i Vangeli, non indicano una data precisa, e non sappiamo con certezza quando i cristiani abbiano cominciato a festeggiare il Natale: sicuramente almeno dal 336 d.C., come è indicato nel Cronografo del 354, una specie di calendario che è il primo documento a contenere un riferimento al Natale.

Quella del 25 dicembre alla fine fu scelta come data simbolica per ricordare la nascita di Gesù e cristianizzare le feste pagane che si celebravano nell’Impero Romano, i Saturnali e la festa del cosiddetto “Sole Invitto”.

Cos’erano i Saturnali, cioè il Natale prima del Natale
I Saturnali, Saturnalia in latino, si celebravano dal 17 al 23 dicembre in onore del dio Saturno, il corrispettivo del greco Crono. Come nelle antiche feste che nel tempo si sono trasformate nel Carnevale, durante i Saturnali le comuni regole sociali venivano invertite: tra le altre cose, capitava che i padroni servissero a tavola i loro schiavi. Come molte persone oggi pensano che il Natale sia il giorno più bello dell’anno, così pensava il poeta Catullo del 17 dicembre.

Molte tradizioni dei Saturnali si sono trasmesse al Natale cristiano: tra queste lo scambio dei regali, che quindi è più antico delle tradizioni cristiane. Avveniva il 19 dicembre, cioè il Sigillaria. Si donavano e si ricevevano cose semplici, simboliche, dato che scambiare oggetti di valore sarebbe stato contrario allo spirito della festa. Ai bambini venivano regalate statuette di pasta dolce – i sigilla – a forma di bambole e animali.

Alla fine del Terzo secolo il calendario civile romano indicava come solstizio d’inverno il 25 dicembre. In tutte le antiche culture dell’emisfero boreale il solstizio d’inverno viene festeggiato perché è il giorno dopo il quale le giornate ricominciano ad allungarsi, e per questo è legato alle divinità solari.

Sempre nel Terzo secolo, il 25 dicembre nell’Impero Romano si festeggiava anche il dio del Sole Invitto, che riuniva in sé vari dei solari di diverse religioni: il greco Helios, il siriano El-Gabal e il persiano Mitra.

Negli ultimi secoli dell’Impero Romano, prima che il cristianesimo diventasse la religione ufficiale, non erano rari questi culti che sovrapponevano varie divinità creando nuove religioni molto aperte. In particolare la religione del Sole Invitto era una di quelle che già prima dell’affermarsi del cristianesimo si avvicinava al monoteismo.

Il 25 dicembre fu scelto come giorno della nascita di Gesù – dopo aver preso in considerazione date come il 18 novembre, il 28 marzo e il 20 maggio – per “coprire” la festa del Sole Invitto e avere un’ulteriore argomentazione per convincere i pagani a convertirsi: non avrebbero perso la loro festa una volta diventati cristiani. La figura di Gesù era proposta a questi pagani come quella del “vero” Sole.

Le altre tradizioni natalizie
Nel corso del tempo e con la diffusione del cristianesimo, il Natale si è arricchito di molte altre tradizioni a loro volta provenienti da altre celebrazioni del solstizio d’inverno.

L’albero di Natale, per esempio, arriva dalla tradizione germanica della festa del solstizio d’inverno, chiamata Yule; nelle lingue scandinave il periodo del Natale si indica tuttora con espressioni che derivano chiaramente da questo termine, “jul” in svedese, danese e norvegese, “Jól” in islandese. Altri elementi tradizionali pagani sono passati alla festa di Capodanno, invece che al Natale: tra questi i fuochi e i falò che venivano accesi per il solstizio.

La storia dietro Babbo Natale invece è più complessa. L’Enciclopedia Britannica spiega che questa figura è nata a partire da quella di San Nicola di Bari – anche noto come San Nicola di Myra, città nell’attuale Turchia in cui era vescovo; il suo corpo fu portato a Bari dopo la morte – che si celebra il 6 dicembre. Il culto di questo santo è sempre stato legato all’idea dei doni recapitati ai bambini, e nel tempo la sua figura si è evoluta in quella di Babbo Natale, passando per il Sinterklaas olandese, portato nella colonia americana di New Amsterdam, poi diventata New York, e lì trasformatosi in Santa Claus.

Con il diffondersi della cultura americana nel mondo, dopo la Seconda guerra mondiale, Babbo Natale è diventato popolare anche in Italia, dove nella maggior parte delle regioni ha preso il posto di Gesù Bambino, Santa Lucia o San Nicola nel portare i doni ai bambini.

Il Post