Il Vangelo. A Nazaret il sogno di un mondo nuovo

III Domenica
Tempo ordinario – Anno C

[…] In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me» […]

Tutti gli occhi erano fissi su di lui. Sembrano più attenti alla persona che legge che non alla parola proclamata. Sono curiosi, lo conoscono bene quel giovane, appena ritornato a casa, nel villaggio dov’era cresciuto nutrito, come pane buono, dalle parole di Isaia che ora proclama: «Parole così antiche e così amate, così pregate e così agognate, così vicine e così lontane. Annuncio di un anno di grazia, di cui Gesù soffia le note negli inferi dell’umanità» (R. Virgili). Gesù davanti a quella piccolissima comunità presenta il suo sogno di un mondo nuovo. E sono solo parole di speranza per chi è stanco, o è vittima, o non ce la fa più: sono venuto a incoraggiare, a portare buone notizie, a liberare, a ridare vista. Testo fondamentale e bellissimo, che non racconta più “come” Gesù è nato, ma “perché” è nato. Che ridà forza per lottare, apre il cielo alle vie della speranza. Poveri, ciechi, oppressi, prigionieri: questi sono i nomi dell’uomo. Adamo è diventato così, per questo Dio diventa Adamo. E lo scopo che persegue non è quello di essere finalmente adorato e obbedito da questi figli distratti, meschini e splendidi che noi siamo. Dio non pone come fine della storia se stesso o i propri diritti, ma uomini e donne dal cuore libero e forte. E guariti, e con occhi nuovi che vedono lontano e nel profondo. E che la nostra storia non produca più poveri e prigionieri. Gesù non si interroga se quel prigioniero sia buono o cattivo; a lui non importa se il cieco sia onesto o peccatore, se il lebbroso meriti o no la guarigione. C’è buio e dolore e tanto basta per far piaga nel cuore di Dio. Solo così la grazia è grazia e non calcolo o merito. Impensabili nel suo Regno frasi come: «È colpevole, deve marcire in galera». Il programma di Nazaret ci mette di fronte a uno dei paradossi del Vangelo. Il catechismo che abbiamo mandato a memoria diceva: «Siamo stati creati per conoscere, amare, servire Dio in questa vita e poi goderlo nell’eternità». Ma nel suo primo annuncio Gesù dice altro: non è l’uomo che esiste per Dio ma è Dio che esiste per l’uomo. C’è una commozione da brividi nel poter pensare: Dio esiste per me, io sono lo scopo della sua esistenza. Il nostro è un Dio che ama per primo, ama in perdita, ama senza contare, di amore unilaterale. La buona notizia di Gesù è un Dio sempre in favore dell’uomo e mai contro l’uomo, che lo mette al centro, che dimentica se stesso per me, e schiera la sua potenza di liberazione contro tutte le oppressioni esterne, contro tutte le chiusure interne, perché la storia diventi totalmente “altra” da quello che è. E ogni uomo sia finalmente promosso a uomo e la vita fiorisca in tutte le sue forme.
(Letture: Neemia 8,2-4.5-6.8-10; Salmo 18; 1 Corinzi 12,12-30; Luca 1,1-4; 4,14-21)

Vangelo della domenica. Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù (Gv 2,1-11)

(a cura Redazione “Il sismografo”)

“In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.
Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.

Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.”
Parola del Signore
Commento di mons. Pierbattista Pizzaballa
L’evangelista Giovanni è molto attento a rileggere l’esperienza di Gesù a partire dal Libro della Genesi.
Come Genesi, infatti, Giovanni inizia il suo racconto con l’espressione “in principio”; e come Genesi raccoglie questo principio nel racconto di una settimana, scandita giorno dopo giorno.
È come dire che è in atto una nuova creazione: come Dio aveva creato il mondo e l’uomo in sei giorni, -dopo di che, il settimo giorno, si era riposato-, così Gesù ora ricrea l’uomo e la realtà, fa rivivere tutto il creato e lo riporta alla sua bellezza originaria, lo riporta al suo vero principio, cioè al Padre.
Il brano che abbiamo ascoltato oggi (Gv 2,1-11) inizia proprio con un’annotazione temporale: “Il terzo giorno vi fu una festa di nozze…” (Gv 2,1). Giovanni aveva raccontato i primi tre giorni trascorsi da Gesù in Galilea, dove si era creato intorno a Lui il primo nucleo di discepoli (Gv 1,19-51). Da lì, insieme a loro, era partito per la Galilea dove, il terzo giorno, aveva partecipato a questa festa di nozze.
Bisogna fermarsi un po’ su queste annotazioni: è il sesto giorno, ovvero quello della creazione dell’uomo; ma Giovanni ci tiene a precisare che è anche il terzo dall’arrivo in Galilea, e questo tre rimanda al grande giorno dell’alleanza secondo quanto è riportato al capitolo 19 del Libro dell’Esodo (Es 19,1; 19,16): il terzo giorno Dio si rivela al popolo in una grande teofania, e dona ad Israele le dieci parole (i dieci comandamenti) che saranno alla base della loro relazione, della loro alleanza.
Cosa vuol dire l’evangelista Giovanni esplicitando questi richiami nell’episodio delle nozze di Cana? Quale nuova creazione è in atto, quale gloria (Gv 2,11) Gesù rivela ai suoi?
In realtà, l’interrogativo è d’obbligo perché a Cana sembra non accadere nulla di veramente eclatante.
Gesù è ad una festa di nozze, e manca il vino (Gv 2,3): certo è un problema, ma non si può dire che sia un evento drammatico, una questione di vita o di morte.
Invece questo miracolo è così importante che Giovanni sottolinea che con esso Gesù dà inizio a tutti gli altri suoi segni, che con esso manifesta la sua gloria e che grazie ad esso i suoi discepoli credono in Lui (Gv 2,11).
A Cana non accade nulla di eclatante se non che un evento ordinario di vita viene ritenuto da Gesù così importante da operare il suo primo miracolo.
E lo fa con uno spreco inaudito, perché la semplice gioia di due sposi vale questo spreco, questo sovrappiù di amore e di dono. Ecco l’uomo nuovo che Gesù crea: l’uomo che Dio ama in eccesso, a cui Dio rivela questo amore, questa parola.
E i discepoli sono chiamati a credere proprio a questo, a vedere la gloria di Dio che si rivela non più come sul monte Sinai tra lampi e tuoni, ma nella gioia ritrovata di due sposi.
Ma qual è la condizione perché questo possa accadere?
Mi sembra che nel testo possiamo scorgerne almeno due.
La prima è già preannunciata in Esodo 19, quando, all’annuncio della venuta del Signore, il popolo aveva esclamato: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!” (Es 19, 8). E così, proprio nello stesso modo, avviene a Cana, dove Maria dice ai servi: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela” (Gv 2,5).
La condizione perché il nuovo popolo dei credenti possa ricevere il vino buono della nuova alleanza è quello di “fare la Parola”, ovvero di fidarsi totalmente della Parola del Signore, di quella Parola che dal principio dice il suo amore per noi, il suo desiderio di avere con noi una relazione sponsale, intima, unica.
Dove ci porterà questa obbedienza amorosa?
L’evangelista Giovanni dice che questa obbedienza ci porta a Betania. Lì, infatti, al capitolo 12, c’è l’episodio speculare a questo delle nozze di Cana. È il primo giorno dell’ultima settimana vissuta da Gesù (Gv 12,1), e lì una donna dice il suo amore per Lui ungendolo con un’essenza di puro nardo.
Le nozze, allora, iniziano a Cana, ma si compiono a Betania, dove la sposa risponde all’amore del suo Signore con lo stesso suo stile di abbondanza, di spreco, di dono.
La seconda condizione, anche questa indicataci dalla Madre del Signore, è quella di chiedere a Lui, e non ad altri, il vino (Gv 2,3). Maria, giustamente, non rivolge la sua domanda al maestro di tavola, né a nessun altro, perché sa bene che nessuno può più donare il vino che manca.
C’è, nel cuore dell’uomo, una mancanza radicale di vita e di amore; e questa nuova abbondanza di vita scaturirà per tutti dalla sorgente che si aprirà dal costato di Cristo, il terzo giorno, dove sarà chiaro che la gloria del Signore sarà il suo averci amati fino alla fine.
+Pierbattista

Il Vangelo Domenica 20 Gennaio 2019. Cana, i nostri cuori come anfore da riempire

da Avvenire- di Ermes Ronchi

II Domenica
Tempo ordinario – Anno C

In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». […]

C’è una festa grande, in una casa di Cana di Galilea: le porte sono aperte, come si usa, il cortile è pieno di gente, gli invitati sembrano non bastare mai alla voglia della giovane coppia di condividere la festa, in quella notte di fiaccole accese, di canti e di balli. C’è accoglienza cordiale perfino per tutta la variopinta carovana che si era messa a seguire Gesù, salendo dai villaggi del lago. Il Vangelo di Cana coglie Gesù nelle trame festose di un pranzo nuziale, in mezzo alla gente, mentre canta, ride, balla, mangia e beve, lontano dai nostri falsi ascetismi. Non nel deserto, non nel Sinai, non sul monte Sion, Dio si è fatto trovare a tavola. La bella notizia è che Dio si allea con la gioia delle sue creature, con il vitale e semplice piacere di esistere e di amare: Cana è il suo atto di fede nell’amore umano. Lui crede nell’amore, lo benedice, lo sostiene. Ci crede al punto di farne il caposaldo, il luogo originario e privilegiato della sua evangelizzazione. Gesù inizia a raccontare la fede come si racconterebbe una storia d’amore, una storia che ha sempre fame di eternità e di assoluto. Il cuore, secondo un detto antico, è la porta degli dei. Anche Maria partecipa alla festa, conversa, mangia, ride, gusta il vino, danza, ma insieme osserva ciò che accade attorno a lei. Il suo osservare attento e discreto le permette di vedere ciò che nessuno vede e cioè che il vino è terminato, punto di svolta del racconto: (le feste di nozze nell’Antico Testamento duravano in media sette giorni, cfr. Tb 11,20, ma anche di più). Non è il pane che viene a mancare, non il necessario alla vita, ma il vino, che non è indispensabile, un di più inutile a tutto, eccetto che alla festa o alla qualità della vita. Ma il vino è, in tutta la Bibbia, il simbolo dell’amore felice tra uomo e donna, tra uomo e Dio. Felice e sempre minacciato. Non hanno più vino, esperienza che tutti abbiamo fatto, quando ci assalgono mille dubbi, e gli amori sono senza gioia, le case senza festa, la fede senza slancio. Maria indica la strada: qualunque cosa vi dica, fatela. Fate ciò che dice, fate il suo Vangelo, rendetelo gesto e corpo, sangue e carne. E si riempiranno le anfore vuote del cuore. E si trasformerà la vita, da vuota a piena, da spenta a felice. Più Vangelo è uguale a più vita. Più Dio equivale a più io. Il Dio in cui credo è il Dio delle nozze di Cana, il Dio della festa, del gioioso amore danzante; un Dio felice che sta dalla parte del vino migliore, del profumo di nardo prezioso, che sta dalla parte della gioia, che soccorre i poveri di pane e i poveri di amore. Un Dio felice, che si prende cura dell’umile e potente piacere di vivere. Anche credere in Dio è una festa, anche l’incontro con Dio genera vita, porta fioriture di coraggio, una primavera ripetuta.
(Letture: Isaia 62,1-5; Salmo 95; 1 Corinzi 12,4-11; Giovanni 2,1-11)

Dio racchiude il grande nel piccolo, l’eternità nell’attimo. Commento al Vangelo Domenica 17 Giugno 2018

XI Domenica
Tempo ordinario Anno B

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra (…)».

Gesù, narratore di parabole, sceglie sempre parole di casa, di orto, di lago, di strada: parole di tutti i giorni, dirette e immediate, laiche. Racconta storie di vita e le fa diventare storie di Dio, e così raggiunge tutti e porta tutti alla scuola delle piante, della senape, del filo d’erba, perché le leggi dello spirito e le leggi profonde della natura coincidono; quelle che reggono il Regno di Dio e quelle che alimentano la vita dei viventi sono le stesse. Reale e spirituale coincidono.

Accade nel Regno ciò che accade nella vita profonda di ogni essere. C’è una sconosciuta e divina potenza che è all’opera, instancabile, che non dipende da te, che non devi forzare ma attendere con fiducia. Gesù ha questa bellissima visione del mondo, della terra, dell’uomo, al tempo stesso immagine di Dio, della Parola e del regno:
tutto è in cammino, un fiume di vita che scorre e non sta fermo. Tutto il mondo è incamminato, con il suo ritmo misterioso, verso la fioritura e la fruttificazione. Il paradigma della pienezza regge la nostra fede. Mietiture fiduciose, abbondanti. Gioia del raccolto. Sogni di pane e di pace. Positività.
Il
terreno produce da sé, per energia e armonia proprie: è nella natura della natura di essere dono, di essere crescita. È nella natura di Dio. E anche dell’uomo. Dio agisce in modo positivo, fiducioso, solare; non per sottrazione, mai, ma sempre per addizione, aggiunta, incremento di vita. Con l’atteggiamento determinante della fiducia!
Il terreno produce spontaneamente. Non fa sforzo alcuno il seme, nessuna fatica per il terreno, la lucerna non deve sforzarsi per dare luce se è accesa; il sale non fa sforzo alcuno per dare sapore ai piatti. Dare è nella loro natura. È la legge della vita: per star bene anche l’uomo deve dare. Quando è maturo infine il frutto si dà, si consegna, espressione inusuale e bellissima, che riporta il verbo stesso con cui Gesù si consegna alla sua passione. E ricorda che l’uomo è maturo quando, come effetto di una vita esatta e armoniosa, è pronto a donarsi, a consegnarsi, a diventare anche lui pezzo di pane buono per la fame di qualcuno. Nelle parabole, il Regno di Dio è presentato come un contrasto: non uno scontro apocalittico, bensì un contrasto di crescita, di vita. Dio viene come un contrasto vitale, come una dinamica che si insedia al centro, un salire, un evolvere, sempre verso più vita. Quando Dio entra in gioco, tutto entra in una dinamica di crescita, anche se parte da semi microscopici:

Dio ama racchiudere
il grande nel piccolo:
l’universo nell’atomo
l’albero nel seme
l’uomo nell’embrione
la farfalla nel bruco
l’eternità nell’attimo
l’amore in un cuore
se stesso in noi.
(Letture: Ezechiele 17, 22-24; Salmo 91; 2 Corinzi 5,6-10; Matteo 4, 26-34).

di Ermes Ronchi – Avvenire

I fedeli in Piazza San Pietro: un cristiano non può non perdonare

Decine di migliaia i fedeli arrivati da ogni parte del mondo, che in questa Domenica della Divina Misericordia, hanno partecipato con gioia e raccoglimento alla Messa presieduta dal Papa in Piazza San Pietro.

R. – La misericordia è importante, perché è sentirsi perdonati, è sentirsi accolti dalla Chiesa, dai fratelli, da chi ti vuole bene. E’ cercare di andare verso l’altro, uscire da noi stessi per accogliere il prossimo, che magari ci sembra meno vicino.

R. – La misericordia si trasmette perdonando, avendo pazienza, sopportando tante volte noi stessi e gli altri.

R. – Io vengo dall’Iraq e per noi la speranza della misericordia è molto, molto importante, specialmente in questo momento. Perché senza speranza, senza questa misericordia di Dio, non possiamo vivere. Ogni giorno viviamo nel pericolo e senza questa misericordia non ci sarebbe niente! Giorno per giorno noi viviamo veramente nelle mani di Dio: per questo continuiamo a vivere così, nonostante tutta la nostra difficile situazione.

D. – Nel tuo Paese, purtroppo, i cristiani sono perseguitati: in che modo si può perdonare?

R. – Possiamo solo perdonare, perché siamo cristiani! Non possiamo vivere senza perdonarci gli uni gli altri. Sì, è vero che siamo perseguitati, ma possiamo solo vivere nell’amore; e coloro che ci fanno male, possiamo solo perdonarli. Non possiamo fare nient’altro: possiamo fare solo così, perché siamo cristiani! Viviamo nell’amore di Dio e non possiamo fare altro…

D. – In questo momento si usa molto la parola misericordia, ma è davvero capita questa parola o è, forse, un po’ abusata?

R. – Forse molto spesso è abusata: è usata, ma non viene compresa. Andrebbe maggiormente interiorizzata e soprattutto messa in pratica, avvicinandosi agli altri con spirito più sincero e senza pregiudizi.

D. – Il Papa ci ha invitato a diventare buoni samaritani della misericordia. In che modo rispondere a questa sua esortazione?

R. – Secondo me significa entrare in empatia con il prossimo.

R. – L’unica cosa che possiamo usare è la misericordia. Quando diciamo misericordia vogliamo dire che uno ha bisogno di essere amato.

R. – Vuol dire che noi dobbiamo essere vicini agli altri, aiutare gli altri, coloro che hanno più bisogno di noi, che soffrono, che sono più poveri di noi. Noi abbiamo questo dovere: essere vicini a loro, aiutarli ad uscire dalla povertà.

R. – Buoni samaritani anche quando ci sembra più difficile andare incontro al prossimo, abbandonare i nostri pregiudizi e quindi saper caricare la nostra croce e anche quella degli altri.

Radio Vaticana