Don Milani, i poveri, la povertà

di: Antonio Cecconi

don milani

Il signorino

Quando andava nella tenuta di Gigliola, a Montespertoli, il giovane Lorenzo Milani era “il signorino”; la proprietà conteneva la villa padronale, la fattoria e 24 poderi coltivati a mezzadria. Il tutto è stato documentato ampiamente, in una pubblicazione che è, per la gran parte, una raccolta di testimonianze riassunte dal titolo Gli anni del privilegio.[1] Eccone qui alcune:

«Fin da piccolino si arrabbiava perché non voleva vedere differenze. Per esempio, quando la cameriera veniva a portargli la merenda, lui si risentiva perché noi figli di contadini non l’avevamo… Quando il fattore partiva il prosciutto per fargli la merenda, lui apriva porte e cancelli e voleva che fosse dato da mangiare a tutti facendo arrabbiare il fattore. Non voleva che noi figli di contadini si fosse servili con lui perché era il figlio del padrone. Si arrabbiava quando giocava a tennis se vedeva che noi gli si raccattava le palline e se le andava a prendere da sé». (Radiana Simoncini)

«Se veniva lui a Gigliola, si raccomandava alla mamma che tenesse aperti i cancelli, perché voleva che il campo da tennis fosse messo a disposizione dei ragazzi del paese. E tutte le mattine era pieno di giovani…». (Ubaldina Signorini)

«Io ero figlia di contadini e si stava in un podere dei Milani. Lorenzo era buono, mi voleva sempre dare qualcosa, soprattutto i suoi balocchi. Ha cominciato a venire da noi quando era un giovanottino, avrà avuto 15-16 anni… Lorenzo non entrava nelle nostre case, ma la nostra miseria la conosceva eccome. E forse è stato nel vedere tanta miseria che, in seguito, ha scelto di fare una vita così meschina, si era ridotto che sembrava un mendicante. La signora Alice (la mamma) si arrabbiava: “Gli manda i soldi per custodirsi e lui li dà ai poveri!”». (Liliana Paciscopi)

«A Gigliola, era il fattore a parlare con mio padre; mia nonna riceveva i contadini in fattoria e non in villa. Ricordo bene la fila che attendeva con il cappello in mano. Stavano in fila, lungo il muro, ad attendere di essere ricevuti. … Io mi vergognavo di essere “la signorina”… La gran parte della proprietà e la villa furono vendute quando avevo nove anni… Ma il disagio per le nostre colpe di “ricchi” pervadeva ormai il nostro essere. Lorenzo a Gigliola aveva vissuto, studiato un’estate dopo esser stato bocciato. Era nata lì anche per lui la sensazione di essere “sbagliati” e dover, a tutti i costi, porvi rimedio?». (Valeria Milani Comparetti, figlia del fratello maggiore Adriano)

«Quando era già grande, veniva a portare la merenda al mi’ figliolo che era piccino…». (Libera Guarducci)

«La prima volta che ho visto Lorenzo, lui era ancora un “signorino” della famiglia Milani. Insieme a suo fratello Adriano sfrecciava su due belle biciclette nere da ricchi senza guardare nessuno, viveva letteralmente in un altro mondo… Allora aveva 15-16 anni, non di più. La metamorfosi c’è stata durante la guerra, anche se il mondo dei poveri l’aveva già colpito in precedenza; sentiva un disagio che poi è sfociato quando ha trovato la fede, che ha dato un senso alla sua vita e alle sue inquietudini». (don Piero Paciscopi)

«Ho assistito a diverbi con il fattore che non voleva tutti questi ragazzi in giro per la fattoria, e allora Lorenzo tirò su una specie di rete per delimitare il confine della villa con la fattoria e disse al fattore: “Fin qui la proprietà è della mia mamma e faccio venire chi voglio”. …Poi ci faceva merenda scontrandosi, anche con modi un po’ dittatoriali, con il fattore, soprattutto per via del pallone. Con i ragazzi però questi atteggiamenti non li aveva mai. Già allora ci diceva che la scuola era alla base del nostro riscatto dalla miseria». (Vittorio Guerri)

Troviamo in queste testimonianze quasi la premonizione del desiderio, e quasi dell’assillo interiore, di «sfondare la cancellata della reggia del ricco» perché diventi la casa dei poveri che troveremo nella lettera a Pipetta, e, insieme, una prima sperimentazione – nei periodi estivi che Lorenzo trascorre a Gigliola da seminarista – di quello che sarà il suo impegno/missione di maestro, prima a San Donato di Calenzano e poi a Barbiana: «Aveva già allora questa idea della cultura come fonte di riscatto sociale, ed eravamo nel 1945-46, cioè prima che cantasse Messa nel 1947. Quando cominciò a fare il doposcuola a Gigliola, andavo a trovarlo e, con meraviglia, mi accorsi che i 5 o 6 ragazzi, che radunava intorno a un tavolone di una sala della villa, li faceva esercitare scarabocchiando i suoi disegni di quando era all’Accademia. Secondo me, lo faceva perché voleva cancellare, anche materialmente, tutto quello che rappresentava il passato. Ormai aveva fatto una scelta di stampo classista, anche se illuminata dalla fede». (ancora don Paciscopi)

La decisione

Nel tempo della scoperta della fede, «fino a pigliarsi un’indigestione di Gesù Cristo» (sono parole di don Raffaele Bensi), che approderà all’ingresso in seminario, prende corpo la relazione spirituale, affettiva, ecclesiale, filiale con il prete che lo accompagnerà per tutto il resto della vita. Non è casuale ricordare che questo prete fiorentino era anche guida spirituale e confessore di Giorgio La Pira, arrivato da don Bensi su consiglio di mons. Montini. Fu attraverso Bensi che La Pira scoprì i poveri di Firenze, quelli che andava a visitare come volontario vincenziano e che saranno uno dei punti focali del suo impegno politico.

È dello stesso periodo un episodio che potremmo ritenere non secondario nel suo cammino verso la povertà e il riscatto dei poveri: un giorno, mentre gironzola per le vie di Firenze in cerca di uno scorcio da dipingere in un quartiere popolare, tira fuori il pane per la merenda e una donna affacciata alla finestra lo rimprovera: «Non si mangia il pane bianco nelle strade dei poveri!». Raccontando in seguito l’episodio, lo paragonerà quasi a un’apparizione della Madonna.

Nel seminario in tempo di guerra, nonostante l’entusiasmo che Lorenzo manifesta a più riprese scrivendo alla mamma, la vita è dura per il freddo e soprattutto per la carenza alimentare. Però, viene abbondantemente fornito di cibarie che arrivano dalla fattoria di Gigliola e lui prontamente stabilisce un modo adatto a non far pesare la sua ricchezza: chiede ai compagni di camerata di mettere in comune tutto quello che ciascuno riceve dalle rispettive famiglie e poi ripartirlo in modo equo tra tutti; nasce quella che fu chiamata “la Cooperativa”. Anche se è chiaro da dove proviene la gran parte delle risorse alimentari.

Cappellano a San Donato di Calenzano

Veniamo al tempo di San Donato a Calenzano, all’impatto del prete fresco di ordinazione col vissuto reale della gente tra cui arriva il 9 ottobre 1947. Sono due gli aspetti che arricchiscono di piena consapevolezza le attenzioni che già aveva cominciato a coltivare osservando le condizioni di vita dei contadini della fattoria paterna: la casa e il lavoro, a cui sono dedica due dei capitoli delle Esperienze pastorali.[2]

A lui, che aveva vissuto nella grande e bella casa famigliare in centro di Firenze, con le alternative della villa al mare di Castiglioncello e l’altra nella fattoria di Gigliola, balza agli occhi la povertà, lo squallore, la disperazione di molte case dei suoi parrocchiani. Effettuando la benedizione delle case, incarica uno dei chierichetti di contare in ciascuna casa quanti sono i letti, e poi fa il confronto col numero dei componenti della famiglia che vi abita: ne risalta un quadro sconfortante di promiscuità, con la metà delle persone che dormono in un letto e l’altra metà trascorrono la notte «male accucciati».

Sull’argomento della casa come luogo tipico della povertà di tanta parte del suo popolo, don Milani pubblica su Adesso – la rivista creata, diretta e in gran parte redatta da don Primo Mazzolari – il lungo articolo «Natale 1950 – Per loro non c’era posto». Vi elenca una somma di situazioni limite, estrema povertà a fronte della grande ricchezza dei pochi proprietari, estrema disuguaglianza che lo porta ad attaccare il diritto di proprietà elevato ad assoluto, poiché tale diritto – afferma l’autore – non dovrebbe mai servire «a difendere la proprietà dei ricchi, cioè di chi ce l’ha già, ma solo a volerla a chi non l’ha». E ricorda il principio della dottrina sociale risalente a Tommaso d’Aquino secondo cui «in caso di estrema necessità, tutto è comune».

A proposito del lavoro, anche questo trattato in Esperienze pastorali nel capitolo successivo a quello sulla casa, sono emblematiche due lettere: la Lettera a don Piero in appendice del volume e l’altra – sempre pubblicata da don Mazzolari su Adesso – «Franco, perdonaci tutti: comunisti, industriali, preti».

(Non è casuale la sintonia, non solo letteraria, trai due preti, entrambi bistrattati a più riprese dall’ufficialità ecclesiastica. A cui ha saputo rimediare da par suo papa Francesco, onorando la memoria di entrambi con la visita a Bozzolo e a Barbiana il 20 giugno 2017).

Le due le lettere furono scritte a partire dall’osservazione di quello che era il lavoro in fabbrica nell’hinterland pratese, caratterizzato dall’espansione del tessile, e dalla condivisione delle fatiche, dello sfruttamento e dei soprusi di cui sono vittime alcuni dei suoi ragazzi.

Senza addentraci nelle radicali proposte di soluzione – e nelle scelte che la Chiesa e i cristiani potrebbero/dovrebbero fare –, ciò che appare evidente è la scelta sempre più chiara e irrinunciabile di carattere sia religioso che sociale di don Milani: la presa di coscienza, la denuncia, il riscatto. Da promuovere con determinazione assoluta, a partire dai giovani, accompagnandoli in quello che sarà per loro un cammino di una cultura attenta allo studio della realtà.

La scuola popolare

Questo avverrà con la scuola popolare, vissuta come alternativa al divertimento proposto da moltissime parrocchie, facendo a gara con le case del popolo dei comunisti per attrarre la gioventù.

L’obiettivo da perseguire, a cui conquistare i giovani, è farne dei protagonisti, artefici della propria e dell’altrui uscita dalla povertà e dalla sudditanza attraverso lo studio, la cultura, la conoscenza, la capacità di esprimersi a partire dalla centralità della Parola. Sostantivo sacro per un credente, tanto più col retroterra dell’Antico Testamento. Ma che mantiene una sua sacralità laica, civile, umana per dare senso all’agire per il bene non individuale ma sociale, collettivo, di popolo.

Per don Milani, il compito dell’evangelizzatore va distinto da quello del maestro, nella convinzione che «quando un giovane operaio e contadino ha raggiunto un sufficiente livello di istruzione civile non occorre fargli lezione di religione… Il problema si riduce a turbargli l’anima verso i problemi religiosi». Perché, altra sua affermazione perentoria, «da bestie si può diventare uomini, e da uomini santi. Ma da bestie a santi d’un passo solo non si può diventare». E così distingue la scuola popolare dal catechismo, e nessuno è obbligato a passare dalla scuola alla canonica.

L’insegnamento all’inizio è sulle materie di immediata utilità pratica, richieste dai ragazzi. Ma sarà vincente la strategia milaniana, che punta sulla lingua, perché il povero sia in grado di sconfiggere la tirannia di chi sa più vocaboli di lui. E poi la scuola spazierà su tantissimi argomenti, e ogni venerdì saranno ospiti amici di don Lorenzo: il giudice Meucci, Mario Gozzini, Giorgio La Pira. E non solo cattolici, ma anche intellettuali laici come Agostino Ammannati e Gaetano Arfé.

La particolarissima sintonia con La Pira è evidente, basti pensare al modo di pensare l’impegno politico a partire da «L’attesa della povera gente». E così la sua attenzione alla politica della casa fin da quando, da sottosegretario al lavoro, è di fatto l’autore del cosiddetto «Piano Fanfani»; e al suo impegno di sindaco, per evitare la chiusura di due fabbriche, la Pignone e la Galileo. Fedele al motto che «nella città un posto ci deve essere per tutti: una casa per amare, un’officina per lavorare…».

Come ci sarà tra i due analoga sensibilità in favore degli obiettori di coscienza all’uso delle armi: il prete con le due lettere ai cappellani militari e ai giudici a seguito dell’accusa di istigazione a delinquere per essersi schierato dalla parte degli obiettori,[3] il sindaco organizzando con un escamotage la proiezione del film Non uccidere di Claude Autant-Lara, presentato a Venezia ma ritirato dalla censura per apologia di reato.

Priore a Barbiana

Quando il suo campo di azione si sposta, per decisioni dall’alto duramente sofferte ma subito accolte nella nuova dura realtà di Barbiana, il fare scuola di don Lorenzo è ancor più chiaramente finalizzato al riscatto sociale di quelli che subito gli appaiono come «i paria italiani».

In quel posto dimenticato da Dio e dagli uomini, il fare scuola di don Milani ha ancora più ragione di radicarsi, sviluppando in pienezza quello che è stato definito il suo «classismo evangelico». Quello che, alla fine, gli farà dire di aver voluto più bene a quei ragazzi che a Dio, sperando però che Lui «abbia scritto tutto al suo conto».

È a Barbiana che raccoglie e pubblica le Esperienze Pastorali fatte a Calenzano, e da Barbiana uscirà l’altro testo fondamentale (non firmato, perché opera di tutta la scuola attraverso il metodo della scrittura collettiva) Lettera a una professoressa.[4]

Ed è nella «repubblica di Barbiana» che si sviluppano e si affinano ulteriormente sia la metodologia pedagogica, sia la finalizzazione dello studio.

I ragazzi arrivano in canonica dalle case poderali sparse sui fianchi del Monte Giovi per ricevere dal priore parola, cultura, dignità, consapevolezza dei propri diritti e doveri, conoscenze tecniche, linguistiche, storiche, geografiche, astronomiche, artistiche, musicali… (per alcuni, come nel caso di due fratelli orfani, assumerà, a pieno titolo, il ruolo di padre). Una cosa che colpisce i ragazzi, e più ancora i loro genitori, è che don Lorenzo fa scuola in quella che era la stanza del salotto buono, dove il parroco precedente riceveva solo le persone importanti. L’ex signorino ora è libero di spalancare ai poveri il salotto buono!

Diventa chiaro ed esplicito che a quella scuola non si va solo a imparare per sé e a coltivare i propri interessi, ma «per cercare il sapere solo per usarlo a servizio del prossimo, per es. dedicarci da grandi all’insegnamento, alla politica, al sindacato, all’apostolato… e ci si schiera sempre dalla parte dei più deboli: africani, asiatici, meridionali, italiani, operai, contadini, montanari…».

Per fare tutto questo, bisogna saper comunicare, per cui le lingue sono la materia principale, l’italiano e le lingue straniere; lo scopo è che tutti i poveri del mondo si intendano e comunichino tra loro, così che non ci siano più «né oppressori, né patrie, né guerre»[5] (i ragazzi di Barbiana ai ragazzi di Piadena, la scuola di Mario Lodi). E, a parte i ragazzi alle prime armi, tutti quelli che hanno progredito nell’apprendere diventano i maestri dei loro compagni più piccoli: la cultura non si tiene per sé!

Se, nel lavoro a Calenzano, don Milani ha puntato a dare agli alunni strumenti anche immediati per la difesa dei diritti e l’impegno sociale e civile, a Barbiana guarda più in profondità e più lontano. Però senza perdere il contatto col quotidiano, anche se da un angolo di mondo più defilato.

Tutti i giorni si leggono i giornali, e poi non mancano occasioni per stimolare i ragazzi all’impegno pratico, conseguente a ciò che studiano, e all’atteggiamento costante di conoscere la realtà e incidere su di essa.

Emblematica è la vicenda del ponte di Luciano, un ragazzo che, ogni giorno, arriva a Barbiana dopo un’ora e mezza di cammino nel bosco, dovendo superare un torrente attraverso una passerella precaria, che un bel giorno d’inverno si capovolge e Luciano arriva a Barbiana semiassiderato. Il priore provoca i ragazzi a rivendicare almeno il diritto a un ponte, mentre i loro coetanei del comune di Vicchio hanno i pulmini, la mensa e il riscaldamento.

E così, dopo aver invitato a Barbiana alcuni sindacalisti per farsi spiegare come condurre una rivendicazione, i ragazzi si organizzano e vanno a manifestare in paese, in giorno di mercato per non passare inosservati. E ottengono dal sindaco la costruzione di una passerella sicura, con i genitori che collaborano con gli operai inviati dal comune.

L’intensa cura dei ragazzi di Barbiana non distoglie don Lorenzo da una fitta serie di contatti con i quali il suo modo di intendere i poveri e la povertà è contagioso per molti. Faccio ricorso a un episodio e a una lettera.

L’episodio

Ogni anno, portava i ragazzi di Barbiana perché facessero esperienze e incontri significativi; una volta, la meta è Milano dove don Milani tiene contatti significativi con due famiglie dell’alta borghesia cattolica ambrosiana, i Brambilla e gli Ichino.

I ragazzi – che andranno a visitare la Pirelli e la Siemens e ad assistere a un’opera alla Scala – sono ospiti in casa Ichino ed è interessante il racconto che il piccolo Pietro Ichino ne fa: «Mi sentivo coinvolto totalmente nel gruppo degli allievi di don Lorenzo, ambivo a essere considerato come uno di loro… don Lorenzo si era proposto l’obiettivo di rovesciare nei suoi ragazzi poveri e montanari il senso di inferiorità nei confronti dei ragazzi borghesi di città… far sì che fossi io a provare un senso di inferiorità nei loro confronti… Che in quella compagnia di montanari poveri io fossi il figlio degli avvocati, il privilegiato… per quanto io mi fossi sforzato di omologarmi a loro, non potevo scrollarmelo di dosso».

Del momento in cui si avvicina la partenza, mentre i ragazzi, don Lorenzo e la famiglia ospitante sono tutti riuniti nel soggiorno della loro bella casa, Pietro Ichino ha ancora vivo questo ricordo: «Don Lorenzo, facendo un gesto circolare per indicare tutto quel benessere, mi disse: “Per tutto questo non sei ancora in colpa; ma dai ventun anni (l’età nella quale allora si diventava maggiorenni), se non restituisci tutto, incomincia a essere peccato”».[6]

E così Pietro Ichino, dopo la laurea in giurisprudenza e la tesi in diritto del lavoro, anziché iniziare la professione nel prestigioso studio paterno, va a fare l’avvocato dei metalmeccanici della CGIL e della CISL dell’hinterland milanese.

La lettera

Don Lorenzo scrive a Simona (nome cambiato) nel giorno del matrimonio con Serafino, un medico che, caso rarissimo, non viene da una famiglia benestante ma è cresciuto alla «Madonnina del Grappa» di don Facibeni.

Stralci della lettera: «…vedrai che, in questo mondo infelice, ricchezza e istruzione viaggiano sempre a braccetto. Chi è più istruito guadagna più quattrini, chi ha più quattrini fa più studiare i suoi figlioli. … Ogni giorno amici, colleghi, giornali, libri congiureranno per corrompere il tuo Serafino. Farne un dottore come tutti, farne un animale simile a loro… Non farti dare del tu dalle spose dei dottori, dei maestri, dei farmacisti del tuo paese… Spia ciò che leggono e come vivono, ma solo per essere sicura… di non vivere mai come vivono loro. Quando le cose vi andranno un po’ per il verso e comincerà a esserci qualche soldo d’avanzo, non sognare elettrodomestici per la tua casa. Pensa piuttosto ad attrezzare un ambulatorio ricco di tutto ciò che può alleviare ai poveri spese e sofferenze… Spero che mi avrai capito. Che farai che la tua casa sia povera e benedetta dai poveri e Dio penserà a tutto il resto. Se i poveri saranno con te, anche Lui sarà con te e se Lui sarà con te di cosa hai paura? Hai avuto stamani la benedizione del Padre… cercati ora la benedizione dei poveri».[7]

Preti e povertà

Molti preti, almeno al tempo di don Milani, in molte parti d’Italia erano di estrazione popolare, soprattutto da famiglie contadine o comunque di condizioni economiche modeste.

Raccontava un vecchio parroco che l’idea iniziale di andare in seminario gli venne vedendo che il suo parroco aveva le scarpe di cuoio, mentre suo padre e molti altri uomini del paese avevano gli zoccoli di legno. Poi, in seminario, aveva capito che la vocazione era altro, però quell’idea delle scarpe se la portava dietro…

In un modo o in un altro, diventare preti voleva dire per alcuni (o per parecchi?) avanzare nella scala sociale, accedere a livelli di istruzione impossibili per molti dei propri coetanei. E, diventati parroci, condurre una vita abbastanza agiata, sicuramente al di sopra della media.

Certamente, per il “convertito” Lorenzo Milani non fu così, il suo diventare prete lo visse facendo suo, in certa misura, quello che Paolo afferma di Gesù nella lettera ai Filippesi: «non ritenne la sua condizione un privilegio… ma spogliò sé stesso».

E fin dagli inizi, a San Donato di Calenzano, lo manifestava con sobrietà e austerità quasi maniacali rifiutando ogni ancorché minimo privilegio, viaggiando su una bicicletta sgangherata, dichiarando che avrebbe avuto un’automobile solo quando l’avessero avuta tutti i suoi parrocchiani…

Veramente, oltre a difendere i poveri e battersi per il loro riscatto, aveva sposato la povertà.

Un altro grande prete toscano, di una decina d’anni più vecchio di lui, don Arturo Paoli, era assai critico sul fatto che la Chiesa, mentre chiede ai suoi ministri l’impegno del celibato e la promessa di obbedienza, per la povertà lasci ciascuno libero di comportarsi come meglio crede… anche di essere ricco.

E così, senza la scelta della povertà, c’è il rischio di vivere gli altri due obblighi come tasse da pagare per far parte di un club di privilegiati. Per don Lorenzo è stato davvero – come dichiara ai suoi ragazzi sul letto di morte – «il cammello passato per la cruna dell’ago».

La testimonianza di don Bensi

«La sua capacità di annullarsi fra i poveri, fra i ragazzi e fra la gente senza nome e senza importanza. A lui è sempre bastato amare, sino alla fine, pochi ragazzi: non ha mai preteso di amare l’umanità, e lo ha scritto chiaro tante volte.

Ricordo un giorno che capitai a Barbiana senza preavviso, verso sera, quand’era già attaccato dal cancro. Lo trovai, come al solito, nella stanza che serviva da scuola. Era steso nel buio su un pagliericcio. Accanto aveva una donna, la vecchia scema del paese, e i ragazzi meno intelligenti. Erano lì tutti in silenzio, con gli occhi fissi su di me, come se stessero assaporando sino in fondo la loro sofferenza, la loro solitudine, la loro sconfitta umana. E lui era uno di loro, non diverso, non migliore: ed era già condannato a morte. Mi vennero i brividi.

Capii allora, più che in qualunque altro momento, il prezzo della sua vocazione, l’abisso del suo amore per quelli che aveva scelto e che lo avevano accettato. L’uomo che sapeva tante lingue, in grado di parlare di teologia, di filosofia, d’arte, di letteratura, d’astrologia, di matematica, di politica come pochi altri, lì, nel buio di quella stanza, accanto a quei “mostri”, fu per me, e rimane, l’immagine più eroica del cristiano e del sacerdote».[8]

La povertà, allora e ora

Faccio riferimento a due recenti articoli sul «il Tirreno» di Alessandro Volpi, docente di scienze politiche all’Università di Pisa: «Il sistema finanziario genera ricchezza sempre ai soliti noti» (13.2.24) e «Il paradiso dei super ricchi costruito con l’assenso della politica italiana» (20.2.24). Cito soltanto un dato tra i diversi presentati: poche migliaia di famiglie detengono il 35% della ricchezza italiana e il 50% di tale ricchezza è di natura finanziaria, su cui tali famiglie non pagano pressoché imposte.

E abbiamo tutti ben presenti i dati sulla crescita della povertà – non solo relativa, ma anche assoluta – periodicamente forniti sia dalla Banca d’Italia, sia dai rapporti di Caritas italiana e di molte Caritas diocesane. In particolare, quei dati secondo cui, se è povero un italiano su 10, lo è quasi un minore su 7; che tra le principali cause di caduta in povertà c’è la mancanza di casa e di lavoro; che un quarto delle famiglie con tre o più figli è sotto la linea della povertà.

Mi faccio una domanda: come reagirebbe oggi a tutto questo don Lorenzo? Forse citerebbe il Salmo 49: «l’uomo nella prosperità non comprende, è come le bestie che muoiono». Perché quei ragazzi, che egli voleva far diventare da bestie uomini e da uomini santi, di nuovo rischiano di essere condannati a rimanere bestie.

Don Lorenzo Milani muore nel 1967. La Caritas italiana viene costituita dalla CEI, per ferma volontà di Paolo VI, nel 1972, «in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica» (art. 1 dello Statuto).

Ripercorrere la vita del prete fiorentino e le scelte qualificanti del suo ministero, sempre schierato dalla parte degli ultimi, fa di lui il profeta di un compito che pochi anni dopo tutta la Chiesa italiana avrebbe assunto, dando vita a questo suo organismo pastorale.


[1] F. Borghini, Lorenzo Milani. Gli anni del privilegio, Il Grandevetro / Jaca Book 2004

[2] Don Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, Libreria Editrice Fiorentina.

[3] L’obbedienza non è più una virtù, documenti del processo di don Milani, Libreria Editrice Fiorentina.

[4] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina.

[5] Lettere di don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, San Paolo.

[6] Pietro Ichino, La casa nella pineta, Giunti 2018.

[7] Lettere

[8] Nazareno Fabretti, Don Mazzolari, Don Milani. I disobbedienti, Bompiani 1972.

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Fonte: Caritas Reggio Emilia

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A conclusione dell’Anno della Misericordia il papa ha avuto l’intuizione di lanciare a tutto il mondo la Giornata mondiale dei poveri. Non un’ulteriore iniziativa, ma una provocazione alla Chiesa per dare voce ai poveri

diacono

Francesco non esita a dire a Gesù: «in questo nostro mondo, che tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato» (Omelia durante il momento di preghiera straordinario in Piazza San Pietro il 27 marzo 2020). Pertanto una missione quella dei cristiani a «collaborare per risolvere le cause strumentali della povertà e per promuovere lo sviluppo integrale dei poveri», come pure quella di «gesti semplici e quotidiani di solidarietà di fronte alle miserie molto concrete» che ogni giorno sono dinanzi ai nostri occhi (cfr EG 188). «Non amiamo a parole, ma con i fatti».

Il papa in un’omelia a santa Marta parla purtroppo della «spaccatura tra l’élite dei dirigenti religiosi e il popolo, un dramma che viene da lontano. È gente di seconda classe: noi siamo la classe dirigente, non dobbiamo sporcarci le mani con i poveri».

«I poveri li avete sempre con voi»
È il messaggio della V Giornata mondiale dei poveri: Gesù pronunciò queste parole nel contesto di un pranzo, a Betania, nella casa di un certo Simone detto «il lebbroso», alcuni giorni prima della Pasqua. Come racconta l’evangelista, una donna era entrata con un vaso di alabastro pieno di profumo molto prezioso e l’aveva versato sul capo di Gesù. Quel gesto suscitò grande stupore e diede adito a due diverse interpretazioni.

Servire con efficacia i poveri provoca all’azione, mette in gioco l’identità e la missione dei diaconi che è il servizio ai poveri con l’amore di Cristo. In questo l’icona della scelta dei «servitori alle mense» (At 6) serve da archetipo. Non si tratta solo di generosità e beneficienza verso i poveri. Ma di familiarità e solidarietà con loro, come ripete papa Francesco: «spesso i poveri sono considerati come persone separate, come una categoria che richiede un particolare servizio caritativo. Seguire Gesù comporta, in proposito, un cambiamento di mentalità, cioè di accogliere la sfida della condivisione e della partecipazione» (n. 4).

Il tema della povertà della Chiesa si pone al centro del Concilio Vaticano II e del magistero postconciliare dei pontefici. Una Chiesa ricca, distratta rispetto ai poveri o che se ne serve per conquistare il mondo, vela l’Evangelo, impedisce agli uomini di riconoscere la via della Croce, da cui viene la salvezza per ogni uomo. Ma cosa significa tutto questo nell’essere concreto della Chiesa nella storia? Guardando a quello che è avvenuto, in questi anni che ci separano dalla chiusura del Concilio, si ha l’impressione che, se è cresciuto in modo molto forte l’impegno di servizio a favore dei poveri, dalla parte dei poveri, deve accrescere sempre di più l’approfondimento del mistero di una Chiesa povera.

Non si tratta di inventare niente di nuovo, di trovare nuove formule pastorali, ma di attingere sempre alla sorgente piena e viva del mistero di Cristo, per la forza dello Spirito Santo. Come diceva in un suo intervento il card. Lercaro, il 4 novembre del 1964, in Concilio: «Sono le parole evangeliche, che sanciscono il modo più vero ed efficace con cui la Chiesa è presente al mondo e a tutto il mondo: cioè il modo del martyrion, cioè la testimonianza nel senso dell’attestazione pura e semplice del Vangelo e della coscienza evangelica in faccia a tutte le genti, ai loro principi e capi; presenza che è specialmente la diaconia, cioè il di tutti, di essere inviato soprattutto per i piccoli, gli umili, i poveri, per quelli ai quali si dà senza sperarne nulla (Lc 6.34-35), senza poterne ricavare un aumento di potere; presenza che è l’essere finalmente inviata a tutte le genti senza che mai possa considerarsi stabilita e compiuta in una gente, in una rana, in una cultura, in una lingua».

Secondo questo brano, vivere il mistero di una Chiesa serva e povera dentro la storia significa innanzi tutto dare testimonianza (martyrion) dell’Evangelo, nella sua semplicità, senza alcun altro sostegno che non sia la forza inerme della Parola di Dio, non sovrapponendo parole proprie, ma quasi scomparendo dietro la buona notizia di Gesù, con passione, senza timidezza né arroganza, di fronte ad ogni uomo, ai popoli, a chi domina e a chi è dominato, dentro i conflitti. Appare allora una Chiesa, che non privilegia una parte del mondo, che non si identifica in una cultura, che non ha nemici, ma in un amore senza limite, annuncia e consegna a tutti e ai poveri, prima di tutto la Parola della salvezza, ponendo il segno scandaloso della comunione con la testimonianza (martyria) di Cristo, il testimone fedele (Ap 1,5).

Dalle celebri affermazioni conciliari (si veda LG 8; GS 8-9), dalla lapidaria espressione di Paolo VI, «i poveri sono sacramen­to di Cristo», quanta acqua è passata sotto i ponti! Insomma, – scrive Francesco – i credenti, quando vogliono vedere di persona Gesù e toccarlo con mano, sanno dove rivolgersi: i poveri sono sacramento di Cristo, rappresentano la sua persona e rinviano a Lui» (n. 3). Forse tra le scelte conciliari, quella per i poveri fu la più drammatica e la più costosa. Definirsi dentro l’Occidente opu­lento come Chiesa dei poveri che sceglie i poveri come suo sa­cramento, significava candidare al martirio molti cristiani, distanziarsi da una storia troppo abbondantemente segnata dalle esigenze di profitto e mercato, farsi antagonista di quanti sullo sfruttamento e l’ingiustizia fondano anche oggi la loro egemonia. Scrive Francesco nel Messaggio: «se non si sceglie di diventare poveri di ricchezze effimere, di potere mondano e di vanagloria, non si sarà mai in grado di donare la vita per amore; si vivrà un’esistenza frammentaria, piena di buoni propositi ma inefficace per trasformare il mondo» (n. 5).

In verità col Vaticano II la Chiesa non imbarcò molti poveri nella barca di Pietro. Ma da lì, preso il largo, approdò a Medellin, a Puebla, in Africa, nell’immensa Asia, nelle aree degradate delle metropoli, fra tutti i forzati della storia. Questa recente storia di Chiesa non è stata rinnegata. Ma l’onda lunga si è come smorzata, che si fa fatica a proseguirla, che si è tentati fortemente di restaurare il primato della verità sulla carità, per trovare un buon motivo che mutili un po’ la diakonia ecclesiale e privilegi un tranquillo kerigma di principio. Se giocasse la paura e la voglia di quieto vivere, se insomma ci si riscoprisse amanti della propria tranquillità, dei propri privilegi, alleati del “pensiero unico” e del Nuovo Ordine Mondiale pensato dai ricchi e per i ricchi, dove mai raggiungeremmo Dio?». Per questo, per papa Francesco, «si impone un differente approccio alla povertà. È una sfida che i Governi e le Istituzioni mondiali hanno bisogno di recepire con un lungimirante modello sociale, capace di andare incontro alle nuove forme di povertà che investono il mondo e che segneranno in maniera decisiva i prossimi decenni» (n. 7).

Allora bisogna trovare le forme più adeguate per risollevare e promuovere questa parte di umanità troppe volte anonima e afona, ma con impresso in sé il volto del Salvatore che chiede aiuto. Servizio, che non è generato da una strategia pastorale ma da una chiara indicazione del Signore, che ha posto l’evangelizzazione dei poveri come segno messianico per eccellenza. Non solo ma «i poveri di ogni condizione e ogni latitudine ci evangelizzano, perché permettono di riscoprire in modo sempre nuovo i tratti più genuini del volto del Padre» (n. 2).

La diaconia, pertanto, è prima di tutto al Signore e al suo Vangelo e per questo è capace di ascoltare il grido dei poveri, di accompagnarli nel loro cammino di liberazione. Solo una Chiesa serva e povera può cercare l’ultimo posto nella storia, a misura del suo Signore, che si è fatto servo, diacono, per tutti, per vivere nella compagnia degli abbandonati della terra, per testimoniare la consola­zione di quel Dio, che in «gesti» non solo si è posto dalla parte dei poveri, ma egli stesso si è fatto povero, perché nessuno fosse escluso dalla salvezza.

Il ministero del diacono per l’edificazione di una Chiesa serva e povera
«Rimane aperto l’interrogativo per nulla ovvio: come è possibile dare una risposta tangibile ai milioni di poveri che spesso trovano come riscontro solo l’indifferenza quando non il fastidio?» (n. 6)

Vale la pena ricordare il paragrafo 29 della Lumen Gentiun che afferma la scelta del Concilio Vaticano Il della restaurazione del diaconato nella forma perma­nente. È da notare che proprio la collocazione del ministero diaconale nella Lumen Gentium, nel capitolo sulla costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare dell’episcopato, sta ad indicare non una scelta di carattere pastorale o disciplinare, ma teologico, collocandolo dentro la struttura sacramentale della Chiesa. Il card. Suenens in un intervento di particolare rilievo nel dibattito conciliare, così spiega: «Questo grado (il diaconato) appare costituito in modo particolare ad ausilio diretto del vescovo e più precisamente per funzioni collegate con l’assistenza dei poveri con il buon andamento sociale, con la preparazione per così dire comunitaria e liturgica della Chiesa locale: presenta quindi un rapporto specifico con tutto quello che riguarda ad un tempo la carità tra i fratelli e la koinonia eucaristica, che sono in stretto rapporto di interdipendenza. Diaconia, nel senso particolare di questo ministero, è dunque in strettissimo rapporto con koinonia, sia sotto l’aspetto sociale dello scambio fraterno dei beni materiali e spirituali sia sotto l’aspetto della comunione eucaristica nella fractio panis (At 2,42 e 4,32-35; Eb 13.16)».

Il ministero del diacono è qui visto in rapporto alla comunione con l’evento eucaristico e con i poveri, in un servizio di preparazione della comunità cristiana «a mangiare degnamente» del Corpo del Signore, come fonte della carità verso i deboli e come celebrazione di questa carità. Ma il suo ministero è a servizio del vescovo, servendo l’Eucaristia e i poveri, preparando la Chiesa locale ad essere serva del Risorto e serva dei fratelli, in particolare i più abbandonati e i più esclusi. Secondo una espressione della Chiesa antica, ripresa dal Concilio, al diacono sono imposte le mani «non per il sacerdozio, ma per il ministero» del vescovo. Questo ministero è manifestazione e realizzazione efficace della diaconia di Cristo. Dice Ignazio di Antiochia, scrivendo ai cristiani di Magnesia: «vi scongiuro compite tutte le vostre azioni in questo spirito di concordia, che piace a Dio, sotto la presidenza del vescovo, che tiene il posto di Dio, dei presbiteri, che rappresentano il senato degli apostoli, dei diaconi, oggetto della mia parti­colare predilezione, della diaconia di Gesù Cristo, che era presso il Padre, prima dei secoli, e che si è rivelato alla fine dei tempi».

Nell’essere servo dell’Eucaristia e servo dei poveri, il diacono rende visibile il servizio di Cristo, che nel pane spezzato e nel vino versato «ha dato la propria vita in riscatto di molti» (Mc 10, 45), annunciando così la buona notizia ai poveri della terra, manifestando l’agàpe di Dio (1Gv 4, 7-1 1), che genera l’amore senza limiti verso i fratelli. Per questo c’è una grazia particolarissima da Dio, come dice la formula dell’ordinazione diaconale nella Traditio apostolica di Ippolito: «O Dio, che tutto hai creato e ordinato con la Parola, o Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che hai mandato a servire la tua volontà e a manifestarci il tuo proposito, concedi lo Spirito santo della grazia, dello zelo e della diligenza a questo tuo servo, che hai scelto per servire la tua Chiesa e per offrire, nella santità nel tuo santuario, quanto sarà offerto dall’erede del sommo sacerdozio».

Questo significa superare ogni prospettiva funzionalistica: non si tratta di affidare al diacono mansioni marginali alla loro diaconia, ma di riconoscere il ministero, sigillandolo con la grazia sacramentale, che dà all’azione del diacono un’efficacia ed una grazia, creatrice di un ordine comunitario. Seguendo altre suggestioni, come ha ricordato Suenens in Concilio, «la Chiesa rischia di ridursi ad una organizzazione naturale e rischia di non essere il corpo mistico di Cristo, articolato nei ministeri e nelle grazie da lui preordinate a questo fine».

In realtà l’edificazione di una Chiesa serva e povera, proprio perché questo rimanda in modo diretto e preciso al ministero di Gesù, servo povero e sofferente del Padre, non avviene attraverso opzioni sociologiche e pastorali, legate esigenze immediate della vita della Chiesa, ma dall’alto, perché il Signore dona ad essa, attraverso la Parola e l’Eucaristia, la forza dello Spirito Santo, per essere somigliantissima a Gesù, che «da ricco che era si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà» (2Cor 8,9), «assumendo la condizione di servo (…) obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fl 2, 7-8). In questa edificazione «dall’alto» di una Chiesa serva e povera, il diacono, con il suo ministero, «rappresenta» Cristo servo povero di Dio. Per il sigillo sacramentale, la verità evangelica del servizio di Gesù è resa presente e operante nel diacono. Tra il diacono e la sua Chiesa locale si crea un dinamismo di mutua inclusione: nel diacono è rappresentata la diaconia di Cristo, che è misura della diaconi a della Chiesa, e il diacono opera perché la Chiesa sia edificata secondo questa diaconia, per essere fedele alla volontà del suo Signore. Rappresentando Cristo servo, il diacono è il segno di Lui, che è misteriosamente presente nella «forma del servo» nella sua Chiesa come fonte di grazia, perché la Chiesa diventi quello che è costitutivamente nel suo ministero: la comunità dei discepoli servi e poveri del Signore.

L’occhio della Chiesa sui poveri
La radice cristologica dell’ufficio diaconale è profondissima. Ciò appare, d’altronde, esemplarmente anche nell’attività e nella morte di santo Stefano, che è non a caso protomartire e protodiacono. Qui risiede il nocciolo permanente dell’«ufficio» del ministero diaconale.

Penso, per esempio, all’interessamento per gli stranieri e i senza patria, le persone sole e i poveri, gli anziani e i malati, ma anche alla collaborazio­ne al movimento delle case di riposo. Infine, vi sono molte altre necessità delle quali oggi poco si parla, a cominciare dal consumo della droga e dalla dipendenza dal­l’alcool fino alla mancanza di orientamento, alla demotiva­zione e alla disperazione. Anche quando il diacono assume altri compiti, come quelli che sono stati espressi dal Conci­lio, non può mai mancare questo nocciolo centrale e privilegiato del suo compito. Esso rappresenta anche un interesse fondamentale di ogni vescovo. Karl Rahner scriveva: «A mio avviso, il vescovo ha l’espresso dovere di rendere presente nel mondo l’amore di Cristo nei riguardi di tutti i sofferenti, i poveri e i deboli, i perseguitati, ecc. Ora a questo compito assolutamente prioritario del vescovo il diacono non partecipa meno di qualsiasi altro sacerdote».

Forse sarà necessario prendere in considera­zione tutte le questioni che oggi dobbiamo affrontare e alle quali dobbiamo dare un’attenta risposta. Penso, ad esempio, alla questione dei pieni poteri direttivi dei diaconi nei riguardi delle comunità alla rappresentanza dei diaconi nei consigli a tutti i livelli, alla necessità di fissare un diritto proprio dei diaconi per quanto attiene all’esercizio del loro ministero, alla formazione e al discernimento e, in particolare, al rapporto fra il dia­conato e gli altri ministeri pastorali.

Il ministero del diacono: Parola, Eucaristia, Poveri
Il diacono dunque prepara ed edifica una Chiesa secondo la diaconia di Cristo. Dalla Pentecoste alla Parusia del Signore, la Chiesa di Dio è chiamata a dimorare nella terra in stato di diaconia. Pietro così riassume il ministero diaconale di Gesù: «Dio consacrò in Spirito santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tuffi coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (Atti 10, 38). È certo, dunque, che due sono le forme primordiali della diaconia dell’Evangelo: il servizio dei poveri, dei piccoli, degli afflitti, dei peccatori, e il servizio della Parola. Questi due servizi sono attestati nel capitolo 7 degli Atti (7, 2 e 4) e certamente si richiamano l’uno all’altro, nella misura in cui sono due momenti dell’unico ministero diaconale di Gesù. Per la forza dello Spirito santo la diaconia del Signore Gesù passa in quella della comunità ecclesiale. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone l’apostolo Paolo quando esorta i cristiani delle sue comunità a soccorrere i poveri della prima comunità di Gerusalemme e a farlo «non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). «Non si tratta di alleggerire la nostra coscienza facendo qualche elemosina, ma piuttosto di contrastare la cultura dell’indifferenza e dell’ingiustizia con cui ci si pone nei confronti dei poveri» (n. 7). La comunione di Gesù all’amore del Padre per i poveri, per i feriti dalla storia, per i peccatori passa nella diaconia della Chiesa al cuore dei conflitti tra gli uomini.

L’Eucaristia è ciò che costituisce al cuore della Chiesa il dinamismo di questa doppia diaconia.

Nicolas Afanassieff, noto teologo ortodosso, sottolinea fortemente questo: «Là dove vi era una assemblea eucaristica doveva esistere il ministero del servizio ai poveri. La vita della Chiesa è basata sull’amore, che si esprime nella maniera più completa nell’assemblea eucaristica, manifestazione della Chiesa in tutta la sua pienezza. L’Amore è il carisma comune di tutto il popolo di Dio e senza di esso non ci può essere alcun ministero nella Chiesa. Nella Chiesa primitiva, non c’era della beneficenza a titolo privato, se non in maniera molto limitata. Invece di questo, ogni membro della Chiesa portava il suo dono dell’Amore all’assemblea eucaristica. Questi doni costituivano «i tesori dell’Amore», da cui si prendeva il necessario per gli aiuti. Il ministero del servizio ai poveri appare molto presto nella chiesa: più esattamente appare nel medesimo tempo della prima assemblea eucaristica. Qualunque sia la soluzione, che si vuole dare al problema dei sette, è indubitabile che l’aiuto ai poveri fa parte del loro ministero».

Appare con chiarezza che l’edificazione di una Chiesa serva e povera avviene nell’Eucaristia, e non vi può essere una Chiesa eucaristica che non sia serva di Dio nei poveri. «I poveri – scrive Francesco – non sono persone “esterne” alla comunità, ma fratelli e sorelle con cui condividere la sofferenza, per alleviare il loro disagio e l’emarginazione, perché venga loro restituita la dignità perduta e assicurata l’inclusione sociale necessaria. D’altronde, si sa che un gesto di beneficenza presuppone un benefattore e un beneficato, mentre la condivisione genera fratellanza. L’elemosina, è occasionale; la condivisione invece è duratura. La prima rischia di gratificare chi la compie e di umiliare chi la riceve; la seconda rafforza la solidarietà e pone le premesse necessarie per raggiungere la giustizia» (n. 3). Il ministero del diacono, nel suo servizio, si pone a questa congiunzione.

Da Giustino noi sappiamo che la sinassi eucaristica è il momento in cui «si leggono le memorie degli apostoli e gli scritti dei profeti e finita la lettura colui che presiede prende la parola per avvertire ed esortare ai buoni insegnamenti» (cap. 1,7). Ma è anche il momento in cui «coloro che sono nell’abbondanza danno liberamente, ciascuno secondo ciò che vuole, ciò che è raccolto è rimesso nelle mani di colui che presiede, perché assimila gli orfani, le vedove, i malati, gli indigenti, i prigionieri, gli stranieri, in una parola egli porta aiuto a coloro che sono nel bisogno» (Ap 1,7). Le due forme della diaconia sono inseparabili. Ma questa unione nasce dal fatto che la Parola spinge alla carità. Il ministero del diacono allora non può non essere un ministero legato alla Parola, all’Eucaristia, alla carità, in un equilibrio dinamico secondo lo Spirito tra i tre momenti, pena il rischio di cadute sociologiche e ritualistiche. La Chiesa serva e povera è del Signore e dal Signore è consegnata agli uomini per essere segno e strumento della sua misericordia e della sua tenerezza per tutti, e in particolare per i piccoli. Il diacono è ministro per l’edificazione e la compaginazione di questa Chiesa, rendendo efficacemente presente il servizio scandaloso di Cristo fino alla morte.

In un antico ordinamento ecclesiale Siro del terzo secolo sono descritti un venta­glio di disponibilità affidate al diacono, e tutto questo senza limiti. I compiti spaziano dalla scoperta e sepoltura del corpo di un naufrago alla testimonianza sulla fedeltà e onestà di una donna violentata. Nel testo ricorre poi la bella espressione secondo cui il diacono deve «essere in tutto come l’occhio della Chiesa».

L’espressione si riferisce non all’occhio di un guardiano, ma piuttosto alla sensibile percezione della sofferenza e del bisogno resa possibile da un’autentica prossimità e soli­darietà fraterna. Così l’occhio del diacono allarga continuamente l’orizzonte della Chiesa, fiuta la sofferenza e i bisogni negli angoli più nascosti della comunità e ai suoi confini. Ovunque nella realtà delle nostre comunità vi sono zone oscure e zone luminose. La funzione edificatrice della comunità propria del diacono consiste non da ultimo nel fatto di scorgere la sofferenza e il bisogno e, per quanto possibile, di portare ovunque concretamente, e rendere visibile, agli uomini la misericordia di Gesù Cristo. La sua particolare responsabilità per i viandanti e gli stranieri, nonché i senza patria, rende presenti alla comunità dei bisogni assolutamente attuali. Il papa conclude il messaggio ricordandoci «che i poveri sono in mezzo noi. Come sarebbe evangelico se potessimo dire con tutta verità: anche noi siamo poveri, perché solo così riusciremmo a riconoscerli realmente e farli diventare parte della nostra vita e strumento di salvezza» (n.9).
Settimana News 

In Perù, la Giuria Nazionale delle Elezioni ha infine approvato, il 19 luglio, i risultati della competizione che il 6 giugno, al secondo turno (il primo era stato l’11 aprile), ha fatto confluire su Pedro Castillo oltre 44mila voti in più rispetto alla sua avversaria, candidata della destra, Keiko Fujimori. I ricorsi di quest’ultima che gridava alla frode elettorale sono stati tutti analizzati e respinti. La proclamazione è avvenuta solo una decina di giorni prima del cambio presidenziale previsto per il 28 luglio, giorno in cui il Perù celebrerà 200 anni di indipendenza. Castillo succede quindi a Francisco Sagasti che era stato nominato presidente ad interim dal Parlamento nel novembre del 2020.

Castillo eredita un Paese messo in ginocchio dalla pandemia e dalle diseguaglianze, dove tre persone su 10 vivono in condizioni di povertà e oltre il 70% dei lavoratori appartiene al mercato informale, nonostante la sua economia sia stata considerata un “miracolo economico” per via della sua rapida crescita negli ultimi due decenni e una gestione prudente delle finanze pubbliche che le ha consentito di mantenere l’equilibrio fiscale e di attrarre investimenti.

La vittoria di Castillo, presentatosi come politico di sinistra, alimenta il timore dei poteri forti, malgrado abbia moderato assai i suoi discorsi rispetto a quando, sconosciuto maestro ci campagna, che difendeva i postulati di un sedicente partito marxista-leninista. A fine giugno ha dichiarato: «Non siamo chavisti, non siamo comunisti, non porteremo via le loro proprietà a nessuno, ciò che è stato detto è totalmente falso, è sigillato: siamo democratici, rispettiamo il governo e le istituzioni peruviane».

Secondo la BBC-Mundo (20/7), sono due le mosse che potrebbero tranquillizzare il clima di incertezza sul futuro economico del Paese: la nomina di Pedro Francke, un uomo che gode di rispetto negli ambienti imprenditoriali e accademici, come suo principale assistente economico; e la conferma di Julio Velaverde alla presidenza della Banca Central, incarico che ricopre da molti da anni, per garantirne l’indipendenza.

Il piano per risollevare le sorti del Perù pensato da Castillo è ormai noto come “economia popolare con mercati”, una via di mezzo fra l’esperienza di Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Equador, un “evocorreismo”. Intervistato da BBC-Mundo, Francke spiega che si tratta di «un modello di libera azione delle imprese private, come abbiamo avuto fino ad ora, ma con una maggiore componente redistributiva da parte dello Stato», perché «dobbiamo ridistribuire la ricchezza, in particolare quella mineraria». I fondi delle politiche di redistribuzione della ricchezza saranno destinati a un aumento della spesa sociale per la salute e per l’istruzione e a un maggiore sostegno ai microimprenditori in città e nelle campagne.

«C’è paura – ha ammesso – per quella che potremmo chiamare quell’altra sinistra, una sinistra che ha una proposta più statalista nello stile di Cuba o Venezuela, con una molteplicità di controlli sui prezzi, un’economia fortemente pianificata, un’enorme presenza statale», ma «non è quello che vogliamo».

«Castillo – dice sempre alla BBC-Mundo Sinecio López, sociologo e docente alla Pontificia Università Cattolica del Perú e alla Nazionale Università di San Marco – si è reso conto che deve governare per l’intero Paese e il suo attuale team tecnico rappresenta una sinistra moderna, non una sinistra primitiva».

Ciò non toglie che molti investitori e uomini d’affari siano preoccupati e, dato che una delle maggiori fonti di reddito del Paese proviene dal settore minerario, c’è chi teme nazionalizzazioni nel settore. Castillo ha anche detto che intende rinegoziare i contratti con le società transnazionali che operano nel Paese in modo che l’80% dei profitti rimanga in Perù e il resto rimanga nelle mani delle imprese. Insomma, dopo il 28 luglio si saprà qualcosa di più, chi rimarrà soddisfatto e chi deluso.

adista