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Fonte: Caritas Reggio Emilia

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A conclusione dell’Anno della Misericordia il papa ha avuto l’intuizione di lanciare a tutto il mondo la Giornata mondiale dei poveri. Non un’ulteriore iniziativa, ma una provocazione alla Chiesa per dare voce ai poveri

diacono

Francesco non esita a dire a Gesù: «in questo nostro mondo, che tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato» (Omelia durante il momento di preghiera straordinario in Piazza San Pietro il 27 marzo 2020). Pertanto una missione quella dei cristiani a «collaborare per risolvere le cause strumentali della povertà e per promuovere lo sviluppo integrale dei poveri», come pure quella di «gesti semplici e quotidiani di solidarietà di fronte alle miserie molto concrete» che ogni giorno sono dinanzi ai nostri occhi (cfr EG 188). «Non amiamo a parole, ma con i fatti».

Il papa in un’omelia a santa Marta parla purtroppo della «spaccatura tra l’élite dei dirigenti religiosi e il popolo, un dramma che viene da lontano. È gente di seconda classe: noi siamo la classe dirigente, non dobbiamo sporcarci le mani con i poveri».

«I poveri li avete sempre con voi»
È il messaggio della V Giornata mondiale dei poveri: Gesù pronunciò queste parole nel contesto di un pranzo, a Betania, nella casa di un certo Simone detto «il lebbroso», alcuni giorni prima della Pasqua. Come racconta l’evangelista, una donna era entrata con un vaso di alabastro pieno di profumo molto prezioso e l’aveva versato sul capo di Gesù. Quel gesto suscitò grande stupore e diede adito a due diverse interpretazioni.

Servire con efficacia i poveri provoca all’azione, mette in gioco l’identità e la missione dei diaconi che è il servizio ai poveri con l’amore di Cristo. In questo l’icona della scelta dei «servitori alle mense» (At 6) serve da archetipo. Non si tratta solo di generosità e beneficienza verso i poveri. Ma di familiarità e solidarietà con loro, come ripete papa Francesco: «spesso i poveri sono considerati come persone separate, come una categoria che richiede un particolare servizio caritativo. Seguire Gesù comporta, in proposito, un cambiamento di mentalità, cioè di accogliere la sfida della condivisione e della partecipazione» (n. 4).

Il tema della povertà della Chiesa si pone al centro del Concilio Vaticano II e del magistero postconciliare dei pontefici. Una Chiesa ricca, distratta rispetto ai poveri o che se ne serve per conquistare il mondo, vela l’Evangelo, impedisce agli uomini di riconoscere la via della Croce, da cui viene la salvezza per ogni uomo. Ma cosa significa tutto questo nell’essere concreto della Chiesa nella storia? Guardando a quello che è avvenuto, in questi anni che ci separano dalla chiusura del Concilio, si ha l’impressione che, se è cresciuto in modo molto forte l’impegno di servizio a favore dei poveri, dalla parte dei poveri, deve accrescere sempre di più l’approfondimento del mistero di una Chiesa povera.

Non si tratta di inventare niente di nuovo, di trovare nuove formule pastorali, ma di attingere sempre alla sorgente piena e viva del mistero di Cristo, per la forza dello Spirito Santo. Come diceva in un suo intervento il card. Lercaro, il 4 novembre del 1964, in Concilio: «Sono le parole evangeliche, che sanciscono il modo più vero ed efficace con cui la Chiesa è presente al mondo e a tutto il mondo: cioè il modo del martyrion, cioè la testimonianza nel senso dell’attestazione pura e semplice del Vangelo e della coscienza evangelica in faccia a tutte le genti, ai loro principi e capi; presenza che è specialmente la diaconia, cioè il di tutti, di essere inviato soprattutto per i piccoli, gli umili, i poveri, per quelli ai quali si dà senza sperarne nulla (Lc 6.34-35), senza poterne ricavare un aumento di potere; presenza che è l’essere finalmente inviata a tutte le genti senza che mai possa considerarsi stabilita e compiuta in una gente, in una rana, in una cultura, in una lingua».

Secondo questo brano, vivere il mistero di una Chiesa serva e povera dentro la storia significa innanzi tutto dare testimonianza (martyrion) dell’Evangelo, nella sua semplicità, senza alcun altro sostegno che non sia la forza inerme della Parola di Dio, non sovrapponendo parole proprie, ma quasi scomparendo dietro la buona notizia di Gesù, con passione, senza timidezza né arroganza, di fronte ad ogni uomo, ai popoli, a chi domina e a chi è dominato, dentro i conflitti. Appare allora una Chiesa, che non privilegia una parte del mondo, che non si identifica in una cultura, che non ha nemici, ma in un amore senza limite, annuncia e consegna a tutti e ai poveri, prima di tutto la Parola della salvezza, ponendo il segno scandaloso della comunione con la testimonianza (martyria) di Cristo, il testimone fedele (Ap 1,5).

Dalle celebri affermazioni conciliari (si veda LG 8; GS 8-9), dalla lapidaria espressione di Paolo VI, «i poveri sono sacramen­to di Cristo», quanta acqua è passata sotto i ponti! Insomma, – scrive Francesco – i credenti, quando vogliono vedere di persona Gesù e toccarlo con mano, sanno dove rivolgersi: i poveri sono sacramento di Cristo, rappresentano la sua persona e rinviano a Lui» (n. 3). Forse tra le scelte conciliari, quella per i poveri fu la più drammatica e la più costosa. Definirsi dentro l’Occidente opu­lento come Chiesa dei poveri che sceglie i poveri come suo sa­cramento, significava candidare al martirio molti cristiani, distanziarsi da una storia troppo abbondantemente segnata dalle esigenze di profitto e mercato, farsi antagonista di quanti sullo sfruttamento e l’ingiustizia fondano anche oggi la loro egemonia. Scrive Francesco nel Messaggio: «se non si sceglie di diventare poveri di ricchezze effimere, di potere mondano e di vanagloria, non si sarà mai in grado di donare la vita per amore; si vivrà un’esistenza frammentaria, piena di buoni propositi ma inefficace per trasformare il mondo» (n. 5).

In verità col Vaticano II la Chiesa non imbarcò molti poveri nella barca di Pietro. Ma da lì, preso il largo, approdò a Medellin, a Puebla, in Africa, nell’immensa Asia, nelle aree degradate delle metropoli, fra tutti i forzati della storia. Questa recente storia di Chiesa non è stata rinnegata. Ma l’onda lunga si è come smorzata, che si fa fatica a proseguirla, che si è tentati fortemente di restaurare il primato della verità sulla carità, per trovare un buon motivo che mutili un po’ la diakonia ecclesiale e privilegi un tranquillo kerigma di principio. Se giocasse la paura e la voglia di quieto vivere, se insomma ci si riscoprisse amanti della propria tranquillità, dei propri privilegi, alleati del “pensiero unico” e del Nuovo Ordine Mondiale pensato dai ricchi e per i ricchi, dove mai raggiungeremmo Dio?». Per questo, per papa Francesco, «si impone un differente approccio alla povertà. È una sfida che i Governi e le Istituzioni mondiali hanno bisogno di recepire con un lungimirante modello sociale, capace di andare incontro alle nuove forme di povertà che investono il mondo e che segneranno in maniera decisiva i prossimi decenni» (n. 7).

Allora bisogna trovare le forme più adeguate per risollevare e promuovere questa parte di umanità troppe volte anonima e afona, ma con impresso in sé il volto del Salvatore che chiede aiuto. Servizio, che non è generato da una strategia pastorale ma da una chiara indicazione del Signore, che ha posto l’evangelizzazione dei poveri come segno messianico per eccellenza. Non solo ma «i poveri di ogni condizione e ogni latitudine ci evangelizzano, perché permettono di riscoprire in modo sempre nuovo i tratti più genuini del volto del Padre» (n. 2).

La diaconia, pertanto, è prima di tutto al Signore e al suo Vangelo e per questo è capace di ascoltare il grido dei poveri, di accompagnarli nel loro cammino di liberazione. Solo una Chiesa serva e povera può cercare l’ultimo posto nella storia, a misura del suo Signore, che si è fatto servo, diacono, per tutti, per vivere nella compagnia degli abbandonati della terra, per testimoniare la consola­zione di quel Dio, che in «gesti» non solo si è posto dalla parte dei poveri, ma egli stesso si è fatto povero, perché nessuno fosse escluso dalla salvezza.

Il ministero del diacono per l’edificazione di una Chiesa serva e povera
«Rimane aperto l’interrogativo per nulla ovvio: come è possibile dare una risposta tangibile ai milioni di poveri che spesso trovano come riscontro solo l’indifferenza quando non il fastidio?» (n. 6)

Vale la pena ricordare il paragrafo 29 della Lumen Gentiun che afferma la scelta del Concilio Vaticano Il della restaurazione del diaconato nella forma perma­nente. È da notare che proprio la collocazione del ministero diaconale nella Lumen Gentium, nel capitolo sulla costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare dell’episcopato, sta ad indicare non una scelta di carattere pastorale o disciplinare, ma teologico, collocandolo dentro la struttura sacramentale della Chiesa. Il card. Suenens in un intervento di particolare rilievo nel dibattito conciliare, così spiega: «Questo grado (il diaconato) appare costituito in modo particolare ad ausilio diretto del vescovo e più precisamente per funzioni collegate con l’assistenza dei poveri con il buon andamento sociale, con la preparazione per così dire comunitaria e liturgica della Chiesa locale: presenta quindi un rapporto specifico con tutto quello che riguarda ad un tempo la carità tra i fratelli e la koinonia eucaristica, che sono in stretto rapporto di interdipendenza. Diaconia, nel senso particolare di questo ministero, è dunque in strettissimo rapporto con koinonia, sia sotto l’aspetto sociale dello scambio fraterno dei beni materiali e spirituali sia sotto l’aspetto della comunione eucaristica nella fractio panis (At 2,42 e 4,32-35; Eb 13.16)».

Il ministero del diacono è qui visto in rapporto alla comunione con l’evento eucaristico e con i poveri, in un servizio di preparazione della comunità cristiana «a mangiare degnamente» del Corpo del Signore, come fonte della carità verso i deboli e come celebrazione di questa carità. Ma il suo ministero è a servizio del vescovo, servendo l’Eucaristia e i poveri, preparando la Chiesa locale ad essere serva del Risorto e serva dei fratelli, in particolare i più abbandonati e i più esclusi. Secondo una espressione della Chiesa antica, ripresa dal Concilio, al diacono sono imposte le mani «non per il sacerdozio, ma per il ministero» del vescovo. Questo ministero è manifestazione e realizzazione efficace della diaconia di Cristo. Dice Ignazio di Antiochia, scrivendo ai cristiani di Magnesia: «vi scongiuro compite tutte le vostre azioni in questo spirito di concordia, che piace a Dio, sotto la presidenza del vescovo, che tiene il posto di Dio, dei presbiteri, che rappresentano il senato degli apostoli, dei diaconi, oggetto della mia parti­colare predilezione, della diaconia di Gesù Cristo, che era presso il Padre, prima dei secoli, e che si è rivelato alla fine dei tempi».

Nell’essere servo dell’Eucaristia e servo dei poveri, il diacono rende visibile il servizio di Cristo, che nel pane spezzato e nel vino versato «ha dato la propria vita in riscatto di molti» (Mc 10, 45), annunciando così la buona notizia ai poveri della terra, manifestando l’agàpe di Dio (1Gv 4, 7-1 1), che genera l’amore senza limiti verso i fratelli. Per questo c’è una grazia particolarissima da Dio, come dice la formula dell’ordinazione diaconale nella Traditio apostolica di Ippolito: «O Dio, che tutto hai creato e ordinato con la Parola, o Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che hai mandato a servire la tua volontà e a manifestarci il tuo proposito, concedi lo Spirito santo della grazia, dello zelo e della diligenza a questo tuo servo, che hai scelto per servire la tua Chiesa e per offrire, nella santità nel tuo santuario, quanto sarà offerto dall’erede del sommo sacerdozio».

Questo significa superare ogni prospettiva funzionalistica: non si tratta di affidare al diacono mansioni marginali alla loro diaconia, ma di riconoscere il ministero, sigillandolo con la grazia sacramentale, che dà all’azione del diacono un’efficacia ed una grazia, creatrice di un ordine comunitario. Seguendo altre suggestioni, come ha ricordato Suenens in Concilio, «la Chiesa rischia di ridursi ad una organizzazione naturale e rischia di non essere il corpo mistico di Cristo, articolato nei ministeri e nelle grazie da lui preordinate a questo fine».

In realtà l’edificazione di una Chiesa serva e povera, proprio perché questo rimanda in modo diretto e preciso al ministero di Gesù, servo povero e sofferente del Padre, non avviene attraverso opzioni sociologiche e pastorali, legate esigenze immediate della vita della Chiesa, ma dall’alto, perché il Signore dona ad essa, attraverso la Parola e l’Eucaristia, la forza dello Spirito Santo, per essere somigliantissima a Gesù, che «da ricco che era si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà» (2Cor 8,9), «assumendo la condizione di servo (…) obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fl 2, 7-8). In questa edificazione «dall’alto» di una Chiesa serva e povera, il diacono, con il suo ministero, «rappresenta» Cristo servo povero di Dio. Per il sigillo sacramentale, la verità evangelica del servizio di Gesù è resa presente e operante nel diacono. Tra il diacono e la sua Chiesa locale si crea un dinamismo di mutua inclusione: nel diacono è rappresentata la diaconia di Cristo, che è misura della diaconi a della Chiesa, e il diacono opera perché la Chiesa sia edificata secondo questa diaconia, per essere fedele alla volontà del suo Signore. Rappresentando Cristo servo, il diacono è il segno di Lui, che è misteriosamente presente nella «forma del servo» nella sua Chiesa come fonte di grazia, perché la Chiesa diventi quello che è costitutivamente nel suo ministero: la comunità dei discepoli servi e poveri del Signore.

L’occhio della Chiesa sui poveri
La radice cristologica dell’ufficio diaconale è profondissima. Ciò appare, d’altronde, esemplarmente anche nell’attività e nella morte di santo Stefano, che è non a caso protomartire e protodiacono. Qui risiede il nocciolo permanente dell’«ufficio» del ministero diaconale.

Penso, per esempio, all’interessamento per gli stranieri e i senza patria, le persone sole e i poveri, gli anziani e i malati, ma anche alla collaborazio­ne al movimento delle case di riposo. Infine, vi sono molte altre necessità delle quali oggi poco si parla, a cominciare dal consumo della droga e dalla dipendenza dal­l’alcool fino alla mancanza di orientamento, alla demotiva­zione e alla disperazione. Anche quando il diacono assume altri compiti, come quelli che sono stati espressi dal Conci­lio, non può mai mancare questo nocciolo centrale e privilegiato del suo compito. Esso rappresenta anche un interesse fondamentale di ogni vescovo. Karl Rahner scriveva: «A mio avviso, il vescovo ha l’espresso dovere di rendere presente nel mondo l’amore di Cristo nei riguardi di tutti i sofferenti, i poveri e i deboli, i perseguitati, ecc. Ora a questo compito assolutamente prioritario del vescovo il diacono non partecipa meno di qualsiasi altro sacerdote».

Forse sarà necessario prendere in considera­zione tutte le questioni che oggi dobbiamo affrontare e alle quali dobbiamo dare un’attenta risposta. Penso, ad esempio, alla questione dei pieni poteri direttivi dei diaconi nei riguardi delle comunità alla rappresentanza dei diaconi nei consigli a tutti i livelli, alla necessità di fissare un diritto proprio dei diaconi per quanto attiene all’esercizio del loro ministero, alla formazione e al discernimento e, in particolare, al rapporto fra il dia­conato e gli altri ministeri pastorali.

Il ministero del diacono: Parola, Eucaristia, Poveri
Il diacono dunque prepara ed edifica una Chiesa secondo la diaconia di Cristo. Dalla Pentecoste alla Parusia del Signore, la Chiesa di Dio è chiamata a dimorare nella terra in stato di diaconia. Pietro così riassume il ministero diaconale di Gesù: «Dio consacrò in Spirito santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tuffi coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (Atti 10, 38). È certo, dunque, che due sono le forme primordiali della diaconia dell’Evangelo: il servizio dei poveri, dei piccoli, degli afflitti, dei peccatori, e il servizio della Parola. Questi due servizi sono attestati nel capitolo 7 degli Atti (7, 2 e 4) e certamente si richiamano l’uno all’altro, nella misura in cui sono due momenti dell’unico ministero diaconale di Gesù. Per la forza dello Spirito santo la diaconia del Signore Gesù passa in quella della comunità ecclesiale. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone l’apostolo Paolo quando esorta i cristiani delle sue comunità a soccorrere i poveri della prima comunità di Gerusalemme e a farlo «non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). «Non si tratta di alleggerire la nostra coscienza facendo qualche elemosina, ma piuttosto di contrastare la cultura dell’indifferenza e dell’ingiustizia con cui ci si pone nei confronti dei poveri» (n. 7). La comunione di Gesù all’amore del Padre per i poveri, per i feriti dalla storia, per i peccatori passa nella diaconia della Chiesa al cuore dei conflitti tra gli uomini.

L’Eucaristia è ciò che costituisce al cuore della Chiesa il dinamismo di questa doppia diaconia.

Nicolas Afanassieff, noto teologo ortodosso, sottolinea fortemente questo: «Là dove vi era una assemblea eucaristica doveva esistere il ministero del servizio ai poveri. La vita della Chiesa è basata sull’amore, che si esprime nella maniera più completa nell’assemblea eucaristica, manifestazione della Chiesa in tutta la sua pienezza. L’Amore è il carisma comune di tutto il popolo di Dio e senza di esso non ci può essere alcun ministero nella Chiesa. Nella Chiesa primitiva, non c’era della beneficenza a titolo privato, se non in maniera molto limitata. Invece di questo, ogni membro della Chiesa portava il suo dono dell’Amore all’assemblea eucaristica. Questi doni costituivano «i tesori dell’Amore», da cui si prendeva il necessario per gli aiuti. Il ministero del servizio ai poveri appare molto presto nella chiesa: più esattamente appare nel medesimo tempo della prima assemblea eucaristica. Qualunque sia la soluzione, che si vuole dare al problema dei sette, è indubitabile che l’aiuto ai poveri fa parte del loro ministero».

Appare con chiarezza che l’edificazione di una Chiesa serva e povera avviene nell’Eucaristia, e non vi può essere una Chiesa eucaristica che non sia serva di Dio nei poveri. «I poveri – scrive Francesco – non sono persone “esterne” alla comunità, ma fratelli e sorelle con cui condividere la sofferenza, per alleviare il loro disagio e l’emarginazione, perché venga loro restituita la dignità perduta e assicurata l’inclusione sociale necessaria. D’altronde, si sa che un gesto di beneficenza presuppone un benefattore e un beneficato, mentre la condivisione genera fratellanza. L’elemosina, è occasionale; la condivisione invece è duratura. La prima rischia di gratificare chi la compie e di umiliare chi la riceve; la seconda rafforza la solidarietà e pone le premesse necessarie per raggiungere la giustizia» (n. 3). Il ministero del diacono, nel suo servizio, si pone a questa congiunzione.

Da Giustino noi sappiamo che la sinassi eucaristica è il momento in cui «si leggono le memorie degli apostoli e gli scritti dei profeti e finita la lettura colui che presiede prende la parola per avvertire ed esortare ai buoni insegnamenti» (cap. 1,7). Ma è anche il momento in cui «coloro che sono nell’abbondanza danno liberamente, ciascuno secondo ciò che vuole, ciò che è raccolto è rimesso nelle mani di colui che presiede, perché assimila gli orfani, le vedove, i malati, gli indigenti, i prigionieri, gli stranieri, in una parola egli porta aiuto a coloro che sono nel bisogno» (Ap 1,7). Le due forme della diaconia sono inseparabili. Ma questa unione nasce dal fatto che la Parola spinge alla carità. Il ministero del diacono allora non può non essere un ministero legato alla Parola, all’Eucaristia, alla carità, in un equilibrio dinamico secondo lo Spirito tra i tre momenti, pena il rischio di cadute sociologiche e ritualistiche. La Chiesa serva e povera è del Signore e dal Signore è consegnata agli uomini per essere segno e strumento della sua misericordia e della sua tenerezza per tutti, e in particolare per i piccoli. Il diacono è ministro per l’edificazione e la compaginazione di questa Chiesa, rendendo efficacemente presente il servizio scandaloso di Cristo fino alla morte.

In un antico ordinamento ecclesiale Siro del terzo secolo sono descritti un venta­glio di disponibilità affidate al diacono, e tutto questo senza limiti. I compiti spaziano dalla scoperta e sepoltura del corpo di un naufrago alla testimonianza sulla fedeltà e onestà di una donna violentata. Nel testo ricorre poi la bella espressione secondo cui il diacono deve «essere in tutto come l’occhio della Chiesa».

L’espressione si riferisce non all’occhio di un guardiano, ma piuttosto alla sensibile percezione della sofferenza e del bisogno resa possibile da un’autentica prossimità e soli­darietà fraterna. Così l’occhio del diacono allarga continuamente l’orizzonte della Chiesa, fiuta la sofferenza e i bisogni negli angoli più nascosti della comunità e ai suoi confini. Ovunque nella realtà delle nostre comunità vi sono zone oscure e zone luminose. La funzione edificatrice della comunità propria del diacono consiste non da ultimo nel fatto di scorgere la sofferenza e il bisogno e, per quanto possibile, di portare ovunque concretamente, e rendere visibile, agli uomini la misericordia di Gesù Cristo. La sua particolare responsabilità per i viandanti e gli stranieri, nonché i senza patria, rende presenti alla comunità dei bisogni assolutamente attuali. Il papa conclude il messaggio ricordandoci «che i poveri sono in mezzo noi. Come sarebbe evangelico se potessimo dire con tutta verità: anche noi siamo poveri, perché solo così riusciremmo a riconoscerli realmente e farli diventare parte della nostra vita e strumento di salvezza» (n.9).
Settimana News 

In Perù, la Giuria Nazionale delle Elezioni ha infine approvato, il 19 luglio, i risultati della competizione che il 6 giugno, al secondo turno (il primo era stato l’11 aprile), ha fatto confluire su Pedro Castillo oltre 44mila voti in più rispetto alla sua avversaria, candidata della destra, Keiko Fujimori. I ricorsi di quest’ultima che gridava alla frode elettorale sono stati tutti analizzati e respinti. La proclamazione è avvenuta solo una decina di giorni prima del cambio presidenziale previsto per il 28 luglio, giorno in cui il Perù celebrerà 200 anni di indipendenza. Castillo succede quindi a Francisco Sagasti che era stato nominato presidente ad interim dal Parlamento nel novembre del 2020.

Castillo eredita un Paese messo in ginocchio dalla pandemia e dalle diseguaglianze, dove tre persone su 10 vivono in condizioni di povertà e oltre il 70% dei lavoratori appartiene al mercato informale, nonostante la sua economia sia stata considerata un “miracolo economico” per via della sua rapida crescita negli ultimi due decenni e una gestione prudente delle finanze pubbliche che le ha consentito di mantenere l’equilibrio fiscale e di attrarre investimenti.

La vittoria di Castillo, presentatosi come politico di sinistra, alimenta il timore dei poteri forti, malgrado abbia moderato assai i suoi discorsi rispetto a quando, sconosciuto maestro ci campagna, che difendeva i postulati di un sedicente partito marxista-leninista. A fine giugno ha dichiarato: «Non siamo chavisti, non siamo comunisti, non porteremo via le loro proprietà a nessuno, ciò che è stato detto è totalmente falso, è sigillato: siamo democratici, rispettiamo il governo e le istituzioni peruviane».

Secondo la BBC-Mundo (20/7), sono due le mosse che potrebbero tranquillizzare il clima di incertezza sul futuro economico del Paese: la nomina di Pedro Francke, un uomo che gode di rispetto negli ambienti imprenditoriali e accademici, come suo principale assistente economico; e la conferma di Julio Velaverde alla presidenza della Banca Central, incarico che ricopre da molti da anni, per garantirne l’indipendenza.

Il piano per risollevare le sorti del Perù pensato da Castillo è ormai noto come “economia popolare con mercati”, una via di mezzo fra l’esperienza di Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Equador, un “evocorreismo”. Intervistato da BBC-Mundo, Francke spiega che si tratta di «un modello di libera azione delle imprese private, come abbiamo avuto fino ad ora, ma con una maggiore componente redistributiva da parte dello Stato», perché «dobbiamo ridistribuire la ricchezza, in particolare quella mineraria». I fondi delle politiche di redistribuzione della ricchezza saranno destinati a un aumento della spesa sociale per la salute e per l’istruzione e a un maggiore sostegno ai microimprenditori in città e nelle campagne.

«C’è paura – ha ammesso – per quella che potremmo chiamare quell’altra sinistra, una sinistra che ha una proposta più statalista nello stile di Cuba o Venezuela, con una molteplicità di controlli sui prezzi, un’economia fortemente pianificata, un’enorme presenza statale», ma «non è quello che vogliamo».

«Castillo – dice sempre alla BBC-Mundo Sinecio López, sociologo e docente alla Pontificia Università Cattolica del Perú e alla Nazionale Università di San Marco – si è reso conto che deve governare per l’intero Paese e il suo attuale team tecnico rappresenta una sinistra moderna, non una sinistra primitiva».

Ciò non toglie che molti investitori e uomini d’affari siano preoccupati e, dato che una delle maggiori fonti di reddito del Paese proviene dal settore minerario, c’è chi teme nazionalizzazioni nel settore. Castillo ha anche detto che intende rinegoziare i contratti con le società transnazionali che operano nel Paese in modo che l’80% dei profitti rimanga in Perù e il resto rimanga nelle mani delle imprese. Insomma, dopo il 28 luglio si saprà qualcosa di più, chi rimarrà soddisfatto e chi deluso.

adista

Domenica 15 novembre, quarta Giornata mondiale dei poveri

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Sotto il colonnato alla vigilia della festa

14 novembre 2020

Sotto il colonnato del Bernini sabato mattina non si parla d’altro: «Domani, che è domenica, alle 10 il Papa celebra la messa e ci ha invitato dentro in basilica» dice, con il piglio da “portavoce”, Anna, 72 anni, che in zona San Pietro conoscono tutti.

«Purtroppo per la pandemia non si può fare il pranzo tutti insieme come l’anno scorso» fa presente la donna, che a Francesco vorrebbe regalare una rosa. Nelle parole di Anna c’è tutta la consapevolezza che l’invito rivolto dal Papa ai più poveri per la messa, nella Giornata a loro dedicata, è una riaffermazione della dignità di ogni persona indipendentemente dal suo conto in banca, dal fatto che non ha una casa o un cambio di vestiti e fatica a metter su pranzo e cena.

Le “braccia” del colonnato del Bernini sono sempre lì, spalancate per accogliere ogni donna e ogni uomo. Ma la constatazione che una delle “braccia” è resa “viva” proprio dalle persone emarginate, rende l’immagine suggerita dal colonnato ancora più forte e chiara. Perché proprio il “punto di riferimento” che Papa Francesco ha voluto sotto il colonnato per assicurare ai più poveri docce, servizi di accoglienza e anche un ambulatorio — dove da 2 settimane si fanno 50 tamponi al giorno — sta a ricordare, senza retorica, che qui davvero la Giornata del povero si celebra ogni giorno, con i fatti.

Domenica 15 novembre alla messa per la quarta edizione della Giornata mondiale — organizzata dal Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione — saranno simbolicamente presenti “solamente” cento persone, in rappresentanza di tutti i poveri del mondo. Accompagnate da volontari e benefattori. E a proclamare le letture saranno proprio coloro che ogni giorno vengono assistiti dalle associazioni caritative.

La celebrazione sarà in diretta su Rai 1, Tv2000, Telepace e sulle emittenti cattoliche del mondo collegate al Dicastero per la comunicazione e sarà trasmessa in streaming su Vatican News.

«Tendi la mano al povero» è l’espressione del libro del Siracide (7, 32) scelta dal Papa per “fotografare” la grande povertà che oggi abbraccia il mondo. La pandemia sta rendendo ovunque evidente una povertà dimenticata: la fragilità. E il povero è fragile per definizione, perché manca del necessario per vivere e la sua stessa esistenza dipende dalla generosità e della solidarietà degli altri.

Quest’anno la Giornata ha un valore forse ancora più “provocatorio” perché la pandemia sta facendo toccare con mano che ogni donna e ogni uomo è debole, dipende dagli altri: vale per i potenti e per chi vive sotto un ponte.

Il messaggio suggerito da questo evento è che «non ci si salva da soli ma insieme». Ecco che l’immagine della “mano tesa”, scelta dal Papa per la Giornata, rammenta che non può mai essere “a senso unico”: chi la tende deve avere la certezza che viene raggiunta da un’altra mano, senza stare a calcolare chi l’ha tesa per primo.

E se la Giornata mondiale dei poveri nel tempo del covid-19 ha il suo “cuore” nella celebrazione che Francesco presiederà domenica mattina all’altare della cattedra in San Pietro e il suo “segno” nel quotidiano e non episodico servizio di accoglienza sotto il colonnato del Bernini, davvero ogni casa — meglio, ogni persona — è “sede” della celebrazione. Oggi più che mai in ogni dimora e in ogni luogo — soprattutto negli ospedali — le persone si tendono reciprocamente le mani. Perché nessuno sia solo nei problemi, nella malattia, nella morte.

Lo “racconta” efficacemente il logo della Giornata: sulla soglia di una porta aperta s’incontrano due persone che si tendono la mano. Una chiede aiuto, l’altra vuole offrirlo. Ma non si comprende chi tra le due sia “il povero”. Poveri, in realtà, siamo tutti. Ci sono due braccia tese, come quelle del colonnato berniniano. E soprattutto la porta resta spalancata.

di Giampaolo Mattei – Osservatore

Nel messaggio per la Giornata dei poveri il Papa esorta a rispondere al grido silenzioso dei più bisognosi

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Domenica la messa del Corpus Domini nella basilica vaticana

«Tendi la tua mano al povero»: prende spunto dall’antico libro del Siracide (7, 32) il tema scelto da Papa Francesco per la prossima Giornata mondiale dei poveri che sarà celebrata domenica 15 novembre. E l’immagine della “mano tesa” è anche il filo conduttore del messaggio in preparazione alla Giornata, che è stato scritto dal Pontefice nel giorno della memoria liturgica di sant’Antonio di Padova, patrono dei poveri.

Il testo del Papa è stato presentato nella stessa mattina del 13 giugno in diretta streaming nella Sala stampa della Santa Sede dall’arcivescovo Rino Fisischella, presidente del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, organizzatore del Giubileo della misericordia, da cui è scaturita questa iniziativa giunta alla quarta edizione. Esso parte dal presupposto che «la preghiera a Dio e la solidarietà con i sofferenti sono inseparabili»: per tale motivo «il tempo da dedicare alla preghiera non può mai diventare un alibi per trascurare il prossimo in difficoltà». Mentre «è vero il contrario» e cioè che «la preghiera raggiunge il suo scopo» quando è accompagnata «dal servizio ai poveri».

In particolare il messaggio di quest’anno si inserisce nel drammatico contesto della pandemia da covid-19, e in proposito Francesco ricorre proprio alla metafora della “mano tesa” per elogiare il lavoro «del medico che si preoccupa di ogni paziente; delle infermiere e degli infermieri che, ben oltre i loro orari di lavoro, rimangono ad accudire i malati; di chi lavora nell’amministrazione e procura i mezzi per salvare vite; del farmacista esposto a tante richieste in un rischioso contatto con la gente; del sacerdote che benedice con lo strazio nel cuore; del volontario che soccorre chi vive per strada e quanti, pur avendo un tetto, non hanno da mangiare; di uomini e donne che lavorano per offrire servizi essenziali e sicurezza».

Eppure, nonostante questa lunga «litania di opere di bene» compiuta da “mani tese” che «hanno sfidato il contagio e la paura pur di dare sostegno e consolazione», testimoniando umanità e responsabilità da parte di molti, non mancano l’indifferenza, il cinismo e l’avidità che sono il «cibo quotidiano» di chi facilmente dimentica «coloro la cui umanità è violata nei bisogni fondamentali».

E ancora una volta Francesco ricorre all’immagine delle “mani” per denunciare quanti continuano a tenerle “in tasca” senza lasciarsi «commuovere dalla povertà, di cui spesso sono anch’essi complici»: si tratta degli speculatori finanziari che con «la tastiera di un computer» spostano «somme di denaro da una parte all’altra del mondo, decretando la ricchezza di ristrette oligarchie e la miseria di moltitudini o il fallimento di intere nazioni»; di chi accumula «denaro con la vendita di armi che altre mani, anche di bambini, useranno per seminare morte e povertà»; di chi nell’ombra scambia «dosi di morte per arricchirsi e vivere nel lusso e nella sregolatezza effimera» o di chi sottobanco scambia «favori illegali per un guadagno facile e corrotto», fino a quelli che «nel perbenismo ipocrita stabiliscono leggi che loro stessi non osservano». Da qui l’auspicio conclusivo che «queste mani che seminano morte» possano essere «trasformate in strumenti di giustizia e di pace».

Del resto i cristiani sanno che tutto ciò è possibile: «Gesù accoglie i peccatori e mangia con loro», aveva ricordato Francesco con un tweet su @Pontifex giovedì 11, rilanciando l’hashtag #CorpusDomini. «È quello che accade a noi, in ogni Messa, in ogni chiesa: Gesù è contento di accoglierci alla sua mensa, dove offre sé stesso per noi», aveva spiegato, invitando a unirsi spiritualmente alla celebrazione da lui presieduta nella solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, domenica 14, alle 9.45, nella basilica vaticana. All’altare della Cattedra il rito si conclude con l’esposizione del Santissimo Sacramento e la benedizione eucaristica. A seguire, a mezzogiorno, il tradizionale appuntamento di preghiera con i fedeli in piazza San Pietro per la recita dell’Angelus.

Nella basilica romana di S.Maria in Trastevere oltre mille poveri hanno avuto un Natale dignitoso. Altri 60 mila indigenti in Italia hanno festeggiato

foto di Sant'Egidio.

Da Santa Maria in Trastevere l’abbraccio a tutti i lottatori della speranza che hanno fatto sì che questo giorno sia un vero Natale“.

Così il parroco di Santa Maria in Trastevere, don Marco Gnavi, saluta su Twitter quanti hanno reso possibile e collaborato al pranzo di Natale con i poveri svoltosi ieri nella basilica romana per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio.

Oltre mille persone, in un clima di grande gioia e familiarità, hanno partecipato a Roma, a mezzogiorno, all’appuntamento annuale, che si ripete dal Natale del 1982, della Comunità per i senza dimora, gli anziani soli, le famiglie in difficoltà, le persone fragili.

Ma molti altri sono i partecipanti ai pranzi di Natale promossi da Sant’Egidio in Italia e nel mondo: circa 60 mila i commensali in un centinaio di città italiane (tra cui Bologna, Catania, Firenze, Genova, Messina, Milano, Napoli, Padova, Parma, Torino, Trieste) e 240 mila in oltre 70 Paesi di tutti i continenti.

Una “festa della solidarietà”, l’ha chiamata Sant’Egidio, per sostenere la quale e accogliere un numero sempre maggiore di persone, dal 2 al 25 dicembre è stata lanciata la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi “A Natale aggiungi un posto a tavola”.

Come da tradizione, il menù del pranzo di Natale di Sant’Egidio ha previsto, in Italia: antipasto, lasagne, polpettone con verdure, frutta fresca, panettone e spumante, caffè e cioccolatini.

Inoltre tutti gli ospiti conosciuti dai volontari hanno ricevuto regali pensati apposta per loro: oggetti utili come coperte e sacchi a pelo, radio, indumenti, prodotti per l’igiene personale, zainetti, borsoni, ma anche alimenti e dolci.

Lo facciamo perché nessuno sia escluso – ha spiegato la Comunità -: una grande tavolata capace di mettere insieme tante persone diverse tra loro. Un Natale per tutti. In un tempo in cui si parla e si vive troppo spesso all’insegna della contrapposizione e dello scontro vogliamo offrire un’immagine che è già realtà in tante parti del nostro Paese e rappresenta il volto umano delle nostre città italiane”.

“Ma è una realtà che proponiamo anche in Europa e negli altri continenti – ha aggiunto -: una grande festa della generosità aperta a tutti. Vorremmo che si vivesse così ogni giorno dell’anno e crediamo sia possibile dato l’alto numero di persone che si è unito a noi in questo Natale contribuendo ad allargare la famiglia umana a chi ha bisogno”.

fonte: Comunicato Stampa

Natale, Zuppi: «Sia all’insegna della fiducia negli altri». Il cardinale: «La candidatura dei Portici un‘attenzione all’incontro»

«Spero che sia un Natale all’insegna della fiducia e della speranza, soprattutto in questi periodi di poca fiducia e poca speranza. Bisogna imparare a fidarsi degli altri, di chi abbiamo vicino e sconfiggere le nostre paure». È il messaggio che ha lanciato il vescovo di Bologna, il cardinale Matteo Zuppi, nell’incontro con la stampa per gli auguri di Natale. Per Bologna, secondo Zuppi, è stato un anno di «scoperte e riscoperte», con particolare riferimento alla questione dei portici, che il Comune candida a patrimonio dell’Unesco. «L’attenzione per i portici – ha detto – è attenzione all’incontro, alla cura delle cose comuni, ci aiuta a vivere con maggiore consapevolezza». Per Zuppi è anche il primo Natale da cardinale. «Non cambia nulla – ha detto – è una responsabilità in più che condivido con tutta la comunità».

corriere.it

Rapporto della Caritas di Roma. Più poveri e più anziani

Italia

L’Osservatore Romano

Rapporto

Roma, una città che impoverisce e invecchia a vista d’occhio. Con i figli dei più poveri che ereditano l’esclusione sociale. È l’impietoso ritratto che emerge dalla nuova edizione del rapporto «La povertà a Roma: un punto di vista» — 180 pagine con focus dedicati a immigrati, anziani soli, salute mentale e dipendenze — presentato questa mattina dalla Caritas diocesana. In ogni municipio capitolino, infatti, si registrano circa 10.000 persone ultrasessantacinquenni che non raggiungono il reddito annuo di 11.000 euro, per un totale complessivo di 146.941 abitanti: «Un’intera grande città fatta di anziani che vivono di stenti dentro una grande metropoli contemporanea», sottolinea il rapporto.

I poveri sono i nostri amici Natale reggiano della Comunità di Sant’Egidio

La Comunità di Sant’Egidio compie 50 anni. Una storia cominciata il 7 febbraio 1968, all’indomani del Concilio Vaticano II a Roma da Andrea Riccardi con un piccolo gruppo di liceali che volevano cambiare il mondo. Oggi Sant’Egidio, che Papa Francesco ha ribattezzato “la Comunità delle 3 P” (Preghiera, Poveri, Pace), continua a nutrire lo stesso sogno con tanti amici che lo condividono. Con gli anni è divenuta una rete di comunità che, in più di 70 paesi del mondo, con una particolare attenzione alle periferie e ai periferici, raccoglie uomini e donne di ogni età e condizione, uniti da un legame di fraternità nell’ascolto del Vangelo e nell’impegno volontario e gratuito per i poveri e per la pace.

Preghiera, poveri e pace sono i suoi riferimenti fondamentali. La preghiera, basata sull’ascolto della Parola di Dio, è la prima opera della Comunità, ne accompagna e orienta la vita. A Roma e in ogni parte del mondo, è anche luogo di incontro e di accoglienza per chi voglia ascoltare la Parola di Dio e rivolgere la propria invocazione al Signore. I poveri sono i fratelli e gli amici della Comunità. L’amicizia con chiunque si trovi nel bisogno – anziani, senza dimora, migranti, disabili, detenuti, bambini di strada e delle periferie – è tratto caratteristico della vita di chi partecipa a Sant’Egidio nei diversi continenti.

Leggi tutto l’articolo di Mariangela Adduci su La Libertà del 9 gennaio

Stadio Olimpico. Papa Francesco regala ai poveri una serata di sport

Poveri, senzatetto e migranti sono tra gli invitati del Papa allo Stadio Olimpico di Roma dove avrà nel pomeriggio di giovedì 31 maggio il Golden Gala di atletica leggera: un’occasione di svago

da Avvenire

Papa Francesco ha ricordato ancora una volta che i poveri hanno bisogno non solo di cibo, vestiti e un posto per dormire ma anche di una parola amica, di un sorriso e di occasioni di svago

Papa Francesco ha ricordato ancora una volta che i poveri hanno bisogno non solo di cibo, vestiti e un posto per dormire ma anche di una parola amica, di un sorriso e di occasioni di svago

L’Elemosineria Apostolica, a nome del Papa, ha invitato i poveri, i senzatetto, i profughi, i migranti e le persone più bisognose allo Stadio Olimpico di Roma per partecipare, nel pomeriggio di giovedì 31 maggio, al Golden Gala, l’importante manifestazione internazionale di atletica leggera.

L’iniziativa è stata possibile grazie alla Federazione italiana di atletica leggera che ha riservato i posti gratuiti per le persone invitate da papa Francesco che saranno accompagnati dai volontari della Comunità di Sant’Egidio, della Cooperativa Auxilium e dell’Athletica Vaticana, rappresentativa podistica dei dipendenti della Santa Sede. L’obiettivo, si legge in una nota, è “offrire una serata di festa e di amicizia, attraverso la bellezza di uno sportuniversale e semplice come l’atletica e di rilanciare i valori dell’accoglienza e della solidarietà”.

Più volte Francesco ha ricordato che i poveri hanno bisogno non solo di cibo, vestiti e un posto per dormire ma anche di una
parola amica, di un sorriso e di occasioni di svago e di sano divertimento. Nel settore “Curva Sud” dello Stadio Olimpico, gli
invitati del Papa avranno anche una “cena al sacco”.

La parrocchia, la Parola e i poveri

La parrocchia ha ottime prospettive se è, rimane e si ostina a rimanere il luogo dove risuona la Parola. Del resto alla nostra generazione non manca il pane. E anche quando nella vita di alcuni nostri fratelli viene a mancare questo alimento necessario – il pane –, noi non possiamo offrirgli solo quello. Sarebbe tradire la loro vita. Perché noi non stiamo in piedi solo con il pane come una macchina non cammina solo con la benzina.

Ad una generazione che ha dimenticato la sua grandezza e ha buttato le istruzioni per l’uso dell’esistenza dobbiamo ricordare che noi siamo una realtà più nobile e più complessa di quello che appare e che il pane non basta. È utilissimo ma insufficiente.

Fede nella Parola

Senza rinunciare a tante attività buone e belle, ma senza diventarne schiavi e senza farsi assorbire completamente da altre cose tutte buone, la parrocchia deve dare spazio all’ascolto della Parola, anche se lì per lì può sembrare inutile, improduttivo, una perdita di tempo… far risuonare la Parola, farla vibrare con tutta la sua forza, farne sentire tutto lo scandalo (cioè la distanza che esiste tra i nostri pensieri e la sua logica), tirarne fuori tutta la sua bellezza e il suo fascino, la sua gustosissima sapienza, la sua dolce verità… è il seme della Parola che ha partorito i giganti e i fuoriclasse.

Qual è la qualità della nostra parola? La parola che porgiamo non può essere difficile, indecifrabile, incomprensibile più del latino di una volta, o scientifica, forbita e, tantomeno, vuota, un suono che non convince e non sveglia nemmeno chi la pronuncia, o la ripetizione noiosa di frasi fatte e scontate che chi ci ascolta già sa in partenza dove andiamo a parare. Prevedibili. Senza una sorpresa che riaccende l’attenzione!

La Parola deve uscire dalla bocca di un testimone, dal cuore di un innamorato, dagli occhi di chi ha veramente fissato uno spettacolo, da una vita appassionata!

Quando la Parola tocca la vita delle persone provoca tante reazioni, anche contrastanti, ma comunque accende sempre la vita. E anche se viene a sconvolgere, viene sempre a creare.

Incontrare gli adulti

È importantissimo che la piccola comunità cristiana parli a tutti e non si perda nessuna delle opportunità che le vengono offerte. Le parrocchie (e questo sì è un vero limite) sono pensate, strutturare e realizzate in vista dei bambini fino alla comunione o alla cresima per i più fortunati.

Chiesa, aule del catechismo (vengono ancora chiamate così), oratorio, calcetto, teatrino, biliardini… ma i grandi? Gli adulti? Quando li incontriamo? Come li incontriamo? Il nostro linguaggio è a misura di un uomo cresciuto e navigato? Oppure conserva il sapore e lo stile di quando parliamo ai bambini? È un po’ che non parliamo a loro, se non a pochissimi e con parole distanti dalla vita e disincarnate dalla realtà.

Sono loro che si allontanano o non è che stiamo dando loro una buona mano per andarsene? Fino a prova contraria, sono ancora tanti quelli che vengono a messa la domenica. Quanti vorrebbero avere di fronte lo stesso numero di persone che li ascolta! Ogni domenica! Ma qual è la qualità delle nostre omelie? Le omelie sono ormai diventate l’unica e prima evangelizzazione per gli adulti. Spesso lamentiamo lo svuotamento delle nostre chiese ma sarebbe utile chiedersi: “ma possibile che la Parola non riesca a trafiggere il cuori dei nostri contemporanei?”. Il Rabbì di Nazareth, quando parlava, provocava sempre tantissime reazioni immediate.

Nella mia piccola esperienza (10 anni da viceparroco e 11 da parroco), ho sempre avuto la sensazione che il catechismo ai bambini in proporzione a quanto si investe sia fallimentare. Mi ha sempre impressionato l’abbandono veloce e di massa, l’esodo di tutti i ragazzi già nelle scuole medie inferiori. Diceva don Mazzolari: «Così, il povero prete della parrocchia – non quello di parata – ha spesso l’impressione che la sua fatica non prenda più. Nessuna comprensione, nessuna risposta, nessuna reazione. La distanza aumenta, la solitudine intorno alla parrocchia, nonostante il moltiplicarsi delle iniziative, aumenta. C’è nel popolo una resistenza silenziosa. Di quanta fede ha bisogno questo povero parroco per resistere alla tentazione di scappare in convento o di rimanere con gli occhi e il cuore chiuso!».

Ricordo a Napoli un bambino vispo, Antimo, intelligentissimo, che la domenica mi aiutava, con i suoi interventi, a fare l’omelia nella messa con più bambini, e con una bellissima famiglia alle spalle che non trascurava affatto la trasmissione della fede ai figli. Ebbene, pochi anni dopo si è dichiarato ateo. Chissà se conosceva il significato di quello che diceva, però era sicuro che preferiva prendere le distanze da una cosa che poco prima amava e seguiva.

È un esodo massiccio e un cambiamento repentino che non può non impressionarci. Va bene ma non possiamo lamentarci poi neanche più di tanto se i ragazzi ci lasciano, perché comunque a loro qualcosa la diciamo e forse questa semina che adesso non mostra frutti può portare domani frutti inaspettati.

Ma gli adulti? Quando parliamo a loro? Dobbiamo accelerare i nostri passi verso di loro e non perdere nessuna delle occasioni che le circostanze ci danno. Preparazione al matrimonio (spesso questo è il primo contatto da adulti con la comunità e con il Vangelo), preparazione al battesimo, benedizione delle famiglie nelle case, cura degli ammalati, vicinanza nel momento della morte, anniversari, catechismo (ho trovato e trovo utilissimo, nella mia esperienza, incontrare i genitori dei bambini che fanno il catechismo; mentre i bambini sono con i catechisti, io, parroco, incontro i genitori. Tutte le volte. Sempre.), confessione e disponibilità al dialogo (quanta gente chiede di parlare e di essere ascoltata!)…

Certo, chiunque legge può dire: “ma queste sono cose che si sono sempre fatte!” Certo!? Come prete che lavora a tempo pieno nella pastorale da 21 anni oso avanzare qualche dubbio. Ma, ammesso anche che si siano sempre fatte (ed è vero che le abbiamo fatte e tante volte sono state fatte bene), sono queste le cose che dobbiamo continuare a fare. Dobbiamo puntare agli adulti senza perdere nessuna delle opportunità che ci vengono continuamente sotto il naso, prima di mettere in programma e in calendario altre iniziative.

Spesso possiamo trovarci nella condizione comica di chi è lì a fare programmi e a pensare e preparare iniziative e a non saper leggere l’ordine del giorno che ci suggerisce la vita. Un po’ come quei genitori che fanno le case per i propri figli e questi, per diverse ragioni, non le abiteranno mai. E forse un giorno si sentiranno pure dire: “e chi ve l’ha fatto fare?”. Certo che dobbiamo avere qualche idea, ma non dobbiamo esserne troppo affezionati. Anche gli apostoli sanno che da Gerusalemme devono arrivare fino ai confini della terra, ma non sanno come.

Dobbiamo ritornare a offrire nelle nostre parrocchie la Parola. Del resto, è questa ciò che chiama, convoca, mette insieme, ci avvicina, ci fa corpo e ci fa fratelli.

I poveri

Credo proprio che siamo alla vigilia di tempi che porteranno nuovi frutti e abbondanti. Molti hanno intravisto una stagione nuova in un’attenzione che le comunità devono offrire ai poveri, che sono sempre stati i prediletti del Padre Celeste (basti pensare a don Primo Mazzolari, a don Tonino Bello, allo stesso papa Francesco): «E i poveri sentono che non hanno più il primo posto nel cuore del parroco e si allontanano anche dalla Chiesa. Se ne sono già allontanati. Per cui abbiamo chiese belle e ricche e riscaldate anche, d’inverno, ma così vuote, così desolatamente vuote, come il cuore di un prete senza poveri» (Mazzolari). Questa sarebbe davvero una conversione pastorale!

Sono sicuro che saranno loro, i poveri, a salvarci. Saranno i poveri, gli ultimi, i falliti, la gente con il cuore spezzato, gli scarti del mondo, quelli che sbarcano, quelli che sono distrutti e offesi, quelli senza pane e senza vita, quelli senza storia e senza nome, quelli abbandonati e messi alle porte, quelli che piangono e agonizzano, quelli che si perdono e sono sbandati, coloro che non vengono mai ascoltati, che non contano nulla, coloro ai quali non si chiede mai il parere, ai diseredati, proprio quelli che bussano alle nostre porte e ci disturbano, saranno loro che rinnoveranno le nostre comunità, con le loro lacrime e il loro lamento, con le loro sofferenze e le loro insistenze, con le loro richieste e il loro grido ci spingeranno a essere ciò che dobbiamo essere, a fare ciò che dobbiamo fare, a dire ciò che dobbiamo dire.

Sono i poveri che hanno suscitato campioni come Giovanni Bosco, Pino Puglisi, Lorenzo Milani, Mario Operti, Luigi Ciotti, Giuseppe Diana, Maurizio Patricello, Oreste Benzi… sono stati sempre loro a salvarci, a portaci fuori dal pantano e a ridarci slanci e grandezza e saranno loro a portarci fuori anche da questa situazione che ci appare grigia e ferma. Ne sono certo loro sapranno indicarci la strada per uscire e ci offriranno soluzioni che noi neanche immaginavamo. Ma già lo fanno. Lo hanno sempre fatto. Forse è per questo che il Signore ci ha detto che sarebbero stati sempre con noi, perché sarebbero stati loro sempre, lungo i tempi, a prenderci per mano e a riportarci all’essenziale, al necessario, al bello, al Vangelo. I poveri ci hanno sempre aiutato molto più di quanto abbiamo fatto noi per loro.

E poi è assurdo pensare che la parrocchia dipenda solo da noi. Ci sono alcuni preti che pensano che prima di loro non c’era niente e dopo di loro tutto crollerà. Sono degli autentici uomini di fede perché credono fermamente e solamente in se stessi (temo, però, che abbiano poca fiducia in Dio). Non è solo l’offerta che crea il mercato. È la domanda che lo genera. Sono i poveri che bussano, non solo i poveri di pane anche quelli smarriti, quelli persi, quelli spenti, quelli soli, delusi, falliti, feriti, malati, aggrovigliati dentro a catene assurde, quelli impantanati… sono loro che fanno la comunità cristiana.

settimananews

Una persona su quattro in Italia sono a rischio povertà ed esclusione sociale

L’Istat stima che sia coinvolto il 28,3% della popolazione nel 2014, percentuale in linea con quella dell’anno precedente.

Restano un lusso le ferie, che una famiglia su due non può permettersi nemmeno per una settimana, e per tanti è impossibile anche solo riscaldare casa o fare un pasto adeguato ogni due giorni. Sono in questa situazione 6 milioni di persone, secondo la Coldiretti.

In Europa il rischio medio è inferiore a quello italiano di quasi quattro punti (24,4%), e fanno peggio dell’Italia solo la Grecia e alcuni paesi dell’Est. In questo contesto di pesanti difficoltà, non mancano però alcuni passi avanti.

Le persone con maggiori problemi economici – l’Istat parla di “grave deprivazione materiale” – calano per il secondo anno consecutivo fino 11,6%, la quota più bassa dal 2011. E ci sono progressi anche al Sud, dove il rischio di povertà o esclusione sociale passa dal 46,4% del 2013 al 45,6%, pur continuando a colpire più di quattro persone su dieci. La distanza del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese rimane ampia. Le persone in grave deprivazione al Sud sono più del doppio rispetto al Nord Italia (il 19,9% contro il 7,1%).

Inoltre sette abitanti su dieci nelle regioni meridionali non possono permettersi una settimana di ferie e uno su due non riesce ad affrontare una spesa imprevista di 800 euro (il 52,5% rispetto a una media nazionale del 38,8%). Difficoltà molto superiori alla media contraddistinguono anche i genitori single e le famiglie con tre o più figli, categorie nelle quali il rischio di povertà o emarginazione supera il 39%. Rispetto al 2013 la situazione è in miglioramento per le famiglie numerose, mentre si aggrava per i monogenitori. Sono particolarmente esposte anche le persone sole (con un rischio del 31,5%), mentre le famiglie più solide economicamente risultano le coppie senza figli, soprattutto se di 65 anni o più (che hanno un rischio del 14,1%).

L’Istat presenta anche un’analisi sui redditi netti relativi al 2013. Ne emerge che una famiglia su due non supera 2mila euro circa al mese, 24.310 euro l’anno. Il reddito mediano più alto è al Nord (27.089 euro), mentre nel Mezzogiorno il livello è pari al 75% di quello settentrionale e nell’Italia centrale al 95%. Infine il 20% più ricco delle famiglie accumula il 37,5% del reddito totale, mentre al 20% più povero spetta solo il 7,7%.

“La lotta alla povertà rappresenta, per noi, un impegno concreto che abbiamo già avviato e che porteremo avanti e rafforzeremo nei prossimi anni”, ha affermato il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti, commentando i dati Istat, relativi al 2014.

Questi dati “evidenziano, sotto il profilo del rischio di povertà e di esclusione sociale, una situazione sostanzialmente stabile rispetto al 2013 e, pur con una diminuzione delle persone in condizioni di grave deprivazione, comunque inaccettabile e da affrontare rapidamente e in modo stabile”, ha proseguito il ministro in una nota, sottolineando che è “a partire da questa evidenza che il Governo ha attivato una politica complessiva e articolata che vede come pilastro fondamentale la definizione di un Piano nazionale per il contrasto alla povertà e all’esclusione sociale”, sostenuto da “un Fondo dedicato con una dotazione di 600 milioni per il 2016 e di 1 miliardo a decorrere dal 2017”.

avvenire

Nel mondo ci sono 2,2 miliardi di poveri

Risultati nella lotta alla povertà non dovranno più assomigliare in futuro a castelli di sabbia esposti alle periodiche demolizioni dell’alta marea, ovvero ad ogni nuova estesa crisi alimentare, ecologica, bellica o finanziaria. A pochi mesi dal fatidico 2015 fissato dall’Onu come scadenza degli “Obiettivi del millennio”, l’annuale rapporto di Undp (il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) ha il sapore di un’autocritica su quanto non si è ancora riusciti a costruire. Cioè una strategia di ampio respiro per sradicare le «vulnerabilità strutturali» di quella parte dell’umanità che resta nella povertà. Considerando solo i redditi, le cifre relative migliorano moderatamente rispetto al passato, con 1,2 miliardi di persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno. Ma da sempre, lo sguardo di Undp sulla miseria è più largo e realistico. E in proposito, l’«indice di povertà multidimensionale» elaborato dalla stessa agenzia dell’Onu offre uno scenario più fosco. In 91 Paesi, oltre 1,4 miliardi di persone restano in una «condizione di povertà», accanto ad altri 800 milioni di individui in bilico e vulnerabili di fronte a ogni nuova crisi. In tutto, dunque, 2,2 miliardi di persone in stato di miseria reale o potenziale.

Undp invita ad aprire gli occhi su un mondo gonfio di rischi sistemici. Il 2015 dovrebbe suggerire un cambio di rotta all’insegna di programmi per lo sviluppo concentrati più che mai sulla vulnerabilità. A livello individuale e comunitario, i poveri mancano di quella capacità di resistenza e reazione ai traumi che gli psicologi chiamano «resilienza». Per questo, il nuovo rapporto di Undp s’intitola proprio «Perennizzare il progresso umano: ridurre le vulnerabilità e rafforzare la resilienza». Per il premio Nobel dell’economia Joseph Stiglitz, associato al rapporto, «occorre adottare un approccio in una larga prospettiva sistemica», puntando sulle vulnerabilità. Ma su quali pilastri poggiare il nuovo approccio? Almeno due, suggerisce il rapporto: l’estensione massima e se possibile universale dei servizi sociali di base (sanitari, educativi, assistenziali), accanto a mercati locali e nazionali del lavoro organizzati per includere un livello massimo di persone, dato che a ogni latitudine l’esclusione dalla vita attiva è il pendio più scivoloso accanto al baratro della miseria. Ma l’obiettivo della massima occupazione è finito in secondo piano fin dagli anni Settanta, soppiantato spesso dall’imperativo di massima concorrenza, nota il rapporto.

A perpetuare l’esclusione sono pure sistemi istituzionali fondati su discriminazioni ataviche in particolare verso le donne, i migranti, chi ha un handicap, i popoli autoctoni e gli anziani. Questi ultimi, in 4 casi su 5 a livello planetario, possono solo sognare una copertura previdenziale, la quale invece non dovrebbe più figurare come un lusso dei Paesi ricchi. Costruire sistemi di servizi di base per i poveri di ogni continente costerebbe appena il 2% del Pil mondiale. In India, basterebbe investire il 4% del Pil nazionale. In Africa, non si supererebbe in genere il 10%. Secondo il rapporto, l’uscita degli anziani dalla vita attiva è uno dei periodi di massima vulnerabilità, accanto ai primi 3 anni di vita e alla transizione dalla scuola al lavoro. Queste fasi della vita meriterebbero dappertutto politiche specifiche di protezione. Fra i nuovi Paesi virtuosi, figurano Corea del Sud e Costa Rica, capaci entrambi di estendere in fretta l’accesso ai servizi di base. Per il dopo 2015, auspica Undp, diventa dunque doveroso puntare sulla copertura previdenziale universale come nuovo obiettivo centrale dell’agenda internazionale.

avvenire.it

Al via la campagna Caritas di sensibilizzazione per ridare dignità ai poveri in carcere

Di Salvatore Cernuzio

 (Zenit.org) – Una bambina di 3 anni che cammina con la madre nei corridoi di un carcere con le braccia dietro la schiena. Due occhi nella penombra della grata a cui un detenuto si aggrappa con rassegnazione. Un uomo che vaga senza meta con una valigetta di cartone. Dall’altra parte: i deserti sconfinati dell’Africa, minuscoli borghi arroccati ai margini del mondo, paesaggi e volti “umili” di uomini e donne provenienti dall’India e dall’Ecuador.

Fotografie antitetiche tra loro, che nel contrasto tra il colore e il bianco e nero mostrano i grandi spazi e le grandi ristrettezze in cui può vivere un essere umano. Tutte, però, urlano un solo messaggio: Uhuru!

Proprio la parola swahili che significa “Libertà” è il titolo del doppio libro fotografico che raccoglie gli scatti rubati dall’architetto Francesco Delogu nei suoi numerosi viaggi e quelli che il fotografo Stefano Montesi ha realizzato durante l’esperienza professionale dentro il carcere.

Il libro è il primo passo della campagna di sensibilizzazione Cittadini poveri che sono in carcere: gli unici per i quali funziona la certezza della pena! promossa dalla Caritas diocesana di Roma che ha come protagonisti i detenuti più indigenti.

L’incasso del volume, infatti – in vendita da oggi nelle librerie Arion – sarà devoluto ai “poveri” delle carceri per comprare loro beni di prima necessità come cibo, dentifricio, shampoo, indumenti intimi, di cui sono totalmente privi, nonostante la Costituzione teoricamente garantisca tali diritti.

Non è questo, però, l’unico obiettivo dell’iniziativa Caritas. Nell’intento di “restituire la dignità” a chi in carcere l’ha persa nel corpo e nell’anima, l’associazione diocesana vuole aprire gli occhi della società sulla situazione detentiva in Roma e in tutta Italia.

Di questo hanno discusso, infatti, i relatori intervenuti, oggi alla Radio Vaticana, alla conferenza di presentazione del libro: mons. Enrico Feroci, direttore della Caritas di Roma; Anna Chiara Valle, di Famiglia Cristiana; Daniela De Robert, dei volontari Caritas nelle carceri e soprattutto Don Sandro Spriano, responsabile Area Carcere Caritas.

In particolare, l’attenzione si è soffermata sul polo penitenziario romano di Rebibbia, protagonista di vari scatti del libro, corredati anche dagli scritti personali di alcuni dei suoi detenuti che, ha ricordato don Spriano, “sono attualmente 1800, nonostante il Nuovo Complesso dovrebbe ospitarne solo 1100”.

Il sovraffollamento non è, però, l’unico problema che affligge le carceri della Capitale. C’è la “povertà” appunto, non solo materiale, ma anche “culturale e relazionale”, ancora più grave perché azzera ogni contatto col mondo esterno e ogni speranza.

Sarà forse per questo che l’ultimo 12 dicembre sono stati registrati circa 58 suicidi in istituti penitenziari, non solo da parte di detenuti, tra l’altro, ma anche di poliziotti penitenziari. Al di la del chiavistello, infatti, si respira comunque lo stesso ambiente di privazioni e di orrori.

Raccontando la sua esperienza decennale a Rebibbia, don Sandro Spriano ha parlato di una “gabbia” dove al detenuto viene reso difficile vestirsi visto che “tra gli effetti dati dal carcere non c’è neanche uno slip all’anno” e dove lavarsi è un trauma per “l’acqua gelida d’inverno e calda d’estate”. Il carcere “passa solo il cibo e il posto letto quando c’è” ha dichiarato il cappellano; per il resto non è possibile “telefonare a casa, avere una ‘privacy per la propria anima’, vivere correttamente un’affettività e una sessualità”.

Si aggiunge la povertà materiale: “Su 1800 detenuti del Nuovo Complesso solo mille dispongono di un conto corrente sul quale i familiari possono depositare soldi e dal quale si può attingere fino a 800 euro al mese. I detenuti che arrivano a tanto sono un centinaio, la maggioranza preleva piccole cifre l’anno. Ci sono, quindi, più di 800 detenuti che non hanno nulla”.

“Tutti i diritti previsti dalla Costituzione sono eliminati non si sa in base a quale legge” è la dura denuncia del sacerdote, “abbiamo intenzione di condannare a morte queste persone privandoli dell’intelligenza e della libertà. Poi, però, si pretende che escano fuori e siano degli angioletti. Tali condizioni di vita non fanno altro che aumentare la rabbia e la frustrazione”.

C’è un altro aspetto, ancora più triste: quell’opinione pubblica per cui, parlando delle sofferenze di un uomo in carcere si pensa “se l’è meritato”. Anna Chiara Valle lo ha sottolineato nel corso della conferenza, facendo anche un paragone con il caso Green Hill: “Per il maltrattamento dei cani siamo pronti a scendere in campo – ha detto – ma non per le persone carcerate perché è pensiero comune che sia giusto così”. Riecheggiano le parole di don Riboldi: “Pane e acqua appartengono alla punizione, ma pane e acqua vanno dati in un piatto pulito”.

Obiettivo principale della campagna Caritas diventa dunque “responsabilizzare” la società, affinché – ha affermato mons. Feroci – “prenda coscienza di trovarsi davanti ad una problematica enorme che la interessa direttamente”.

“Quello che chiediamo – ha aggiunto Daniela De Robert – non sono più posti in carcere, ma misure alternative come una giustizia e una società che insegni alle persone a vivere, a lavorare, a stare con gli altri”.

Forse è troppo tardi inculcare nella società attuale questa nuova mentalità; bisogna puntare quindi sulle nuove generazioni. Per questo, ha spiegato la De Robert, l’associazione dei Volontari Caritas sta portando avanti un grande lavoro nelle scuole. “Entriamo e molti ragazzi richiedono la pena di morte – ha raccontato – ma dopo i nostri dialoghi o dopo attività come spostare i banchi in modo da formare una cella che dimostra come si può isolare una persona, li lasciamo con qualche dubbio”.

“Bisogna seminare dentro e fuori – ha concluso – anche perché è inutile aprire le porte del carcere, se poi quelle della società rimangono blindate”.

La Chiesa? Sempre a fianco dei poveri inediti «Gli emarginati sono carne della sua carne. Essa è criticata e sbeffeggiata: è la non-amata, la rifiutata dal mondo»: la testimonianza del prete fondatore del movimento Atd Quarto Mondo

DI JOSEPH WRESINSKI  – avvenire.it

La Chiesa non si disinteressa dei più poveri, non può. Certamente talvolta se ne discosta, ma questo bisogna comprenderlo. La miseria si presenta come il contrario della grazia. Per coloro che non conoscono l’uomo che la vive, quest’ultimo appare non come uomo del dolore, ma come uomo del disprezzo, del rigetto. Uomo a rischio, ignorante e disperato, che vive in una famiglia schiacciata, egli è allo stesso tempo divenuto un disturbatore per le nostre coscienze ben pulite ma indebolite e talora codarde. Come vederlo di primo acchito quale nostro eguale? Il che sarebbe permettergli di porre tante domande su noi stessi, sulla società di cui siamo parte pregnante, su tutto quel che viviamo e crediamo. Ammetteremmo così che egli porta i nostri peccati e vedere in lui un nostro eguale ci obbligherebbe in qualche modo ad abbracciare il lebbroso. Il cristianesimo, è vero, dovrebbe permettere un tale eroismo a tutti coloro che contamina. Non è più il tempo in cui si dava un significato al mendicante, al povero sfigurato, e in cui il lebbroso era proclamato figlio di Dio. La Chiesa proclama sempre che i più poveri sono carne della sua carne, la sua realtà profonda. Non è evidente che la Chiesa viva ciò senza debolezza. Io non ne sono però né angosciato né spinto alla rivolta. La Chiesa è i più poveri. Lo è per essenza. Anche i più poveri, presto o tardi, in modo più o meno concreto e duraturo, più o meno furtivo o pubblico, saranno riconosciuti da lei e accolti come i primi. La Chiesa è condannata, se posso dirlo, attraverso la sua storia, a ricordarsi, a riprendere coscienza della realtà che essa è, povertà, disprezzo, esclusione; che essa stessa è la non-amata, la rifiutata dal mondo. (…) Gesù, l’uomo più povero, è il contrario del miserabilismo. Egli ha preso la condizione dello schiavo, della miseria più totale, per affermare che mai l’uomo può essere scalfito. Che l’uomo rimane sempre libero di liberare i suoi fratelli. Noi non diciamo forse abbastanza che Gesù non è venuto semplicemente a liberare l’uomo. Egli è venuto e si è circondato di poveri che avrebbero liberato, con lui, gli uomini. Egli ha voluto che essi volessero, con lui, la liberazione di tutti, dei ricchi tanto quanto dei poveri. Ciò nonostante, noi dobbiamo innanzitutto riconoscere la scelta del Signore di assumere pienamente la condizione dell’uomo più disprezzato, stavo per dire: dell’uomo sottoproletario. Egli non lo fece solamente al momento della sua nascita e della sua morte, ma per tutta la sua vita. Egli ha vissuto da uomo misconosciuto e rigettato e ne aveva le maniere, il modo di reagire agli uomini e agli eventi. Le sue parole, le sue risposte, i suoi atti, tutto in lui denuncia l’uomo costantemente disprezzato. I Vangeli ci dipingono Gesù Cristo realmente a disagio nel mondo, come lo sono i sottoproletari oggi, sofferente come loro, poiché egli si comporta come loro di fronte al suo ambiente e si attira gli stessi sguardi e commenti. In tutto ciò Cristo non simulava, era loro. La Chiesa non è per questo una corte dei miracoli, una comunità rivolta su se stessa. Essa è l’essere stesso del Signore che, povero egli stesso, ha voluto che i più poveri fossero i difensori dei diritti di Dio, dunque dei diritti dell’uomo, che essi amano abbastanza per sacrificare la loro vita per tutti gli uomini. Gesù non ha semplicemente ricordato i diritti di tutti gli uomini perché essi sono figli di Dio. Egli ha voluto, grazie ai poveri, creare il contagio dell’amore. Perché l’amore corre un rischio calcolato su ciò che intralcia, blocca, impedisce l’essenziale. La Chiesa è il Signore che, per amore, si fa miserabile, ridicolizzato, perseguitato ed escluso. Per lui, i diritti dell’uomo si fondano nell’amore, altrimenti essi sono raggiro e oppressione indiretta. Perché i poveri conservino la loro autenticità e siano salvatori, egli non ha cessato di insegnare, di condividere l’amore, per tutto il tempo della sua vita sulla terra. Perché nessun uomo si perda, egli li ha impegnati a sacrificare la loro vita come egli ha sacrificato la sua. Solo i poveri, però, potevano accettare subito di pagare un tale prezzo. «Padre mio, ti ringrazio perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai potenti e le hai rivelate agli umili». Sì. La Chiesa è quella che il mondo sbeffeggerà, quella di cui non vorrà sapere. Io l’ho scoperto quando ero ancora bambino, cresciuto da mia madre, la donna più povera del quartiere Saint-Jacques ad Angers. Io ho imparato ad amare la Chiesa, perché mia madre era una donna di preghiera. Ogni mattina, mi mandava al Buon Pastore. Vi sono stato accolito dai 4 agli 11 anni. Amavo la bellezza della Chiesa, la serenità delle religiose. Malgrado ciò, per quanto bambino, presentivo la fragilità di quella comunità, la sua separazione con il quartiere. Mi dicevo: sono state già cacciate altre volte, può ancora succedere loro. Ricordiamo che, a quell’epoca, molti non nascondevano la loro ostilità alla Chiesa. Anche il vedere sempre le stesse persone a messa, il numero assai piccolo di uomini che vi assistevano, vedere il direttore della scuola detta «laica» frequentare un’altra parrocchia, per paura di essere giudicato male… questo mi faceva riflettere molto. Nella strada, dovunque, dei manifesti ridicolizzavano i religiosi, le religiose. Talora, dai commercianti, ci si burlava dei «bigotti». Il divario era grande fra il quartiere e quella chiesa che si trovava in mezzo. Certamente, si salutava il signor Curato per strada, ma io sentivo che tutto ciò non era affatto sincero. Mi dicevo: «Per tutte queste persone, la Chiesa non è niente». Crescendo, la debolezza della Chiesa mi appariva ancora più evidente: era talmente criticata e denigrata. Vedevo i sacerdoti e le religiose oggetto di beffe e anche, talora, insultati per strada. Quando, attorno al Vaticano II, sentii di nuovo accusare la Chiesa di essere pretenziosa, di possedere denaro e potere, sapevo che non era vero. Avevo subito io stesso troppi affronti, insulti alla mia veste per ingannarmi sulla potenza della Chiesa. Se i cristiani dessero prova di memoria, saprebbero che la Chiesa, come Gesù e i poveri, è alla mercé di tutti i poteri finanziari, politici e ideologici.

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