94 anni fa la storica firma dei Patti Lateranensi

L'allora cardinale Segretario di Stato Pietro Gasparri e Benito Mussolini, primo ministro italiano, firmano i Patti Lateranensi

L’11 febbraio del 1929, al Palazzo del Laterano, venivano siglati gli accordi che regolano ancora oggi i rapporti fra Italia e Santa Sede.
L’Osservatore Romano

La celebrazione dei Patti Lateranensi, nell’anniversario della loro sottoscrizione, non costituisce solamente l’occasione per serbare memoria storica di un avvenimento che ha rappresentato una svolta nelle relazioni tra lo Stato e la Chiesa in Italia. Sollecita anche una riflessione sull’assetto istituzionale delineato dai Patti nel 1929 e sulla evoluzione e attualità di quel modello. La qualificazione di quell’evento come Conciliazione, termine adottato successivamente per denominare la via che apre senza alcuna barriera la città di Roma verso la basilica di San Pietro e la Città del Vaticano, sottolinea che con il Trattato Lateranense e con il Concordato è stato definitivamente superato e sanato il dissidio tra lo Stato nazionale e la Santa Sede, dando una soluzione concordata alla Questione romana, sorta con l’annessione di Roma al Regno d’Italia. Ne è derivato un assetto radicato nel diritto internazionale e idoneo a fornire alla Santa Sede le garanzie di “assoluta e visibile indipendenza” necessarie, come enuncia il Trattato, “per l’adempimento della Sua alta missione nel mondo”. Queste finalità sono alla base della costituzione e del riconoscimento dello “Stato della Città del Vaticano sotto la Sovranità del Sommo Pontefice”, unitamente alle altre garanzie e immunità personali e reali che il Trattato lateranense assicura. “Una minuscola sovranità temporale, quasi più simbolica che effettiva, Ci qualifica (…) liberi e indipendenti”, dirà Paolo VI nella storica visita in Campidoglio del 16 marzo 1966, la prima di un Papa dopo Pio IX. Alla costituzione dello Stato della Città del Vaticano ed alla sovranità territoriale si unisce il riconoscimento, anch’esso dichiarato nel Trattato, della “sovranità della Santa Sede in campo internazionale come attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione ed alle esigenze della sua missione nel mondo”.

Il contesto storico
Il contesto istituzionale delineato dal Trattato Lateranense ha contribuito a rafforzare, nel tempo, la presenza della Santa Sede in ambito internazionale, preservandone e rendendone manifesta l’indipendenza, agevolando i rapporti con gli Stati, anche a sostegno delle Chiese locali, e ne ha consentito l’indiscussa presenza in Organizzazioni e conferenze internazionali, con la finalità di adempiere in ogni contesto la sua missione di evangelizzazione, con una autorevolezza e un ascolto rafforzati dall’assenza di interessi temporali. Il Concordato Lateranense, qualificato nel suo preambolo come “necessario completamento del Trattato” e “inteso a regolare la condizione della Religione e della Chiesa in Italia”, è piuttosto legato alla situazione del tempo ed al contesto di uno Stato autoritario. Al riconoscimento delle libertà ecclesiastiche, quali il libero e pubblico esercizio del culto e della giurisdizione in materia ecclesiastica, e alla concessione di qualche privilegio si è accompagnato qualche cedimento a controlli dello Stato. Nel complesso il Concordato ha consentito di salvaguardare spazi di libertà in un regime a vocazione totalitaria, in particolare nella educazione dei giovani e per le associazioni cattoliche, nelle quali si è formata culturalmente una generazione destinata poi ad assumere un ruolo determinante nella costruzione e nella guida delle istituzioni democratiche.

La cornice dei Patti Lateranensi
La Costituzione repubblicana ha disancorato i Patti Lateranensi dal contesto politico e istituzionale nel quale erano stati stipulati e li ha innestati nel nuovo ordinamento democratico al più elevato livello delle fonti. Il riconoscimento della reciproca indipendenza e sovranità dello Stato e della Chiesa, nella distinzione dei rispettivi ordini, è la premessa e la cornice per l’affermazione che i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi, come pure per l’apertura alle modificazioni dei Patti che le Parti avessero convenuto. È singolare la consonanza non solo sostanziale tra la formula dell’articolo 7 della Costituzione italiana e il paragrafo 76 della Costituzione pastorale Gaudium et Spes, per il quale “la comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonomi l’uno dall’altra nel proprio campo”. Come pure l’affermazione, nello stesso paragrafo conciliare, che la Chiesa “non pone la sua speranza nei privilegi offerti dall’autorità civile”, prefigurando apertamente la rinuncia “all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti ove constasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o altre circostanze esigessero altre disposizioni”.

Revisione del Concordato
Su queste premesse si è aperto il percorso della revisione del Concordato mediante un nuovo Accordo tra le Parti, come prefigura e consente la Costituzione, per dare nuova sostanza alla reciproca collaborazione nel rispetto dell’indipendenza e sovranità dello Stato e della Chiesa nei rispettivi ordini. La sottoscrizione, nel 1984, dell’Accordo che apporta modificazioni al Concordato Lateranense, nella sostanza sostituendone pressoché integralmente il testo, delinea un nuovo assetto nelle relazioni tra lo Stato e la Chiesa. Il Protocollo che riforma la stratificata disciplina degli enti e beni ecclesiastici e del sostentamento del clero in servizio nelle diocesi, integra e concorre a comporre il quadro concordatario, e apporta profonde innovazioni in coerenza con i principi costituzionali e adeguate alla riforma postconciliare del codice di diritto canonico. Queste pur sommarie osservazioni mostrano la perdurante attualità dei Patti Lateranensi, nel loro contenuto stabile ed essenziale, per quanto riguarda il Trattato destinato ad assicurare l’assoluta indipendenza della Santa Sede nel contesto internazionale, nella capacità di adattamento mediante nuovi accordi rispondenti alle mutate situazioni; per quanto riguarda il Concordato, orientato a promuovere nelle relazioni tra Stato e Chiesa la “reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese”.

Gennaio con le Figlie di Gesù

Sabato 28 gennaio alle ore 16 nella Cattedrale di Reggio Emilia l’Arcivescovo Giacomo Morandi celebrerà la santa Messa, nell’occasione della Festa del Nome di Gesù, patrono della congregazione.

Anniversario. Charles Péguy, fede e realtà contro gli intellettualismi

Per lo scrittore francese, nato il 7 gennaio 1873 e approdato al cattolicesimo dal socialismo, la vita richiede «l’inserzione dell’eterno nel temporale»
Charles Péguy (1873-1914)

Charles Péguy (1873-1914) – archivio

avvenire.it

«La Speranza sola non risparmia nulla». Pur essendo stato un uomo dalla triplice fedeltà, a Dio, alla civiltà contadina e alla nazione, la Fede ricopre un primato, perché esito di un cammino. Essa è testimoniata da Charles Péguy, alla pari della Carità, «il primo movimento del cuore», non in maniera intellettualistica, ancorata com’è al corpo e alla realtà concreta. Ma entrambe perderebbero vigore se non fossero sorrette dalla Speranza, «una bambina da nulla/ che traverserà i mondi» e che «sola guiderà le Virtù», come annunciano i versi di Il Portico del mistero della seconda virtù (1910). Erede della cultura paysanne e campione di una religiosità popolare radicata nel cattolicesimo, lo scrittore e pensatore francese è, secondo Hans Urs von Balthasar, uno dei dodici cristiani essenziali dai tempi di Cristo. E il suo tortuoso cammino esistenziale, che finirà nel 1914 nelle trincee della Grande Guerra, va colto, per il teologo svizzero, in maniera «indivisibile. Esso lo è grazie a un radicarsi nel profondo, là dove mondo e Chiesa, mondo e grazia si incontrano e si compenetrano sino a essere inscindibili».

Dissidente nell’animo, a suo agio nella polemica e nel corpo a corpo, Péguy, sia nell’essere socialista, nazionalista o cattolico, è uno scrittore che risponde costantemente agli eventi e ama essere al centro della mischia. Le idee per lui sono carne e richiedono una pugna spiritualis, anche quando si allontana dalla Chiesa. Egli lotta contro la disincarnazione del mondo moderno, esito di quello spirito di sistema e di quella ragione rigida, che lui osteggiava per la sua «dura arroganza nei confronti della realtà, nell’insolenza verso ogni specie di realtà». «Il mondo moderno avvilisce – scriverà nelle Situations -. È la sua specialità… è il suo mestiere… Avvilisce la città, avvilisce l’uomo, avvilisce l’amore, avvilisce la donna, avvilisce la razza, avvilisce il bambino. Avvilisce la nazione; avvilisce la famiglia. È riuscito ad avvilire ciò che c’è forse di più difficile da avvilire, perché è qualcosa che ha in sé, nel suo tessuto, una sorta di particolare dignità, come un’incapacità di essere avvilita: esso avvilisce la morte».

Péguy nasce il 7 gennaio 1873, esattamente centocinquanta anni fa, a Orléans da una famiglia di piccoli artigiani. Rimasto orfano di padre, morto per le conseguenze dell’assedio di Parigi ai tempi della guerra franco-prussiana, è cresciuto dalla madre, riparatrice di sedie, e dalla nonna, ultima testimone di una Francia oramai sul punto di eclissarsi. Da loro imparerà l’“onore del lavoro”, che permetteva di «impagliare sedie esattamente con lo stesso spirito e lo stesso cuore, e con la stessa mano con cui questo medesimo popolo aveva tagliato le sue cattedrali» scriverà in Il denaro (1913). Alla tradizione paysanne e alla sua terra natale rimarrà sempre legato, non solo perché aveva regalato a Giovanna d’Arco la sua prima vittoria militare, ma anche perché aveva assicurato a lui quel radicamento nella concretezza della vita perso altrove. Anche a causa di quella scuola repubblicana, lontana dalla cultura contadina resa obbligatoria a partire dal 1880, che comunque gli consentirà di entrare addirittura all’École Normale Supérieure. Da questa istituzione di prestigio si dimise nel 1897, dopo l’adesione a un socialismo che sarà, secondo uno dei suoi primi biografi, «più il socialismo di san Francesco che non quello di Karl Marx». Allora Péguy comincerà a scrivere per “La Revue Socialiste” testi intrisi di utopismo, anche se sarà l’affaire Dreyfus a gettarlo davvero nell’arena. A questa battaglia politica e civile dedicherà La nostra giovinezza (1910), il capolavoro del dreyfusismo scritto in polemica con Daniel Halévy, in cui non esitò a mostrare come la vita richiedesse «l’inserzione dell’eterno nel temporale».

Nel 1900 aveva fondato i “Cahiers de la Quinzaine”, la tribuna da cui condusse le battaglie contro il mondo moderno. La redazione si trovava in rue de la Sorbonne 8, proprio di fronte alla venerabile istituzione, il suo nemico più potente, il difensore del pensiero sistematico che avvilisce la realtà, la casa del “partito degli intellettuali” che alla concretezza dell’esistenza preferisce l’astrattezza della ragione. Esposto per tutta la vita agli attacchi dei corifei del razionalismo scientifico e del positivismo, Péguy incontrerà nella filosofia dell’amico Henri Bergson una percorso che gli consentirà di respingere l’intellettualismo dei professori e dei politici di professione, assicurandogli sempre l’accesso alla realtà. In lui la “durata” del futuro premio Nobel diventa la profondità della storia e l’intuizione l’antidoto all’intellettualismo della sua generazione. In una parola, libertà. La stessa offerta dai “Cahiers” dove non è soggetto ai vincoli dell’editoria, né a quelli del giornalismo. Il periodico, che raggiungerà i 229 numeri, è l’opera della sua vita ma anche un’avventura collettiva. Il numero degli abbonati, che gli assicurerà il supporto economico, oscillerà tra 900 e 1200. Tra loro figureranno Raymond Poincaré, il capitano Dreyfus, Claude Debussy, Joseph Reinach, l’ex capo di gabinetto del presidente del consiglio Léon Gambetta. Per non parlare dei prestigiosi collaboratori, da Daniel Halévy a Julien Benda, da Romain Rolland a Georges Sorel.

Legato alla cultura popolana, la sola a rappresentare l’aristocrazia del mondo del lavoro, dalla tribuna del suo quindicinale, Péguy ingaggiava battaglia contro la mitologia del progresso, perché «la miseria dell’uomo moderno, la sua angoscia, è una delle più profonde che la storia abbia mai registrato», preda com’è del denaro facile e del degrado. Ai pochi testi utopici dell’inizio sono seguiti rapidamente le critiche al mondo moderno, che recano tracce della potente nostalgia per il vecchio mondo. Il suo non è però un requiem per una società cristiana e popolana, in via di disgregazione sotto il regime del denaro. Per essa occorre ancora combattere, essere miles Christi, ma non per salvare se stessi, ma per salvare anche gli altri. «Non si deve salvare la propria anima come si salva un tesoro – dirà in Il mistero della carità di Giovanna d’Arco -. La si deve salvare come si perde un tesoro. Con il buttarla via. Noi ci dobbiamo salvare insieme. Noi dobbiamo arrivare presso il buon Dio insieme. Che cosa direbbe se arrivassimo presso di lui, arrivassimo a casa senza gli altri».

Gli studi di prosperi e Bruno
«Charles Péguy, ci ha lasciato pagine stupende sulla speranza», ha assicurato di recente papa Francesco. E a guidare alla scoperta di questo aspetto del pensiero dello scrittore d’Oltralpe, di cui oggi ricorre il 150° anniversario della nascita, ora arriva in libreria Mistero dei misteri di Paolo Prosperi (Morcelliana, pagine 178, euro 16,00). L’autore apre un varco certo nel pensiero di Péguy per comprendere come la virtù della Speranza, che «vede quello che non è ancora e che sarà / ama quello che non è ancora e che sarà», costituisca l’architrave per la addentrarsi nel mistero della storia e di ogni singola esistenza umana. Ma per inquadrarne, nell’insieme, la biografia, le amicizie, lo stile e le sue battaglie in favore della vita vissuta e non dello spirito di sistema e dell’astrattezza così presenti nel mondo moderno, un ottimo portolano è Charles Péguy. Amico presente di Giorgio Bruno (Ares, pagine 256, euro 16,00).

Reggio Emilia, Giornata nazionale della Bandiera 7 Gennaio anniversario Tricolore

Nella mattinata del 7 gennaio, al 226° anniversario del primo Tricolore, inizieranno i festeggiamenti per la Giornata nazionale della Bandiera. Numerosi gli eventi che si susseguiranno tra lectio magistralis, alzabandiera e consegna delle Costituzioni. Parteciperanno, tra gli altri, il ministro Luca Ciriani e Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio

eggio Emilia festeggia, il 7 gennaio 2023, la Giornata nazionale della Bandiera e il 226° anniversario della nascita del Primo Tricolore con la partecipazione del ministro per i Rapporti con il Parlamento, onorevole Luca Ciriani, quale massimo rappresentante istituzionale.

Alla celebrazione interverrà, per la lectio magistralis al teatro Municipale ‘Valli’, anche il professor Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio.

Il programma della festa annuale del Tricolore – che celebra la nascita del vessillo avvenuta a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797 – prevede, subito dopo la sonata a distesa della Campana civica – alle ore 10 in piazza Prampolini la cerimonia di apertura delle Celebrazioni alla presenza del ministro Luca Ciriani, del sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi e delle altre autorità. Sono previsti gli Onori militari al ministro Ciriani, l’Alzabandiera e l’esecuzione dell’Inno nazionale.

Gli onori militari saranno resi da una Compagnia interforze composta da: Esercito – 87° Reparto comando Supporti tattici “Friuli”; Marina militare – Comando marittimo Nord-La Spezia; Aeronautica militare – 1^ Aerobrigata aerea Os; Arma dei Carabinieri – Legione Emilia-Romagna; Guardia di Finanza – Comando regionale Emilia-Romagna. Con il coordinamento dal Comando militare Esercito Emilia-Romagna. Sarà presente la Bandiera di Guerra del 87° Reparto comando Supporti tattici “Friuli”.

Sarà schierata, in abiti storici, anche la Guardia civica reggiana.

Alle ore 10.45, in Sala del Tricolore (ingresso a invito), intervento di saluto del sindaco Luca Vecchi e consegna della Costituzione italiana a delegazioni di Associazioni interculturali aderenti alla Fondazione Mondinsieme.

Alle ore 11.30, al Teatro Municipale Romolo Valli, gli interventi del sindaco Luca Vecchi, del presidente della Provincia Giorgio Zanni, del presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. Seguiranno la lectio magistralis del professor Andrea Riccardi fondatore della Comunità di Sant’Egidio e l’intervento conclusivo del ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani.

Al termine dell’incontro al teatro Municipale, l’esibizione della Fanfara della Scuola Marescialli e Brigadieri dei Carabinieri.

INIZIATIVE COLLEGATE – In occasione della festa del Tricolore a Reggio Emilia, la stessa Fanfara della Scuola Marescialli e Brigadieri dei Carabinieri si esibirà per le vie del centro storico già il 6 gennaio, con partenza alle ore 17.30 dal teatro Municipale Valli-piazza della Vittoria.

Il 7 gennaio, il Museo del Tricolore (piazza Casotti, 1) sarà aperto con orario continuato dalle ore 11.30 alle ore 18. Alle 11,30 e alle 16,30 (in questo caso su iniziativa del Lions Club Reggio Emilia Host Città del Tricolore – Distretto Lions 108Tb) è possibile partecipare a visite guidate.

Alle ore 15.30, allo stesso Museo del Tricolore: Tre colori per una bandiera, laboratorio per bambini dai 6 ai 12 anni.

Nel pomeriggio del 7 gennaio – alle ore 1515.30 e 16 – in Sala del Tricolore (piazza Prampolini, 1), si terrà la rievocazione storica: Napoleone e il Tricolore, la città italiana più matura per la libertà, a cura dell’Associazione per la ricostruzione storica Les Grognards de l’Armée d’Italie. Figuranti e attori dell’associazione rievocheranno l’encomio napoleonico ai rivoluzionari reggiani vittoriosi a Montechiarugolo, poi le sedute del Congresso cispadano per l’approvazione della Costituzione repubblicana e la proclamazione del Tricolore quale vessillo del nuovo Stato libero.

E alle ore 17.30, ancora nella Sala del Tricolore: concerto Armonie dalla patria della bandiera, omaggio alla memoria del professor Giovanni Marzi, con esibizione della Filarmonica Città del Tricolore (evento promosso da Lions Club Reggio Emilia Host Città del Tricolore).

Infine, l’8 gennaio alle ore 17, in Sala del Tricolore:Canti di Festa intorno al Tricolore.

Con il Coro di voci bianche dell’Associazione Parma Musicale; Asia Marcassa – voce, Roberto Barrali – pianoforte, Beniamina Carretta – direzione.

stampareggiana.it

In ricordo di don Bruno Morini a 24 anni dalla morte

Per ben ventidue anni, dal 1951 al 1973, don Bruno Morini  guidò la parrocchia cittadina di Santo Stefano. Il ventiquattresimo anniversario della sua morte, avvenuta a Montecchio il 15 dicembre 1998, sarà ricordato domenica 18 dicembre 2022 nella sua chiesa parrocchiale di Santo Stefano nella celebrazione eucaristica alle ore 10.00.

La lapide commemorativa in Santo Stefano Reggio Emilia

 

 

don Bruno con i chierichetti “storici” di Santo Stefano

Nato a Montecchio il 2 ottobre 1920, don Bruno fu ordinato sacerdote il 27 giugno 1943 dal vescovo Brettoni. Curato dapprima a Pianzo e poi a Minozzo dal 1943 al ’45, fu anche vicario sostituto e poi economo spirituale dal 1944 al 1945 a Poiano, di cui fu poi rettore fino al 1951.

In quell’anno fu nominato priore di Santo Stefano città, dove si distinse per numerose iniziative: dal ritrovo parrocchiale, all’istituzione del FAC – Fraterno Aiuto Cristiano – per l’aiuto alle famiglie in difficoltà, alla valorizzazione del Consiglio Pastorale, all’applicazione della riforma liturgica voluta dal Con cilio (foto 2).

Dopo ventidue anni di generoso servizio alla comunità parrocchiale di Santo Stefano, nel 1973 si era ritirato a, di cui divenne rettore; dal 1976 al 1993 è stato è stato  economo spirituale a Canossa; nel 1987 è stato nominato amministratore parrocchiale a Grassano. Nel 1998 venne nominato canonico onorario della Cattedrale.

Don Bruno ha rivestito un ruolo fondamentale nel Sinodo diocesano convocato dal Vescovo Gilberto Baroni; infatti dal 1978 al 1987 ne è stato l’infaticabile e propositivo segretario.

Don Morini aveva notevoli interessi culturali; è stato tra i soci fondatori della Società Reggiana di Archeologia e durante io suo parroccato  ha promosso accurate indagini sull’architettura di Santo Stefano, riscoprendo preziosi tracce dell’antica chiesa.

Il 16 dicembre 2007, i parrocchiani hanno voluto legare ad una targa marmorea la testimonianza della loro gratitudine e del loro affetto verso il parroco che ha fatto della fraternità una delle linee cardine del suo ministero. Si legge, infatti: Rese la parrocchia una famiglia fondata sull’amore, la solidarietà, la condivisione. (foto 3)

Ha scritte poesie raccolte in due pubblicazioni: “Voglio svegliare l’aurora” e Svegliatevi arpa e cetra”; e due libri di meditazioni su brani del Vangelo: “Se lo vedessi” e “Se lo sentissi”, titoli di chiara ispirazione manzoniana.

Profonda spiritualità, intensa vita di preghiera, lettura e meditazione costante della Parola di Dio, attenzione all’ascolto e al dialogo, contatto continuo con i parrocchiani soprattutto con i giovani, accoglienza e sorriso, capacità di consigliare, senso dell’amicizia sono state le doti che hanno sempre contraddistinto don Bruno, a cui tanti gli sono ancora debitori per la loro formazione umana e cristiana.

(notizie tratte da un articolo di gar)

Trent’anni dopo «Borsellino, la sua morte ci riguarda» L’anniversario divide ancora Palermo

Trent’anni di dolore, di ombre, di processi e di speranza. Trent’anni, da quel giorno che rivive, nel cuore di chi c’era, come in quello di chi è arrivato dopo, con le sue sequenze drammatiche in rapida successione. Ieri, alla vigilia dell’anniversario della morte di Paolo Borsellino, l’Agesci ha organizzato la manifestazione ‘Costruttori di memoria operante’. La notte di via D’Amelio è stata rischiarata da canti e preghiere, durante la Messa celebrata dall’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice. Ecco un passaggio del suo discorso a braccio: «Se vogliamo cogliere il senso di una ricorrenza come il trentennale delle stragi di Capaci e Via D’Amelio senza cadere nella retorica, dobbiamo intendere la memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come una provocazione che riguarda ognuno di noi da vicino e ci chiama a coinvolgerci in un progetto di liberazione individuale e collettiva. Parlando dei martiri della mafia, ho più volte ribadito l’esortazione a diventare loro ‘soci’, ovvero a credere con loro e come loro che l’amore è più forte della morte».

Erano le cinque di pomeriggio, meno qualche minuto, il 19 luglio 1992. Improvvisamente, Palermo venne scossa da un boato. Si sollevò una nuvola di fumo, visibile da tutti i punti di osservazione.

I palermitani furono subito turbati. Quasi due mesi prima avevano vissuto un trauma nazionale: il giudice Giovanni Falcone, sua moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e tre uomini della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani, assassinati in autostrada, all’altezza dello svincolo di Capaci, dal tritolo della mafia. Da quel tragico 23 maggio, gli occhi di tutti finirono sull’amico e ‘gemello’ di Falcone, l’uomo che ne aveva condiviso battaglie, successi e sconfitte. Si trattava del giudice Paolo Emanuele Borsel- lino, il magistrato che, nella percezione di molti, era più a rischio.

Le prime notizie offrirono lo scarno e drammatico resoconto di un attentato dinamitardo. «È stato coinvolto un magistrato» si disse. Non si disse ancora che il luogo dell’esplosione era via Mariano D’Amelio, una strada residenziale e tranquilla, oggi, a pochi passi dall’hub dei vaccini anti-Covid della Fiera del Mediterraneo. Passò un tempo angosciato, fino al tragico dispaccio che diede una forma compiuta alla strage. Paolo Borsellino era morto. Era al citofono, davanti al palazzo abitato dalla mamma, Maria Pia Lepanto, e dalla sorella, Rita, quando la bomba di Cosa nostra esplose. Con lui vennero spazzati via gli agenti della scorta: Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina. È sopravvissuto soltanto l’agente Antonio Vullo con le sue ferite, nel corpo e nell’anima.

Sarà proprio Vullo a rivivere, per sempre, gli ultimi istanti. Il giudice che scende dalla macchina, che si accende la sigaretta e che va incontro alla sua morte. A trent’anni di distanza, Toni Vullo racconta ancora, come se fosse ieri, con la stessa intensità: «Ho visto il giudice che suonava al citofono esterno del palazzo. Aveva una faccia contratta, era preoccupato. Erano giorni difficili. Poi, si è scatenato l’inferno».

Tanti gli appuntamenti in agenda anche oggi. Alla commemorazione sarà presente il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, che incontrerà le ragazze e i ragazzi che partecipano all’iniziativa ‘Coloriamo via d’Amelio’, organizzata dal Centro Studi Paolo e Rita Borsellino. Stamattina, alle dieci, il capo della polizia Lamberto Giannini deporrà una corona d’alloro all’interno dell’ufficio scorte della Questura; alle undici, in Cattedrale, la messa officiata dall’arcivescovo. In serata si svolgerà invece la tradizionale fiaccolata da piazza Vittorio Veneto in via D’Amelio organizzata dal Forum 19 luglio.

«Sono passati trenta lunghi anni senza verità – dice Salvatore Borsellino, fratello del giudice –. Sono stati celebrati numerosi processi ma ancora attendiamo di conoscere tutti in nomi di coloro che hanno voluto le stragi del ’92-93. Abbiamo chiaro che mani diverse hanno concorso con quelle di Cosa Nostra per commettere questi crimini ma chi conosce queste relazioni occulte resta vincolato al ricatto del silenzio. Ora chiediamo noi il silenzio. Silenzio alle passerelle. Silenzio alla politica».

L’ultima sentenza del tribunale di Caltanissetta, nel processo sul depistaggio, ha dichiarato prescritte le accuse a due poliziotti, assolvendo il terzo. Un pronunciamento che ha provocato la reazione di Maria Falcone, sorella di Giovanni: «Come sorella di Giovanni Falcone e come cittadina italiana, provo una forte amarezza perché ancora una volta ci è stata negata la verità piena su uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica».

«Uno Stato che non riesce a fare luce su questo delitto non ha possibilità di futuro. Dopo trent’anni di depistaggi e di tradimenti noi non ci rassegniamo e continueremo a batterci perché sia fatta verità sull’uccisione di nostro padre – ha detto, qualche settimana, fa Fiammetta Borsellino, indomita figlia del magistrato –. È per questo motivo che la mia famiglia ha deciso di disertare le cerimonie ufficiali sulle stragi del ’92, non a caso mia madre non volle funerali di Stato, proprio perché aveva capito…».

Diverse le domande ancora senza risposta. Che fine ha fatto l’agenda rossa, il diario su cui il giudice annotava le cose importanti? C’è il marchio insanguinato della mafia, ma è stata davvero solo Cosa nostra a organizzare la strage o ha potuto contare sul concorso di altre entità?

Punti interrogativi che rinnovano l’angoscia di tutti e il dolore di chi perse qualcuno che amava. Trent’anni dopo, come se fosse ieri.

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L’arcivescovo Corrado Lorefice: «Se vogliamo cogliere il senso di una ricorrenza senza cadere nella retorica, dobbiamo intendere la memoria come una provocazione che riguarda ognuno di noi da vicino e ci chiama a coinvolgerci in un progetto di liberazione»

Sopra: Salvatore Borsellino alza al cielo l’’agenda rossa’, riferimento a quella del fratello, sparita. In alto: una commemorazione.Sopra: via D’Amelio dopo la strage/ Ansa