Rapporto della Caritas di Roma. Più poveri e più anziani

Italia

L’Osservatore Romano

Rapporto

Roma, una città che impoverisce e invecchia a vista d’occhio. Con i figli dei più poveri che ereditano l’esclusione sociale. È l’impietoso ritratto che emerge dalla nuova edizione del rapporto «La povertà a Roma: un punto di vista» — 180 pagine con focus dedicati a immigrati, anziani soli, salute mentale e dipendenze — presentato questa mattina dalla Caritas diocesana. In ogni municipio capitolino, infatti, si registrano circa 10.000 persone ultrasessantacinquenni che non raggiungono il reddito annuo di 11.000 euro, per un totale complessivo di 146.941 abitanti: «Un’intera grande città fatta di anziani che vivono di stenti dentro una grande metropoli contemporanea», sottolinea il rapporto.

I poveri sono i nostri amici Natale reggiano della Comunità di Sant’Egidio

La Comunità di Sant’Egidio compie 50 anni. Una storia cominciata il 7 febbraio 1968, all’indomani del Concilio Vaticano II a Roma da Andrea Riccardi con un piccolo gruppo di liceali che volevano cambiare il mondo. Oggi Sant’Egidio, che Papa Francesco ha ribattezzato “la Comunità delle 3 P” (Preghiera, Poveri, Pace), continua a nutrire lo stesso sogno con tanti amici che lo condividono. Con gli anni è divenuta una rete di comunità che, in più di 70 paesi del mondo, con una particolare attenzione alle periferie e ai periferici, raccoglie uomini e donne di ogni età e condizione, uniti da un legame di fraternità nell’ascolto del Vangelo e nell’impegno volontario e gratuito per i poveri e per la pace.

Preghiera, poveri e pace sono i suoi riferimenti fondamentali. La preghiera, basata sull’ascolto della Parola di Dio, è la prima opera della Comunità, ne accompagna e orienta la vita. A Roma e in ogni parte del mondo, è anche luogo di incontro e di accoglienza per chi voglia ascoltare la Parola di Dio e rivolgere la propria invocazione al Signore. I poveri sono i fratelli e gli amici della Comunità. L’amicizia con chiunque si trovi nel bisogno – anziani, senza dimora, migranti, disabili, detenuti, bambini di strada e delle periferie – è tratto caratteristico della vita di chi partecipa a Sant’Egidio nei diversi continenti.

Leggi tutto l’articolo di Mariangela Adduci su La Libertà del 9 gennaio

Stadio Olimpico. Papa Francesco regala ai poveri una serata di sport

Poveri, senzatetto e migranti sono tra gli invitati del Papa allo Stadio Olimpico di Roma dove avrà nel pomeriggio di giovedì 31 maggio il Golden Gala di atletica leggera: un’occasione di svago

da Avvenire

Papa Francesco ha ricordato ancora una volta che i poveri hanno bisogno non solo di cibo, vestiti e un posto per dormire ma anche di una parola amica, di un sorriso e di occasioni di svago

Papa Francesco ha ricordato ancora una volta che i poveri hanno bisogno non solo di cibo, vestiti e un posto per dormire ma anche di una parola amica, di un sorriso e di occasioni di svago

L’Elemosineria Apostolica, a nome del Papa, ha invitato i poveri, i senzatetto, i profughi, i migranti e le persone più bisognose allo Stadio Olimpico di Roma per partecipare, nel pomeriggio di giovedì 31 maggio, al Golden Gala, l’importante manifestazione internazionale di atletica leggera.

L’iniziativa è stata possibile grazie alla Federazione italiana di atletica leggera che ha riservato i posti gratuiti per le persone invitate da papa Francesco che saranno accompagnati dai volontari della Comunità di Sant’Egidio, della Cooperativa Auxilium e dell’Athletica Vaticana, rappresentativa podistica dei dipendenti della Santa Sede. L’obiettivo, si legge in una nota, è “offrire una serata di festa e di amicizia, attraverso la bellezza di uno sportuniversale e semplice come l’atletica e di rilanciare i valori dell’accoglienza e della solidarietà”.

Più volte Francesco ha ricordato che i poveri hanno bisogno non solo di cibo, vestiti e un posto per dormire ma anche di una
parola amica, di un sorriso e di occasioni di svago e di sano divertimento. Nel settore “Curva Sud” dello Stadio Olimpico, gli
invitati del Papa avranno anche una “cena al sacco”.

La parrocchia, la Parola e i poveri

La parrocchia ha ottime prospettive se è, rimane e si ostina a rimanere il luogo dove risuona la Parola. Del resto alla nostra generazione non manca il pane. E anche quando nella vita di alcuni nostri fratelli viene a mancare questo alimento necessario – il pane –, noi non possiamo offrirgli solo quello. Sarebbe tradire la loro vita. Perché noi non stiamo in piedi solo con il pane come una macchina non cammina solo con la benzina.

Ad una generazione che ha dimenticato la sua grandezza e ha buttato le istruzioni per l’uso dell’esistenza dobbiamo ricordare che noi siamo una realtà più nobile e più complessa di quello che appare e che il pane non basta. È utilissimo ma insufficiente.

Fede nella Parola

Senza rinunciare a tante attività buone e belle, ma senza diventarne schiavi e senza farsi assorbire completamente da altre cose tutte buone, la parrocchia deve dare spazio all’ascolto della Parola, anche se lì per lì può sembrare inutile, improduttivo, una perdita di tempo… far risuonare la Parola, farla vibrare con tutta la sua forza, farne sentire tutto lo scandalo (cioè la distanza che esiste tra i nostri pensieri e la sua logica), tirarne fuori tutta la sua bellezza e il suo fascino, la sua gustosissima sapienza, la sua dolce verità… è il seme della Parola che ha partorito i giganti e i fuoriclasse.

Qual è la qualità della nostra parola? La parola che porgiamo non può essere difficile, indecifrabile, incomprensibile più del latino di una volta, o scientifica, forbita e, tantomeno, vuota, un suono che non convince e non sveglia nemmeno chi la pronuncia, o la ripetizione noiosa di frasi fatte e scontate che chi ci ascolta già sa in partenza dove andiamo a parare. Prevedibili. Senza una sorpresa che riaccende l’attenzione!

La Parola deve uscire dalla bocca di un testimone, dal cuore di un innamorato, dagli occhi di chi ha veramente fissato uno spettacolo, da una vita appassionata!

Quando la Parola tocca la vita delle persone provoca tante reazioni, anche contrastanti, ma comunque accende sempre la vita. E anche se viene a sconvolgere, viene sempre a creare.

Incontrare gli adulti

È importantissimo che la piccola comunità cristiana parli a tutti e non si perda nessuna delle opportunità che le vengono offerte. Le parrocchie (e questo sì è un vero limite) sono pensate, strutturare e realizzate in vista dei bambini fino alla comunione o alla cresima per i più fortunati.

Chiesa, aule del catechismo (vengono ancora chiamate così), oratorio, calcetto, teatrino, biliardini… ma i grandi? Gli adulti? Quando li incontriamo? Come li incontriamo? Il nostro linguaggio è a misura di un uomo cresciuto e navigato? Oppure conserva il sapore e lo stile di quando parliamo ai bambini? È un po’ che non parliamo a loro, se non a pochissimi e con parole distanti dalla vita e disincarnate dalla realtà.

Sono loro che si allontanano o non è che stiamo dando loro una buona mano per andarsene? Fino a prova contraria, sono ancora tanti quelli che vengono a messa la domenica. Quanti vorrebbero avere di fronte lo stesso numero di persone che li ascolta! Ogni domenica! Ma qual è la qualità delle nostre omelie? Le omelie sono ormai diventate l’unica e prima evangelizzazione per gli adulti. Spesso lamentiamo lo svuotamento delle nostre chiese ma sarebbe utile chiedersi: “ma possibile che la Parola non riesca a trafiggere il cuori dei nostri contemporanei?”. Il Rabbì di Nazareth, quando parlava, provocava sempre tantissime reazioni immediate.

Nella mia piccola esperienza (10 anni da viceparroco e 11 da parroco), ho sempre avuto la sensazione che il catechismo ai bambini in proporzione a quanto si investe sia fallimentare. Mi ha sempre impressionato l’abbandono veloce e di massa, l’esodo di tutti i ragazzi già nelle scuole medie inferiori. Diceva don Mazzolari: «Così, il povero prete della parrocchia – non quello di parata – ha spesso l’impressione che la sua fatica non prenda più. Nessuna comprensione, nessuna risposta, nessuna reazione. La distanza aumenta, la solitudine intorno alla parrocchia, nonostante il moltiplicarsi delle iniziative, aumenta. C’è nel popolo una resistenza silenziosa. Di quanta fede ha bisogno questo povero parroco per resistere alla tentazione di scappare in convento o di rimanere con gli occhi e il cuore chiuso!».

Ricordo a Napoli un bambino vispo, Antimo, intelligentissimo, che la domenica mi aiutava, con i suoi interventi, a fare l’omelia nella messa con più bambini, e con una bellissima famiglia alle spalle che non trascurava affatto la trasmissione della fede ai figli. Ebbene, pochi anni dopo si è dichiarato ateo. Chissà se conosceva il significato di quello che diceva, però era sicuro che preferiva prendere le distanze da una cosa che poco prima amava e seguiva.

È un esodo massiccio e un cambiamento repentino che non può non impressionarci. Va bene ma non possiamo lamentarci poi neanche più di tanto se i ragazzi ci lasciano, perché comunque a loro qualcosa la diciamo e forse questa semina che adesso non mostra frutti può portare domani frutti inaspettati.

Ma gli adulti? Quando parliamo a loro? Dobbiamo accelerare i nostri passi verso di loro e non perdere nessuna delle occasioni che le circostanze ci danno. Preparazione al matrimonio (spesso questo è il primo contatto da adulti con la comunità e con il Vangelo), preparazione al battesimo, benedizione delle famiglie nelle case, cura degli ammalati, vicinanza nel momento della morte, anniversari, catechismo (ho trovato e trovo utilissimo, nella mia esperienza, incontrare i genitori dei bambini che fanno il catechismo; mentre i bambini sono con i catechisti, io, parroco, incontro i genitori. Tutte le volte. Sempre.), confessione e disponibilità al dialogo (quanta gente chiede di parlare e di essere ascoltata!)…

Certo, chiunque legge può dire: “ma queste sono cose che si sono sempre fatte!” Certo!? Come prete che lavora a tempo pieno nella pastorale da 21 anni oso avanzare qualche dubbio. Ma, ammesso anche che si siano sempre fatte (ed è vero che le abbiamo fatte e tante volte sono state fatte bene), sono queste le cose che dobbiamo continuare a fare. Dobbiamo puntare agli adulti senza perdere nessuna delle opportunità che ci vengono continuamente sotto il naso, prima di mettere in programma e in calendario altre iniziative.

Spesso possiamo trovarci nella condizione comica di chi è lì a fare programmi e a pensare e preparare iniziative e a non saper leggere l’ordine del giorno che ci suggerisce la vita. Un po’ come quei genitori che fanno le case per i propri figli e questi, per diverse ragioni, non le abiteranno mai. E forse un giorno si sentiranno pure dire: “e chi ve l’ha fatto fare?”. Certo che dobbiamo avere qualche idea, ma non dobbiamo esserne troppo affezionati. Anche gli apostoli sanno che da Gerusalemme devono arrivare fino ai confini della terra, ma non sanno come.

Dobbiamo ritornare a offrire nelle nostre parrocchie la Parola. Del resto, è questa ciò che chiama, convoca, mette insieme, ci avvicina, ci fa corpo e ci fa fratelli.

I poveri

Credo proprio che siamo alla vigilia di tempi che porteranno nuovi frutti e abbondanti. Molti hanno intravisto una stagione nuova in un’attenzione che le comunità devono offrire ai poveri, che sono sempre stati i prediletti del Padre Celeste (basti pensare a don Primo Mazzolari, a don Tonino Bello, allo stesso papa Francesco): «E i poveri sentono che non hanno più il primo posto nel cuore del parroco e si allontanano anche dalla Chiesa. Se ne sono già allontanati. Per cui abbiamo chiese belle e ricche e riscaldate anche, d’inverno, ma così vuote, così desolatamente vuote, come il cuore di un prete senza poveri» (Mazzolari). Questa sarebbe davvero una conversione pastorale!

Sono sicuro che saranno loro, i poveri, a salvarci. Saranno i poveri, gli ultimi, i falliti, la gente con il cuore spezzato, gli scarti del mondo, quelli che sbarcano, quelli che sono distrutti e offesi, quelli senza pane e senza vita, quelli senza storia e senza nome, quelli abbandonati e messi alle porte, quelli che piangono e agonizzano, quelli che si perdono e sono sbandati, coloro che non vengono mai ascoltati, che non contano nulla, coloro ai quali non si chiede mai il parere, ai diseredati, proprio quelli che bussano alle nostre porte e ci disturbano, saranno loro che rinnoveranno le nostre comunità, con le loro lacrime e il loro lamento, con le loro sofferenze e le loro insistenze, con le loro richieste e il loro grido ci spingeranno a essere ciò che dobbiamo essere, a fare ciò che dobbiamo fare, a dire ciò che dobbiamo dire.

Sono i poveri che hanno suscitato campioni come Giovanni Bosco, Pino Puglisi, Lorenzo Milani, Mario Operti, Luigi Ciotti, Giuseppe Diana, Maurizio Patricello, Oreste Benzi… sono stati sempre loro a salvarci, a portaci fuori dal pantano e a ridarci slanci e grandezza e saranno loro a portarci fuori anche da questa situazione che ci appare grigia e ferma. Ne sono certo loro sapranno indicarci la strada per uscire e ci offriranno soluzioni che noi neanche immaginavamo. Ma già lo fanno. Lo hanno sempre fatto. Forse è per questo che il Signore ci ha detto che sarebbero stati sempre con noi, perché sarebbero stati loro sempre, lungo i tempi, a prenderci per mano e a riportarci all’essenziale, al necessario, al bello, al Vangelo. I poveri ci hanno sempre aiutato molto più di quanto abbiamo fatto noi per loro.

E poi è assurdo pensare che la parrocchia dipenda solo da noi. Ci sono alcuni preti che pensano che prima di loro non c’era niente e dopo di loro tutto crollerà. Sono degli autentici uomini di fede perché credono fermamente e solamente in se stessi (temo, però, che abbiano poca fiducia in Dio). Non è solo l’offerta che crea il mercato. È la domanda che lo genera. Sono i poveri che bussano, non solo i poveri di pane anche quelli smarriti, quelli persi, quelli spenti, quelli soli, delusi, falliti, feriti, malati, aggrovigliati dentro a catene assurde, quelli impantanati… sono loro che fanno la comunità cristiana.

settimananews

Una persona su quattro in Italia sono a rischio povertà ed esclusione sociale

L’Istat stima che sia coinvolto il 28,3% della popolazione nel 2014, percentuale in linea con quella dell’anno precedente.

Restano un lusso le ferie, che una famiglia su due non può permettersi nemmeno per una settimana, e per tanti è impossibile anche solo riscaldare casa o fare un pasto adeguato ogni due giorni. Sono in questa situazione 6 milioni di persone, secondo la Coldiretti.

In Europa il rischio medio è inferiore a quello italiano di quasi quattro punti (24,4%), e fanno peggio dell’Italia solo la Grecia e alcuni paesi dell’Est. In questo contesto di pesanti difficoltà, non mancano però alcuni passi avanti.

Le persone con maggiori problemi economici – l’Istat parla di “grave deprivazione materiale” – calano per il secondo anno consecutivo fino 11,6%, la quota più bassa dal 2011. E ci sono progressi anche al Sud, dove il rischio di povertà o esclusione sociale passa dal 46,4% del 2013 al 45,6%, pur continuando a colpire più di quattro persone su dieci. La distanza del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese rimane ampia. Le persone in grave deprivazione al Sud sono più del doppio rispetto al Nord Italia (il 19,9% contro il 7,1%).

Inoltre sette abitanti su dieci nelle regioni meridionali non possono permettersi una settimana di ferie e uno su due non riesce ad affrontare una spesa imprevista di 800 euro (il 52,5% rispetto a una media nazionale del 38,8%). Difficoltà molto superiori alla media contraddistinguono anche i genitori single e le famiglie con tre o più figli, categorie nelle quali il rischio di povertà o emarginazione supera il 39%. Rispetto al 2013 la situazione è in miglioramento per le famiglie numerose, mentre si aggrava per i monogenitori. Sono particolarmente esposte anche le persone sole (con un rischio del 31,5%), mentre le famiglie più solide economicamente risultano le coppie senza figli, soprattutto se di 65 anni o più (che hanno un rischio del 14,1%).

L’Istat presenta anche un’analisi sui redditi netti relativi al 2013. Ne emerge che una famiglia su due non supera 2mila euro circa al mese, 24.310 euro l’anno. Il reddito mediano più alto è al Nord (27.089 euro), mentre nel Mezzogiorno il livello è pari al 75% di quello settentrionale e nell’Italia centrale al 95%. Infine il 20% più ricco delle famiglie accumula il 37,5% del reddito totale, mentre al 20% più povero spetta solo il 7,7%.

“La lotta alla povertà rappresenta, per noi, un impegno concreto che abbiamo già avviato e che porteremo avanti e rafforzeremo nei prossimi anni”, ha affermato il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti, commentando i dati Istat, relativi al 2014.

Questi dati “evidenziano, sotto il profilo del rischio di povertà e di esclusione sociale, una situazione sostanzialmente stabile rispetto al 2013 e, pur con una diminuzione delle persone in condizioni di grave deprivazione, comunque inaccettabile e da affrontare rapidamente e in modo stabile”, ha proseguito il ministro in una nota, sottolineando che è “a partire da questa evidenza che il Governo ha attivato una politica complessiva e articolata che vede come pilastro fondamentale la definizione di un Piano nazionale per il contrasto alla povertà e all’esclusione sociale”, sostenuto da “un Fondo dedicato con una dotazione di 600 milioni per il 2016 e di 1 miliardo a decorrere dal 2017”.

avvenire

Nel mondo ci sono 2,2 miliardi di poveri

Risultati nella lotta alla povertà non dovranno più assomigliare in futuro a castelli di sabbia esposti alle periodiche demolizioni dell’alta marea, ovvero ad ogni nuova estesa crisi alimentare, ecologica, bellica o finanziaria. A pochi mesi dal fatidico 2015 fissato dall’Onu come scadenza degli “Obiettivi del millennio”, l’annuale rapporto di Undp (il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) ha il sapore di un’autocritica su quanto non si è ancora riusciti a costruire. Cioè una strategia di ampio respiro per sradicare le «vulnerabilità strutturali» di quella parte dell’umanità che resta nella povertà. Considerando solo i redditi, le cifre relative migliorano moderatamente rispetto al passato, con 1,2 miliardi di persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno. Ma da sempre, lo sguardo di Undp sulla miseria è più largo e realistico. E in proposito, l’«indice di povertà multidimensionale» elaborato dalla stessa agenzia dell’Onu offre uno scenario più fosco. In 91 Paesi, oltre 1,4 miliardi di persone restano in una «condizione di povertà», accanto ad altri 800 milioni di individui in bilico e vulnerabili di fronte a ogni nuova crisi. In tutto, dunque, 2,2 miliardi di persone in stato di miseria reale o potenziale.

Undp invita ad aprire gli occhi su un mondo gonfio di rischi sistemici. Il 2015 dovrebbe suggerire un cambio di rotta all’insegna di programmi per lo sviluppo concentrati più che mai sulla vulnerabilità. A livello individuale e comunitario, i poveri mancano di quella capacità di resistenza e reazione ai traumi che gli psicologi chiamano «resilienza». Per questo, il nuovo rapporto di Undp s’intitola proprio «Perennizzare il progresso umano: ridurre le vulnerabilità e rafforzare la resilienza». Per il premio Nobel dell’economia Joseph Stiglitz, associato al rapporto, «occorre adottare un approccio in una larga prospettiva sistemica», puntando sulle vulnerabilità. Ma su quali pilastri poggiare il nuovo approccio? Almeno due, suggerisce il rapporto: l’estensione massima e se possibile universale dei servizi sociali di base (sanitari, educativi, assistenziali), accanto a mercati locali e nazionali del lavoro organizzati per includere un livello massimo di persone, dato che a ogni latitudine l’esclusione dalla vita attiva è il pendio più scivoloso accanto al baratro della miseria. Ma l’obiettivo della massima occupazione è finito in secondo piano fin dagli anni Settanta, soppiantato spesso dall’imperativo di massima concorrenza, nota il rapporto.

A perpetuare l’esclusione sono pure sistemi istituzionali fondati su discriminazioni ataviche in particolare verso le donne, i migranti, chi ha un handicap, i popoli autoctoni e gli anziani. Questi ultimi, in 4 casi su 5 a livello planetario, possono solo sognare una copertura previdenziale, la quale invece non dovrebbe più figurare come un lusso dei Paesi ricchi. Costruire sistemi di servizi di base per i poveri di ogni continente costerebbe appena il 2% del Pil mondiale. In India, basterebbe investire il 4% del Pil nazionale. In Africa, non si supererebbe in genere il 10%. Secondo il rapporto, l’uscita degli anziani dalla vita attiva è uno dei periodi di massima vulnerabilità, accanto ai primi 3 anni di vita e alla transizione dalla scuola al lavoro. Queste fasi della vita meriterebbero dappertutto politiche specifiche di protezione. Fra i nuovi Paesi virtuosi, figurano Corea del Sud e Costa Rica, capaci entrambi di estendere in fretta l’accesso ai servizi di base. Per il dopo 2015, auspica Undp, diventa dunque doveroso puntare sulla copertura previdenziale universale come nuovo obiettivo centrale dell’agenda internazionale.

avvenire.it

Al via la campagna Caritas di sensibilizzazione per ridare dignità ai poveri in carcere

Di Salvatore Cernuzio

 (Zenit.org) – Una bambina di 3 anni che cammina con la madre nei corridoi di un carcere con le braccia dietro la schiena. Due occhi nella penombra della grata a cui un detenuto si aggrappa con rassegnazione. Un uomo che vaga senza meta con una valigetta di cartone. Dall’altra parte: i deserti sconfinati dell’Africa, minuscoli borghi arroccati ai margini del mondo, paesaggi e volti “umili” di uomini e donne provenienti dall’India e dall’Ecuador.

Fotografie antitetiche tra loro, che nel contrasto tra il colore e il bianco e nero mostrano i grandi spazi e le grandi ristrettezze in cui può vivere un essere umano. Tutte, però, urlano un solo messaggio: Uhuru!

Proprio la parola swahili che significa “Libertà” è il titolo del doppio libro fotografico che raccoglie gli scatti rubati dall’architetto Francesco Delogu nei suoi numerosi viaggi e quelli che il fotografo Stefano Montesi ha realizzato durante l’esperienza professionale dentro il carcere.

Il libro è il primo passo della campagna di sensibilizzazione Cittadini poveri che sono in carcere: gli unici per i quali funziona la certezza della pena! promossa dalla Caritas diocesana di Roma che ha come protagonisti i detenuti più indigenti.

L’incasso del volume, infatti – in vendita da oggi nelle librerie Arion – sarà devoluto ai “poveri” delle carceri per comprare loro beni di prima necessità come cibo, dentifricio, shampoo, indumenti intimi, di cui sono totalmente privi, nonostante la Costituzione teoricamente garantisca tali diritti.

Non è questo, però, l’unico obiettivo dell’iniziativa Caritas. Nell’intento di “restituire la dignità” a chi in carcere l’ha persa nel corpo e nell’anima, l’associazione diocesana vuole aprire gli occhi della società sulla situazione detentiva in Roma e in tutta Italia.

Di questo hanno discusso, infatti, i relatori intervenuti, oggi alla Radio Vaticana, alla conferenza di presentazione del libro: mons. Enrico Feroci, direttore della Caritas di Roma; Anna Chiara Valle, di Famiglia Cristiana; Daniela De Robert, dei volontari Caritas nelle carceri e soprattutto Don Sandro Spriano, responsabile Area Carcere Caritas.

In particolare, l’attenzione si è soffermata sul polo penitenziario romano di Rebibbia, protagonista di vari scatti del libro, corredati anche dagli scritti personali di alcuni dei suoi detenuti che, ha ricordato don Spriano, “sono attualmente 1800, nonostante il Nuovo Complesso dovrebbe ospitarne solo 1100”.

Il sovraffollamento non è, però, l’unico problema che affligge le carceri della Capitale. C’è la “povertà” appunto, non solo materiale, ma anche “culturale e relazionale”, ancora più grave perché azzera ogni contatto col mondo esterno e ogni speranza.

Sarà forse per questo che l’ultimo 12 dicembre sono stati registrati circa 58 suicidi in istituti penitenziari, non solo da parte di detenuti, tra l’altro, ma anche di poliziotti penitenziari. Al di la del chiavistello, infatti, si respira comunque lo stesso ambiente di privazioni e di orrori.

Raccontando la sua esperienza decennale a Rebibbia, don Sandro Spriano ha parlato di una “gabbia” dove al detenuto viene reso difficile vestirsi visto che “tra gli effetti dati dal carcere non c’è neanche uno slip all’anno” e dove lavarsi è un trauma per “l’acqua gelida d’inverno e calda d’estate”. Il carcere “passa solo il cibo e il posto letto quando c’è” ha dichiarato il cappellano; per il resto non è possibile “telefonare a casa, avere una ‘privacy per la propria anima’, vivere correttamente un’affettività e una sessualità”.

Si aggiunge la povertà materiale: “Su 1800 detenuti del Nuovo Complesso solo mille dispongono di un conto corrente sul quale i familiari possono depositare soldi e dal quale si può attingere fino a 800 euro al mese. I detenuti che arrivano a tanto sono un centinaio, la maggioranza preleva piccole cifre l’anno. Ci sono, quindi, più di 800 detenuti che non hanno nulla”.

“Tutti i diritti previsti dalla Costituzione sono eliminati non si sa in base a quale legge” è la dura denuncia del sacerdote, “abbiamo intenzione di condannare a morte queste persone privandoli dell’intelligenza e della libertà. Poi, però, si pretende che escano fuori e siano degli angioletti. Tali condizioni di vita non fanno altro che aumentare la rabbia e la frustrazione”.

C’è un altro aspetto, ancora più triste: quell’opinione pubblica per cui, parlando delle sofferenze di un uomo in carcere si pensa “se l’è meritato”. Anna Chiara Valle lo ha sottolineato nel corso della conferenza, facendo anche un paragone con il caso Green Hill: “Per il maltrattamento dei cani siamo pronti a scendere in campo – ha detto – ma non per le persone carcerate perché è pensiero comune che sia giusto così”. Riecheggiano le parole di don Riboldi: “Pane e acqua appartengono alla punizione, ma pane e acqua vanno dati in un piatto pulito”.

Obiettivo principale della campagna Caritas diventa dunque “responsabilizzare” la società, affinché – ha affermato mons. Feroci – “prenda coscienza di trovarsi davanti ad una problematica enorme che la interessa direttamente”.

“Quello che chiediamo – ha aggiunto Daniela De Robert – non sono più posti in carcere, ma misure alternative come una giustizia e una società che insegni alle persone a vivere, a lavorare, a stare con gli altri”.

Forse è troppo tardi inculcare nella società attuale questa nuova mentalità; bisogna puntare quindi sulle nuove generazioni. Per questo, ha spiegato la De Robert, l’associazione dei Volontari Caritas sta portando avanti un grande lavoro nelle scuole. “Entriamo e molti ragazzi richiedono la pena di morte – ha raccontato – ma dopo i nostri dialoghi o dopo attività come spostare i banchi in modo da formare una cella che dimostra come si può isolare una persona, li lasciamo con qualche dubbio”.

“Bisogna seminare dentro e fuori – ha concluso – anche perché è inutile aprire le porte del carcere, se poi quelle della società rimangono blindate”.

La Chiesa? Sempre a fianco dei poveri inediti «Gli emarginati sono carne della sua carne. Essa è criticata e sbeffeggiata: è la non-amata, la rifiutata dal mondo»: la testimonianza del prete fondatore del movimento Atd Quarto Mondo

DI JOSEPH WRESINSKI  – avvenire.it

La Chiesa non si disinteressa dei più poveri, non può. Certamente talvolta se ne discosta, ma questo bisogna comprenderlo. La miseria si presenta come il contrario della grazia. Per coloro che non conoscono l’uomo che la vive, quest’ultimo appare non come uomo del dolore, ma come uomo del disprezzo, del rigetto. Uomo a rischio, ignorante e disperato, che vive in una famiglia schiacciata, egli è allo stesso tempo divenuto un disturbatore per le nostre coscienze ben pulite ma indebolite e talora codarde. Come vederlo di primo acchito quale nostro eguale? Il che sarebbe permettergli di porre tante domande su noi stessi, sulla società di cui siamo parte pregnante, su tutto quel che viviamo e crediamo. Ammetteremmo così che egli porta i nostri peccati e vedere in lui un nostro eguale ci obbligherebbe in qualche modo ad abbracciare il lebbroso. Il cristianesimo, è vero, dovrebbe permettere un tale eroismo a tutti coloro che contamina. Non è più il tempo in cui si dava un significato al mendicante, al povero sfigurato, e in cui il lebbroso era proclamato figlio di Dio. La Chiesa proclama sempre che i più poveri sono carne della sua carne, la sua realtà profonda. Non è evidente che la Chiesa viva ciò senza debolezza. Io non ne sono però né angosciato né spinto alla rivolta. La Chiesa è i più poveri. Lo è per essenza. Anche i più poveri, presto o tardi, in modo più o meno concreto e duraturo, più o meno furtivo o pubblico, saranno riconosciuti da lei e accolti come i primi. La Chiesa è condannata, se posso dirlo, attraverso la sua storia, a ricordarsi, a riprendere coscienza della realtà che essa è, povertà, disprezzo, esclusione; che essa stessa è la non-amata, la rifiutata dal mondo. (…) Gesù, l’uomo più povero, è il contrario del miserabilismo. Egli ha preso la condizione dello schiavo, della miseria più totale, per affermare che mai l’uomo può essere scalfito. Che l’uomo rimane sempre libero di liberare i suoi fratelli. Noi non diciamo forse abbastanza che Gesù non è venuto semplicemente a liberare l’uomo. Egli è venuto e si è circondato di poveri che avrebbero liberato, con lui, gli uomini. Egli ha voluto che essi volessero, con lui, la liberazione di tutti, dei ricchi tanto quanto dei poveri. Ciò nonostante, noi dobbiamo innanzitutto riconoscere la scelta del Signore di assumere pienamente la condizione dell’uomo più disprezzato, stavo per dire: dell’uomo sottoproletario. Egli non lo fece solamente al momento della sua nascita e della sua morte, ma per tutta la sua vita. Egli ha vissuto da uomo misconosciuto e rigettato e ne aveva le maniere, il modo di reagire agli uomini e agli eventi. Le sue parole, le sue risposte, i suoi atti, tutto in lui denuncia l’uomo costantemente disprezzato. I Vangeli ci dipingono Gesù Cristo realmente a disagio nel mondo, come lo sono i sottoproletari oggi, sofferente come loro, poiché egli si comporta come loro di fronte al suo ambiente e si attira gli stessi sguardi e commenti. In tutto ciò Cristo non simulava, era loro. La Chiesa non è per questo una corte dei miracoli, una comunità rivolta su se stessa. Essa è l’essere stesso del Signore che, povero egli stesso, ha voluto che i più poveri fossero i difensori dei diritti di Dio, dunque dei diritti dell’uomo, che essi amano abbastanza per sacrificare la loro vita per tutti gli uomini. Gesù non ha semplicemente ricordato i diritti di tutti gli uomini perché essi sono figli di Dio. Egli ha voluto, grazie ai poveri, creare il contagio dell’amore. Perché l’amore corre un rischio calcolato su ciò che intralcia, blocca, impedisce l’essenziale. La Chiesa è il Signore che, per amore, si fa miserabile, ridicolizzato, perseguitato ed escluso. Per lui, i diritti dell’uomo si fondano nell’amore, altrimenti essi sono raggiro e oppressione indiretta. Perché i poveri conservino la loro autenticità e siano salvatori, egli non ha cessato di insegnare, di condividere l’amore, per tutto il tempo della sua vita sulla terra. Perché nessun uomo si perda, egli li ha impegnati a sacrificare la loro vita come egli ha sacrificato la sua. Solo i poveri, però, potevano accettare subito di pagare un tale prezzo. «Padre mio, ti ringrazio perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai potenti e le hai rivelate agli umili». Sì. La Chiesa è quella che il mondo sbeffeggerà, quella di cui non vorrà sapere. Io l’ho scoperto quando ero ancora bambino, cresciuto da mia madre, la donna più povera del quartiere Saint-Jacques ad Angers. Io ho imparato ad amare la Chiesa, perché mia madre era una donna di preghiera. Ogni mattina, mi mandava al Buon Pastore. Vi sono stato accolito dai 4 agli 11 anni. Amavo la bellezza della Chiesa, la serenità delle religiose. Malgrado ciò, per quanto bambino, presentivo la fragilità di quella comunità, la sua separazione con il quartiere. Mi dicevo: sono state già cacciate altre volte, può ancora succedere loro. Ricordiamo che, a quell’epoca, molti non nascondevano la loro ostilità alla Chiesa. Anche il vedere sempre le stesse persone a messa, il numero assai piccolo di uomini che vi assistevano, vedere il direttore della scuola detta «laica» frequentare un’altra parrocchia, per paura di essere giudicato male… questo mi faceva riflettere molto. Nella strada, dovunque, dei manifesti ridicolizzavano i religiosi, le religiose. Talora, dai commercianti, ci si burlava dei «bigotti». Il divario era grande fra il quartiere e quella chiesa che si trovava in mezzo. Certamente, si salutava il signor Curato per strada, ma io sentivo che tutto ciò non era affatto sincero. Mi dicevo: «Per tutte queste persone, la Chiesa non è niente». Crescendo, la debolezza della Chiesa mi appariva ancora più evidente: era talmente criticata e denigrata. Vedevo i sacerdoti e le religiose oggetto di beffe e anche, talora, insultati per strada. Quando, attorno al Vaticano II, sentii di nuovo accusare la Chiesa di essere pretenziosa, di possedere denaro e potere, sapevo che non era vero. Avevo subito io stesso troppi affronti, insulti alla mia veste per ingannarmi sulla potenza della Chiesa. Se i cristiani dessero prova di memoria, saprebbero che la Chiesa, come Gesù e i poveri, è alla mercé di tutti i poteri finanziari, politici e ideologici.