Una donna guiderà la Cassazione, Csm indica Cassano

 © ANSA

– Margherita Cassano sarà la prima donna nella storia italiana a guidare la Corte di Cassazione. La sua nomina è stata proposta oggi all’unanimità dalla Commissione per gli incarichi direttivi del Csm.
Il voto finale è stato fissato per il primo marzo in una seduta di plenum presieduta dal capo dello Stato. Attualmente presidente aggiunto della Cassazione, Cassano succederà a Pietro Curzio, che sta per andare in pensione.
La proposta di nominare Cassano è stata avanzata dal relatore,il togato indipendente Andrea Mirenda. I concorrenti erano solo due: oltre a Cassano aveva presentato domanda Giorgio Fidelbo, presidente di sezione in Cassazione. I due candidati sono stati ascoltati in una lunga audizione, prima che la Commissione si esprimesse con il voto.
Cassano aveva già stabilito un altro “record” nella sua carriera: era stata la prima donna ad accedere ai vertici della Suprema Corte. Fiorentina di origine lucana, 67 anni, è in magistratura dal 1980. Ha iniziato alla procura della Repubblica di Firenze, dove si è occupata anche di questioni relative alle tossicodipendenze e al traffico di droga, temi che ha continuato a seguire in tutta la sua carriera. A Firenze lavorò con assiduità col procuratore Pier Luigi Vigna. Dal 1982 è stata componente del gruppo specializzato nelle indagini in materia di stupefacenti e di criminalità organizzata. Dal 1991 al 1998 è stata assegnata della Dda di Firenze. Esponente di Magistratura Indipendente è stata consigliere del Csm dal 1998 per quattro anni. Poi dal 2003 è stata in Corte di Cassazione anche in veste di presidente della prima sezione penale dove si è occupata di reati di omicidio e violenze. Dal 2016 ha presieduto la Corte d’appello di Firenze dove è rimasta circa quattro anni. (ANSA).

Società e diritti «Il crocifisso a scuola non discrimina Gli è legata la tradizione di un popolo»

Esporre il crocifisso nelle scuole non è una condotta discriminatoria. Lo ha stabilito la Suprema Corte, che nella sua composizione più autorevole – le Sezioni Unite – con la sentenza 24414/2021 pubblicata ieri mattina ha chiarito definitivamente che il maggiore simbolo del cristianesimo può rimanere nelle aule. Basta che a volerlo sia «la comunità scolastica», la quale può anche decidere di accompagnarlo «con i simboli di altre confessioni presenti in classe – così si esprime il comunicato stampa diffuso dalla Cassazione – e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi». La questione non è solo religiosa. Per la Corte infatti al crocifisso «si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo». Per questo, a maggior ragione, la sua affissione «non costituisce un atto di discriminazione del docente dissenziente per causa di religione». Sotto il profilo prettamente giuridico, gli ermellini – come vengono chiamati i giudici della più alta corte italiana, per via della toga nelle occasioni più formali – ricordano innanzitutto come un regolamento degli anni Venti, mai abrogato, avesse imposto la presenza del crocifisso nelle aule. «Ogni istituto – si legge in quel testo – ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del crocifisso e il ritratto del Re». È vero, allora il cattolicesimo era ‘religione di Stato’. Ma la Suprema Corte nella sentenza di ieri ha chiarito che la norma di un secolo fa è suscettibile di essere interpretata oggi in senso conforme alla Costituzione. In parole povere: se la scuola nelle sue varie componenti lo vuole, il crocifisso può e deve restare, perché «il venir meno dell’obbligo di esposizione – si legge in sentenza – non si traduce automaticamente nel suo contrario, e cioè in un divieto di presenza del crocifisso nelle aule scolastiche ». Attenzione: se l’istituto, studenti compresi, decide di tenerlo, nessuno può toglierlo a piacere, come invece aveva fatto il docente da cui era scaturito il caso giudiziario.

Con la pronuncia di ieri, sotto il profilo tecnico-giuridico, le Sezioni Uni- te hanno dato risposta alle questioni contenute nella cosiddetta ‘ordinanza di rimessione’, quella cioè in cui una singola sezione della Suprema Corte – nel nostro caso la sezione lavoro –, ritenendo che la questione a essa sottoposta sia molto controversa e di particolare importanza, chiede che sia decisa in composizione plenaria. L’anno scorso, nel devolvere la vicenda alle Sezioni Unite, la Cassazione aveva preso le mosse da una sentenza pronunciata nel 2011 dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu): il crocifisso, avevano scritto i giudici di Strasburgo, è «un simbolo essenzialmente passivo», per cui «dalla sua sola esposizione […] non deriva la violazione del principio di neutralità dello Stato ». Ciò premesso, la sezione lavoro della Suprema Corte riteneva che il caso su cui ha poi deciso fosse un poco diverso: a contestare il simbolo cristiano non era uno studente ma un professore. Non dunque un utente del servizio, ma un educatore. E proprio per questo, temeva la Corte, «l’esposizione del simbolo» avrebbe rischiato di attribuire «uno stretto collegamento tra la funzione esercitata e i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama». Le Sezioni Unite, però, hanno sgombrato il campo da questo timore. D’altronde, già nel 2006, il Consiglio di Stato aveva visto nel crocifisso «un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento di valori civili (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti…)» che «delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato». La sentenza di ieri precisa che «la laicità italiana non è ‘neutralizzante’: non nega le peculiarità e le identità di ogni credo e non persegue un obiettivo di tendenziale e progressiva irrilevanza del sentire religioso, destinato a rimanere nell’intimità della coscienza dell’individuo». Ciò anche per via del fatto che «il principio di laicità – spiega la pronuncia – non nega né misconosce il contributo che i valori religiosi possono apportare alla crescita della società». Secondo la sentenza, dunque, esporre il crocifisso a scuola non è (più) un obbligo di legge, ma se le singole classi rappresentate dai loro organismi ritengono di farlo, la presenza del simbolo non può più essere tolta a piacere. Se non, ovviamente, con una successiva delibera.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Cassazione, in aula crocifisso se comunità scuola d’accordo. Eventualmente con altri simboli fedi e cercando intesa tra tutti

 © ANSA

– L’ aula di una classe “può accogliere la presenza del crocifisso quando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, eventualmente accompagnandolo con i simboli di altre confessioni presenti nella classe e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi”. E’ quanto ha stabilito la corte di Cassazione (sentenza n.

24414, pubblicata oggi) che a Sezioni Unite, si è occupata dell’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche.
In particolare, la questione esaminata dalla Cassazione riguardava la compatibilità tra l’ordine di esposizione del crocifisso, impartito dal dirigente scolastico di un istituto professionale statale sulla base di una delibera assunta a maggioranza dall’assemblea di classe degli studenti, e la libertà di coscienza in materia religiosa del docente che desiderava fare le sue lezioni senza il simbolo religioso appeso alla parete. La Corte ha affermato che la disposizione del regolamento degli anni Venti del secolo scorso – che tuttora disciplina la materia, mancando una legge del Parlamento – è suscettibile di essere interpretata in senso conforme alla Costituzione. “L’aula può accogliere la presenza del crocifisso quando la comunità scolastica interessata – spiega la Cassazione – valuti e decida in autonomia di esporlo, eventualmente accompagnandolo con i simboli di altre confessioni presenti nella classe e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi”. (ANSA).