La sofferenza

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Credo che non ci sia realtà umana, più della sofferenza, in cui l’uomo si pone di fronte a Dio, chiedendogli il perché di essa. Nel momento del dolore, gli si avvicina, o gli si allontana, o ne è indifferente, perché, non avendolo mai cercato, ritiene di non cercarlo solo nel momento del bisogno.

La sofferenza non è il dolore

E nessuna realtà umana, più della sofferenza, è così sempre presente nella vita terrena dell’uomo. Soffrire è la nostra sorte. La scienza medica fa molto per alleviare o eliminare il dolore fisico, ma la sofferenza è un’altra cosa. La sofferenza è più profonda, prende l’anima, sconvolge la vita, e, come la morte, si pone sulla soglia del mistero. Verso di essa la scienza non può far nulla; le filosofie e le religioni hanno tentato di darle un senso, perché è il senso stesso dell’esistenza.

Una risposta è nel saggio di Max Scheler, Il senso della sofferenza [Mimesis, Milano, 2023]: una riflessione profonda, arricchita dal saggio introduttivo di Alessio Musio, sul dolore e la sofferenza, la tecnologia creata per alleviarli, le relazioni umane di fronte ad essi, il piacere, la felicità e l’amore, il contributo delle filosofie e delle religioni (dal buddismo al cristianesimo, dalla filosofia greco-romana a quella contemporanea).

Muta la condizione storica dell’uomo, non la sua condizione esistenziale, la sua relazione con sé stesso e con gli altri, alla base della quale deve esserci l’amore, altrimenti non può esserci nessuna relazione, nemmeno con sé stessi; e, senza relazione, l’esistenza è vuota. La tecnica progredisce nei campi che le sono propri, ma in quello delle relazioni interpersonali non può far nulla; lì ci vuole il cuore.

Una delle relazioni umane più sentite è quella che ci pone la sofferenza. Oggi, però, in una società tecnologicamente progredita, questa relazione diventa difficile. Vogliamo che la tecnica risponda al perché del dolore. Non può farlo. Anzi – dice Scheler – «la civilizzazione crea sofferenze maggiori e più profonde di quanto non le riduca per mezzo di una lotta costante e sempre più capace contro le cause […]. Si può dire, anzi, che [l’uomo] soffra, in fondo, più per questo ambiente tecnico – per le sue stesse leggi, le sue accidentalità e imprevedibilità – che per i mali per il cui rimedio è stato ideato e realizzato» (p. 91 e 93).

La tecnica è perfetta come tecnica, ma è «una perfezione priva di scopo» (Ferrarotti): non dà risposte, non dice chi siamo e dove andiamo. Essa offre certamente motivi di gioia e di piacere, ma sono superficiali; e il cuore umano – da dove nascono dubbi, perplessità e sentimenti – non può dipendere da essa. È la sofferenza, invece, la misura dello sviluppo dei popoli, via della conoscenza del significato dell’esistenza: come vivere, quali scelte fare, dietro cosa si deve procedere.

Domande a Dio

Ma «perché il Fondamento divino del mondo – così razionale e saggio nell’aver fornito all’essere vivente un sistema di segnali naturali per mostrargli ciò che dovrebbe o non dovrebbe fare per la sua autoconservazione e promozione – non ha fatto ricorso a un mezzo un po’ meno barbaro o violento? E perché proprio la bontà e l’amore – le qualità fondamentali che le religioni superiori attribuiscono in modo eminente al Fondamento del mondo – sono apparsi così poco commisurati alla sua ragione, nella misura in cui ha scelto che fossero, di fatto, proprio il dolore e la sofferenza ad avvertire le sue creature, come un campanello d’allarme, della vita messa in pericolo?» (p. 69).

Quante persone ha fatto allontanare da Dio questo perché! E quanto può essere sfuggente ai più la risposta, vera per il credente, che tutto è parte dell’insondabile disegno provvidenziale!

La risposta dei filosofi e di Buddha

Ma, allora, come dobbiamo comportarci di fronte alla sofferenza e al dolore?

I filosofi hanno dato al riguardo diversi consigli. Scheler, da parte sua, dice che «di fronte ad ogni tipo di dolore e di sofferenza si danno solo due vie del tutto opposte per ridurli e cancellarli. Una è la lotta attiva ed esteriore contro le cause oggettive, siano esse naturali o sociali: la risoluta “resistenza al male” come parte della costituzione oggettiva. Nel complesso, questa è la via eroica e attiva percorsa dalla civilizzazione occidentale. L’altra consiste nel tentativo, non di sconfiggere i singoli mali e le sofferenze che essi determinano, ma di incatenare dall’interno il soffrire stesso, nella sua connessione con tutti i possibili mali. La via, in questo caso, della rinuncia volontaria più totale e completa a ogni forma di resistenza innata e automatica» (p. 103). È la via del buddismo: il raggiungimento della “santa indifferenza”, «dell’“isolamento” e del congedo dal nucleo più profondo dell’io dalle catene di una “casualità” senza speranza» (p. 121).

Qui, credo, è la parte più interessante di questo saggio: nel confronto tra il modo di reagire di Gesù e di Buddha alla sofferenza.

Per Buddha, la verità del dolore è la nascita, la vecchiaia, la malattia, l’essere uniti a chi non si ama e separati da chi si ama, non ottenere ciò che si desidera. La sua origine è nella sete di rinascere, unita a gioia e desiderio, sete di piaceri, sete del divenire, sete dell’effimero. Mentre la via che porta al suo superamento è «il Nobile Sentiero Ottuplice»: avere fede retta, decisione retta, parola retta, azione retta, una vita retta, morte retta, pensiero retto, concentrazione retta [in Karl Jaspers, Socrate, Buddha, Confucio, Gesù – Le personalità decisive; Fazi, Roma, 2013, p. 57]. Si elimina la radice del dolore negando il reale.

La risposta di Gesù

Il Dio cristiano, invece, «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv, 3,16). Dio ha amato il mondo; il cristiano ama il mondo. Il Dio creatore delle «bellezze etterne» (Dante) è il Dio della Redenzione; e Gesù, il Figlio, ha assunto su di sé tutta la sofferenza del mondo.

Centrale è in Scheler l’idea del sacrificio, perché «è solo riportando il fatto del dolore e della sofferenza sotto la luce dell’idea di sacrificio – come è avvenuto per la prima volta nella storia, nel modo più potente con il cristianesimo, in ordine al pensiero della sofferenza sacrificale di Dio stesso in Cristo, il quale offre sé stesso liberamente, al posto dell’uomo, per amore – che diventa possibile, forse, avvicinarsi a una più profonda teodicea della sofferenza» (p. 71).

Al sacrificio dobbiamo ricondurre ogni sofferenza, fisica e spirituale. La stessa morte è un sacrificio. Sono sacrifici tutte le sofferenze e i dolori: «esperienze sacrificali della parte per il tutto e di ciò che è di valore inferiore per quello di valore superiore» (p. 67).

Cristo è esempio straordinario dell’incontro con la sofferenza. E nessuno meglio di Dante ha espresso in versi stupendi questo aspetto della teodicea in quel canto della redenzione che è il VII del Paradiso: «Vostra natura, quando peccò tota | nel seme suo, da queste dignitari, | come di paradiso, fu remota; || né ricovrar potiensi, se tu badi | ben sottilmente, per alcuna via, | sanza passar per uno di questi guadi: || o che Dio solo per sua cortesia | dimesso avesse, o che l’uom per sé isso | avesse soddisfatto a sua follia. || […] Non potea l’uomo ne’ termini suoi | mai sodisfar, per non poter ir giuso | con umiltate obedïendo poi, || quanto disobediendo intese ir suso;| e questa è la cagion per che l’uom fue | da poter sodisfar per sé dischiuso. || Dunque a Dio convenia con le vie sue | riparar l’uomo a sua intera vita, | dico con l’una, o ver con amendue. […] Più largo fu Dio a dar sé stesso | per far l’uomo sufficiente a rilevarsi, | che s’elli avesse sol da sé dimesso; || e tutti li altri modi erano scarsi | a la giustizia, se ’l Figliuol di Dio | non fosse umilïato ad incarnarsi» (Pd, VII, 85-120).

Gesù supera l’idea veterotestamentaria della sofferenza come punizione di peccati propri o di altri. Gesù accetta liberamente di soffrire per colpe non sue.

Nel Paradiso perduto di J. Milton, quando il Figlio, solo tra i cori paradisiaci, si offre per la redenzione dell’uomo, dice al Padre: «Offro me per lui, | cada su me la tua ira, come | fossi un uomo: per la sua salvezza | io lascerò il tuo grembo, e la gloria | che godo accanto a te liberamente | io abbandono per lui, infine, | io morirò contento». All’uomo caduto per inganno, non per sua intenzione (come invece gli angeli ribelli), Dio dice che proprio per questo egli «troverà | la grazia che gli altri non avranno: | per pietà e per giustizia, insieme, | vincerà la mia gloria in cielo e in terra, | ma sarà la pietà che, prima e ultima, | risplenderà su ogni cosa» [J. Milton, Paradiso perduto; a c. di F. Cicero, trad. di R. Piumini; Bompiani, Milano, 2009; libro III, 236-41; 131-34]. La pietà, senza la quale, d’altronde, non può esserci nemmeno la giustizia terrena.

Gesù diventa sacrificio per amore

Ciò che avvenne nella notte del Getsemani, quando Gesù sentì più forte la tristezza e la paura – la preghiera al Padre perché allontanasse da lui il calice della sofferenza, l’imposizione di non rispondere alla violenza con la violenza (anche se in tanti momenti della sua vita egli ha reagito al male e alla malvagità), fino al grido finale sulla croce – tutto questo (dice Scheler) «non mostra nulla della serenità calma, alienata e fredda con cui Buddha vive e persino muore in continua conversazione con i suoi amici. Dopo tutto, lo stesso prendere su di sé la Croce in modo paziente ed eroico, il modo con cui i martiri cristiani portano e vanno incontro alla sofferenza, e l’affermazione del valore eccezionale in alcuni casi della resistenza passiva, rispetto a quella eroica e attiva, sono una componente essenziale dell’universalità stessa dell’ideale cristiano» (p. 105).

E l’ideale cristiano è quello dell’amore incondizionato. Legata, infatti, all’idea del sacrificio è l’idea di amore: «una precondizione del sacrificio» (p. 81). Il sacrificio si comprende solo alla luce di tutto il processo vitale dell’esistenza, nel quale dolore e piacere sono strettamente uniti nella parte più profonda di noi. Quel grido di abbandono sulla croce, è anche un grido di speranza, perché il salmo 22, di cui Gesù grida le prime parole, è, nel seguito, un salmo di speranza: «Ma tu, o Signore, non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto» (v. 20). Gridando le prime parole, Gesù evoca, quindi, tutto il salmo. E con quel salmo Dio gli risponde: «Tu mi hai risposto» (v. 22). Nel racconto di Luca, anzi, Gesù consegna il suo spirito nelle mani del Padre (ritorna il nome di Padre).

«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi ristorerò» – aveva detto un giorno con parole dolcissime. «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt, 11,28-30). Se Gesù ha reagito in molte occasioni alla malvagità, ci lascia, però, queste parole piene d’amore e quel grido di speranza.

Tuttavia, quel grido in quel momento – nel buio che si fece su tutta la terra e dopo tante violenze subite – è il grido di ogni sofferente che crede di essere abbandonato, il segno universale del dolore, reale e ineliminabile.

Matthias Grünewald lo ha reso nella sua stupenda, terribile Crocifissione, di fronte alla quale vengono in mente le parole del principe Myškin davanti al Cristo morto di Holbein il Giovane, ne L’idiota di Dostoevskij: «Quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno». Esso rappresenta un Cristo appena deposto dalla croce. Mi sembra – scrive Dostoevskij – «che i pittori abbiano preso l’abitudine di raffigurare il Cristo sia sulla croce, sia deposto dalla croce, con una sfumatura di straordinaria bellezza in volto; e cercano di mantenergli questa bellezza anche fra i più atroci tormenti.

Nel quadro di Rogožin, invece, di questa bellezza non c’è nemmeno un accenno; era in tutto il cadavere di un uomo che ha sopportato infiniti tormenti ancor prima di venir crocifisso, ferite, torture, percosse delle guardie, percosse del polpaccio, quando portava la croce sulle spalle e vi cadde sotto e infine il supplizio della croce, per lo spazio di sei ore (almeno secondo il mio calcolo)» [F. Dostoevskij, L’idiota; introduzione di Armando Torno, note di Ettore Lo Gatto; traduzione di G. Faccioli e L. S. Boschiani; Bompiani, Milano, 2009, p. 967].

Ma – dice Agostino – grazie alla deformità del Cristo sofferente, di quell’«uomo dei dolori», noi abbiamo potuto riacquistare la bellezza della nostra forma originaria. E Grünewald stesso, accanto alla crocifissione, ha dipinto la resurrezione.

Chiamati a com-patire

Il Cristo (il cristianesimo) incontra la sofferenza, la vive, non la oscura, non la nasconde, né l’addolcisce; invita tutti a com-patirsi. La compassione «è la più importante e forse l’unica legge di vita di tutta l’umanità» [F. Dostoevskij, L’idiota; cit., p. 543].

Il samaritano esplangnìstē, fu mosso a compassione davanti al sofferente; come pure il padre al ritorno del figlio prodigo, che abbraccia prima ancora che il figlio faccia la sua confessione. La compassione è il volto paterno e materno di Dio; una forma anch’essa dell’amore.

Nel bellissimo racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Ilič, Ivan, malato, trova conforto solo nella vicinanza affettiva del servo Gerasim, il solo che gli è vicino veramente, il solo che ha pietà di lui, che lo com-patisce, e quindi capisce.

Il cristianesimo – scrive Scheler – «sembra essere riuscito a comprendere senza mistificazioni la sofferenza solo perché ha saputo tenere insieme simultaneamente due impostazioni. In primo luogo, riconoscendo in essa il fattore essenziale dell’ordine del mondo e della salvezza; in secondo luogo, facendola diventare, senza tuttavia negarne tutta la pesantezza esistenziale e il suo carattere di male, una gradita amica dell’anima anziché un nemico da combattere» (p. 139).

Il Figlio accetta liberamente: ecco il dono della grazia. Per questo il Padre non gli risponde alla preghiera del Getsemani. Non era possibile allontanare il calice che lui stesso aveva accettato di bere.

Il Covid 19, da tutti dolorosamente vissuto, ci ha messo di fronte alla comune sofferenza.

Il quel significativo scenario della sera del 27 marzo 2000, in una Piazza San Pietro vuota, bagnata dalla pioggia, guardata dal crocifisso anch’esso bagnato dalla pioggia, l’abbraccio del colonnato del Bernini comprese tutti i popoli del pianeta, di tutte le razze e religioni, che si ritrovarono in quel momento nel racconto evangelico della tempesta sedata. Per tutti sembrava essere venuta la sera.

La sofferenza stava «smascherando la nostra vulnerabilità e lasciando scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità […]. Il Signore ci [stava] interpellando e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invitava a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a quelle ore in cui tutto sembrava naufragare»: [dalla Omelia di quella sera, Osservatore Romano del 29 marzo 2020, p. 10]: nelle ore, cioè, della sofferenza e del dolore.

Dolore e sofferenza non sono la stessa cosa. Il dolore dura l’attimo che lo vivi, poi scompare, non lo vivi più; puoi ricordarlo, ma non riviverlo. La sofferenza, invece, puoi riviverla. Il dolore puoi controllarlo in qualche modo, la sofferenza no (oppure è più difficile la lotta verso di essa). Ognuno la vive a modo suo, ma ognuno può condividerla con gli altri. La sofferenza è sim-patetica: ci accomuna più del dolore stesso.