Parrocchia: cosa dobbiamo lasciare da parte, perché non radicalmente evangelico, non fondativo né irrinunciabile, in sostanza perché non kerigmatico?

Nei vari cantieri sinodali che si stanno aprendo a macchia di leopardo, con tempistiche, modalità e obiettivi differenti, credo che dovrebbe risuonare, nella riflessione sulla parrocchia, anche (o soprattutto) questa domanda: a cosa possiamo rinunciare per una comunità capace di stare nel mondo di oggi secondo il segno del Vangelo? Perché è indubbio che nei secoli la parrocchia ha visto stratificarsi ruoli, mansioni, ministeri, incombenze, pratiche, strutture, dialettiche, riti, devozioni: tutto ‘materiale’ che, a mano a mano, si è accumulato e fossilizzato, posandosi sovente per inerzia.
Ma oggi, cosa di tutto quel patrimonio è di slancio e cosa, invece, è di inciampo? Cosa corrisponde a quanto viviamo, al tempo e al luogo che ci sono dati, alla Parola che ci è affidata, e invece cosa possiamo lasciare da parte? O meglio: cosa dobbiamo lasciare da parte, perché non radicalmente evangelico, non fondativo né irrinunciabile, in sostanza perché non kerigmatico? Ciò che non serve, rallenta: è una regola che ogni pellegrino conosce. E oggi noi dobbiamo avvertire con forza che abitiamo una chiesa in pellegrinaggio, da una comunità tesa tra moderno e premoderno a una comunità che è chiamata – volente e nolente – ad abitare la tarda modernità o postmodernità, con sfide enormi. Se vogliamo attraversare da cristiani il nostro tempo ˗ con occhio vigile, critico e umano ˗ dobbiamo chiederci cosa non ci è più utile nel culto, nell’organizzazione dei ruoli e dei compiti, nel possesso dei beni, e cosa al contrario riteniamo fondamentale.

Dunque, a cosa rinunciare? È una domanda dolorosa, perché richiede sia spoliazione sia libertà, ma non rimandabile: altrimenti, la storia sceglierà per noi, andando ad assegnarci un posto di spettatori, di passivi giocatori seduti in panchina.

È una domanda che riguarda il clero: cosa, inevitabilmente, il sacerdote può e deve lasciare da parte? A cosa può invece dedicarsi perché è intrinseco alla sua forma di vita e di sequela? Si dirà (troppo facile): il prete deve rinunciare al clericalismo! Ma poi, nella concretezza, cosa vuol dire tutto ciò? Forse significa essere molto concreti nell’individuare quali responsabilità affidare ad altri, quale gestione del tempo, degli spazi e del denaro rivedere e condividere. Forse ci si deve interrogare su quali stili di vita e di gestione del potere devono essere abbandonati, perché non evangelici né più consone con il XXI secolo, con i suoi ritmi, numeri, condizioni, consapevolezze scientifiche, teologiche, sociali, antropologiche.

Ma ugualmente i laici cosa devono abbandonare, per essere davvero ispirati dalla grazia battesimale? Forse devono abbandonare devozioni, forme di pigrizia intellettuale e spirituale; forse è il momento di lasciare timidezze e false reverenze, o forse si devono rileggere le aspettative e le attese che riversano sul clero. O, ancora, forse lo Spirito chiama a nutrire il dibattito ecclesiale, ai vari livelli, avendo anche il coraggio della profezia e dell’audacia, sempre con la penetrante capacità di leggere i segni dei tempi.

E i vescovi, in fondo protagonisti del Sinodo, a cosa devono rinunciare? Cosa hanno il coraggio di mettere da parte, scaricando clero e laici di pesi, responsabilità, compiti, sciogliendo nodi e rivitalizzando energie sopite?

Ogni chiesa, ogni comunità, ogni fedele dovrebbe mettersi in cammino con questa domanda nel cuore: a cosa possiamo rinunciare? E da qui, insieme davvero, pensare e decidere quali rami secchi il nostro essere chiesa non può più permettersi. In queste settimane, nelle campagne, è il tempo della potatura, per dare forza, linfa e fecondità alle piante. Oggi, ugualmente, siamo chiamati a potare la chiesa che abitiamo per permettere alla linfa dello Spirito di essere feconda, generativa e pronta per le stagioni che verranno.

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