Promuovere scelte di dialogo. i rifugiati possono essere con noi artigiani di pace

È stato chiesto a un gruppo di rifugiati accolti al Centro Astalli, che stanno seguendo un corso di intaglio del legno di realizzare un’istallazione con tale tecnica. Hanno deciso di creare un mondo, una cartina capovolta, diremo noi italiani, con l’Italia a testa in giù in un’Europa rovesciata.

Sarebbe troppo semplice intravedere in questa composizione quel mondo che sembra andare al contrario, dove i carnefici diventano vittime e le vittime vengono perseguitate, allontanate e trattate come carnefici; dove, senza alcuna vergogna e anzi con paternalistica benevolenza, i viaggi di disperati vengono chiamati «crociere» e vite precarie e irregolari una «pacchia». Ma in questo giugno in cui celebriamo la giornata mondiale del Rifugiato, questa realizzazione artigianale credo ci dica qualcosa di più significativo. A furia di guardare il mondo solo dalla nostra prospettiva, spesso sentendoci al centro, ci siamo dimenticati della sua rotondità. Ormai da tempo non siamo più al centro di un bel niente. Il centro economico si sta spostando e la denatalità influisce su questo decentramento. Tuttavia restiamo al centro per l’attenzione che ci riservano i migranti, che vedono ancora la nostra Europa come un desiderabile continente di libertà e di pace. Ma noi, altezzosi, quotidianamente li respingiamo e li trattiamo in modo arrogante o addirittura (sempre più spesso) disumano.

I rifugiati, con la loro presenza sempre più consistente (oltre 65 milioni di uomini e donne nel mondo), ci invitano ad ammettere che la realtà si può guardare da più prospettive, anche molto diverse da quelle che siamo soliti usare. Ci invitano a decentrarci, ci propongono di alzare lo sguardo e di provare a capire com’è il mondo e cosa vi accade, senza restare appiattiti nella nostra angusta realtà quotidiana.

Provare a leggere le nostre vite mettendole in relazione con le loro: vite altre, vite di altri, con un respiro più largo. A furia di non alzare lo sguardo, infatti, stiamo perdendo di vista i contorni delle questioni. Fermi alla difesa dei nostri confini, il quadro globale nella sua complessità ci sfugge del tutto.

Non si può vivere avendo paura per sempre. Tanto meno possiamo farci convincere di temere coloro che per primi hanno la paura negli occhi, perché hanno visto gli orrori della guerra, della violenza, della miseria, dei cambiamenti climatici. La paura non può essere una strategia per governare. A memoria d’uomo muri e filo spinato non hanno risolto alcun problema e non hanno migliorato le condizioni di vita di nessuno. Allora questi rifugiati possono essere per noi e con noi artigiani di pace: ogni giorno, per anni, hanno camminato alla ricerca di un’alba di pace e felicità per loro e le loro famiglie. Diceva papa Francesco: «Fatevi anche guidare da loro: i rifugiati conoscono le vie che portano alla pace perché conoscono l’odore acre della guerra».

Lo sforzo di costruire la pace infatti non può essere esclusivamente demandato alle istituzioni nazionali e sovranazionali: è necessario agire localmente per seminare pace globalmente, promuovere incessantemente la giustizia attraverso scelte coraggiose di dialogo e riconciliazione, perché – ricordava don Tonino Bello – «se la guerra genera povertà, anche la povertà genera guerra». Insieme ai rifugiati ci aspetta un compito arduo in questo tempo di parola urlata senza pensiero: pacificare le nostre comunità, soprattutto alle periferie esistenziali dove è più semplice che si annidi l’odio reciproco alimentato dalla povertà e da una politica senza visione. Questa è la vera sfida per gli artigiani di pace.

di Camillo Ripamonti – Sacerdote, presidente Centro Astalli – Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Italia