Il clericalismo bifronte

di: Renato Borrelli
Settimana News

Esiste un clericalismo bifronte di preti e di laici non dappertutto, non da parte di tutti, ma con una fenomenologia tale da richiedere un correttivo: ne va dell’immagine del popolo di Dio che, nella generalità, vive il proprio cristianesimo senza quelle pose e problematiche introverse, frutto della cosiddetta autoreferenzialità.

Il clericalismo è la forma mentis di chi si ritiene prescelto, privilegiato, collocato in un ruolo tanto diverso nella Chiesa da poter formare una casta a sé, dimenticando che però in partenza si è tutti inseriti col battesimo nel comune sacerdozio, con le sue articolazioni profetiche, sacerdotali e regali.

Ecco cosa dice al riguardo Marco Marzano, sociologo dell’organizzazione: «L’intera organizzazione si presenta come un sistema chiuso e autoreferenziale, governato da una casta di eletti, il clero, che non tollera influenze esterne. I seminari rimangono quei luoghi dove si presume che si realizzi la trasformazione dei chiamati da Dio da persone ordinarie, da individui normali a uomini sacri, a creature dedicate alla specialissima missione di mediare tra i comuni mortali, la massa dei fedeli ordinari, e la divinità» (Marco Marzano, La casta dei preti, pagg. 40,43).

Il Concilio con la Lumen gentium ha provveduto 50 anni fa a fare chiarezza al riguardo. Il primo capitolo della costituzione non si apre con la trattazione sulla gerarchia, bensì partendo dal popolo di Dio e provvedendo, a suo tempo, a dare un colpo decisivo al clericalismo: «Col nome di laici si intende qui l’insieme dei cristiani a esclusione dei membri dell’Ordine sacro…, fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano».

Qui è il ministro a essere definito per difetto, mentre il profilo del cristiano risplende tutto intero nella figura del laico e della laica. È il ministero a essere ordinato ai laici e non questi a quello. «I ministri, infatti, che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò hanno una vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza» (LG 18).

H.U. von Balthasar a riguardo usava una bella immagine: il ministro è come lo scudiero si prende cura del cavaliere che con la sua armatura va incontro alla “battaglia” come membro del popolo di Dio nel mondo sì, ma come sale disciolto. Il laico vive l’esperienza nel mondo, nella società, e il ministro è al suo servizio, non viceversa.

Compito del ministro è formare il cristiano a prendere posizione sui problemi del mondo con la forza del Vangelo: cristiani influenti nel proprio ambito di vita, non perché ripetitori zelanti della predica che hanno sentito in Chiesa, ma perché resi capaci di pronunciamenti seri e pertinenti sui problemi che emergono nella società.

Il linguaggio nel trattare questa problematica in genere è altalenante tra laico, cristiano, battezzato. Dovremmo dire con Andrea Grillo: «Nella Chiesa siamo tutti battezzati. Poi ci sono dei ministeri. Punto. Laico è una parola inutile, ma dura a morire». Continueremo ad usarla, ma con questa avvertenza.

Nell’immediato dopo Concilio il cardinale Suenens scriveva: «Nella Chiesa di Dio l’uguaglianza profonda di tutti è prioritaria: non vi è un super battesimo, non vi sono caste, non vi sono privilegi. Il più grande giorno della vita di un papa non è quello della sua elezione pontificia, o della sua incoronazione, ma il giorno della sua consacrazione battesimale. Dobbiamo essere consapevoli di questa verità fondamentale perché sono essenziali alla vita della Chiesa e comandano tutte le opzioni e tutti gli atteggiamenti».

Recentemente, nella stessa linea di pensiero si è espresso fratel MichaelDavide Semeraro. «Rifondare il ministero ordinato sulla comune radice battesimale, non solo a livello di principio, ma in modo fattivo e visibile, significa restituire i presbiteri alla comunità.

Così facendo, la comunità discepolare ritorna ad essere l’autentico luogo di elezione, formazione e verifica dell’appello, come pure l’ambito in cui matura contestualmente la risposta di quanti sono chiamati ad esercitare un ministero nella Chiesa» (Preti senza battesimo. Una provocazione, non un giudizio, p. 62).

Se parlo di clericalismo, lo faccio con la consapevolezza dei tanti confratelli, direi la maggioranza, dediti totalmente alla missione in mezzo alla gente con un cuore accogliente, liberi da mire di carriera e da spirito mondano.

Occasione mancata
Vorrei accennare ad un’occasione mancata per far emergere il carisma dei laici. Per molti decenni la CEI s’incaricava di emettere un suo documento ufficiale che spaziava dalla situazione della Chiesa a quella della società, creando quasi sempre reazioni avverse, come di fronte a una forma di ingerenza.

Eppure allora – come pure oggi – non mancavano personalità cristiane senza etichette, operanti nel mondo universitario e in altri ambiti attinenti il campo culturale, sociologico, politico, medico e scientifico, che avrebbero potuto esprimere con competenza e autorevolezza la loro analisi, condotta insieme a esponenti “laici”, nello spirito di dialogo, di servizio e di comune discernimento dei segni dei tempi e caratterizzata da «una certa nota specifica e una particolare efficacia dal fatto che viene compiuta nelle comuni condizioni del secolo» (LG 35).

Si aveva e si ha, di fronte a tanti pronunciamenti, l’impressione che «le istituzioni ecclesiastiche con il loro ordinamento sembrano porsi davanti al mondo come se dovesse essere la società civile a rendere ragione di sé alla Chiesa e questa non avesse il dovere di farlo di fronte alla società. La comunità cattolica, fedeli laici e pastori, ha bisogno di abbandonare la pretesa che la fede cristiana e la Chiesa debbano risultare ad ogni persona onesta e ragionevole l’unico punto di approdo della società» (Dianich). L’ordine del giorno della Chiesa è dettato dalla società e non viceversa.

Tuttavia, nella società, per quanto ben strutturata, possono esserci strutture di peccato verso le quali la Chiesa deve far risuonare la sua profezia.

Radici lontane
A parte la sua ormai famosa boutade: «Io, quando vedo un clericale, divento subito anticlericale», papa Francesco non ha perso occasione per denunciare il clericalismo.

«Oggi il male più grande della Chiesa è la mondanità spirituale, la Chiesa mondana che fa crescere il clericalismo: una cosa brutta, una perversione della Chiesa. Così l’ideologia prende il posto del Vangelo» (6 febbraio 2022).

Clericalismo fa rima con carrierismo, è sinonimo di casta, privilegi. Si manifesta anche come sacralità ed esercizio di potere che sono motivo per assumere e paravento per nascondere comportamenti moralmente riprovevoli.

Vincenzo Bo, nella sua monumentale e documentatissima Storia della parrocchia in cinque volumi, descrive gli inizi e l’evoluzione della parrocchia, nata come mezzo per la plantatio ecclesiae, ma che fin dagli inizi (IV e V secolo), nei secoli dell’infanzia (VI e XI secolo) e in seguito, rivela nel clero l’affermarsi di condotte mondane e la ricerca di privilegi che tale stato di vita cominciava a garantire. Girolamo, Agostino, Crisostomo, Ambrogio, per fare alcuni nomi, denunciavano le distorsioni e gli abusi.

«Il Crisostomo aveva pure posto mano alla scure per colpire alla radice il male che aveva già denunciato, prima di lui, il predecessore, Gregorio di Nazianzo, nella sede costantinopolitana: quello di persone infiltrate nel clero, vedendovi – lo dice chiaramente – uno dei tanti modi per campare: “Ho avuto vergogna per gli altri; cioè per quegli individui che – mi dicono – senza essere per nulla migliori della gente comune – ed è gran cosa che non siano peggiori –, con mani sporche, come suol dirsi, e con animo profano, si cacciano in questi santissimi ministeri… convinti che questo ordine non rappresenta un modello di virtù, ma è uno dei tanti modi per campare la vita; non è un servizio di cui si deve rendere conto, ma un principato senza alcun controllo. Questi preti… sono degni di compassione per una santità che non hanno e infelici per un lustro che non esiste» (vol. I, pag. 105).

Così pure Agostino: «Vi sono quelli che occupano come pastori la cattedra per procurare il bene alle greggi di Cristo, ma ve ne sono altri che la occupano per godere dei loro onori temporali e dei vantaggi mondani… Questi due tipi di pastori… è inevitabile che durino anche nella Chiesa cattolica sino alla fine del mondo e sino al giudizio del Signore» (ivi).

Il clericalismo ha quindi radici lontane e profonde. Papa Francesco addirittura vede nella proposta degli apostoli di rinviare a casa la gente bisognosa di pane «un atteggiamento che rasenta la crudeltà. Qui – io credo – iniziò il clericalismo: in questo volersi assicurare il cibo e la propria comodità disinteressandosi della gente.

Il Signore stroncò questa tentazione. “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37), fu la risposta di Gesù: fatevi carico della gente» (Omelia durante la Messa del Crisma,18 aprile 2019). La richiesta di Giacomo e Giovanni di sedere alla destra e alla sinistra nel Regno rivela l’aspirazione a posti di prestigio.

Il correttivo
Ce lo indica papa Francesco quando esorta i pastori ad avere quell’odore di pecora che si acquisisce stando in mezzo, davanti e dietro al popolo di Dio.

Adriano Zanchi auspica, insieme alla vicinanza al popolo, anche un’attitudine secolare del pastore, che significa «capacità di lettura della realtà, senso di cordiale fraternità nei confronti della condizione contemporanea, sguardo evangelico più che sacrale, solida attrezzatura intellettuale, una minima competenza interpretativa, senso di libertà umana e gratuità testimoniale, cura del gesto umano, della parola fraterna, della presenza amichevole. Significa anche sapienza del servizio silenzioso, umiltà del dubbio, senso del relativo. Ma significa soprattutto convinta coscienza che la realtà secolare è lo specifico, il luogo teologico della fede evangelica, non la sala d’aspetto della vita spirituale» (L’arte di accendere la luce, pag. 69).

Il Sinodo ci sta indicando le strade del futuro, nel segno della corresponsabilità, della missione, del dialogo e dell’ascolto. Si tratta di snellire tante cose fra cui la concezione e la forma della parrocchia, il cammino di iniziazione cristiana, la burocrazia e, cosa non di immediata e facile attuazione, un ritorno alla semplicità delle origini, quando c’era nella compagine ecclesiale una pluralità di ministeri e di carismi oltre a quello degli apostoli e dei loro successori.

Certamente le analisi critiche e spassionate sulla situazione della Chiesa vanno fatte, e occorre sentire la voce del popolo di Dio e dei cosiddetti lontani.

Gesù, ebreo marginale osservante, non lesinò le sue critiche al sistema teocratico e “clericale” ruotante attorno al Tempio, facendo anche un’impietosa analisi dello stato della religiosità nel suo tempo. Non mancano oggi sondaggi effettuati da sociologi che analizzano lo stato della fede e della pratica religiosa nella società secolarizzata: descrivono i fenomeni e li quantificano, salva restando l’azione dello Spirito nelle coscienze, al di là delle dichiarazioni.

Le parabole del Regno sono comunque il parametro per ogni diagnosi della situazione che tenga conto realisticamente del limite, della piccolezza del seme e della compresenza del grano e della zizzania, per evitare ripiegamenti pessimistici e nostalgie, nonostante la situazione non proprio rosea. Ma in quale momento della storia della Chiesa c’è stata un’epoca d’oro? Non siamo in presenza della fine del cristianesimo, lo sappiamo, bensì di fronte al tramonto della cristianità intesa come coincidenza tra i “valori” proposti dalla Chiesa e quelli della società.

Gesù non aveva certo la preoccupazione di perdere prestigio, numeri, potere e influenza nella società: la logica del granello di senape, del seme che comunque cresce e del sale e del lievito, sono parametri validi per sempre.

Una qualche analisi sul fenomeno del clericalismo si rende tuttavia necessaria e l’ha fatto anni fa anche il teologo J. Moingt senza mezzi termini, mettendo il dito nella piaga.

«Cosa manca ai fedeli che desiderano impegnarsi? La mancanza non è da parte loro, viene dall’istituzione ecclesiastica che, imbevuta di pregiudizi religiosi, non riconosce ai semplici fedeli la libertà e la responsabilità del loro essere cristiani e del loro vivere insieme, e che, a causa di ciò, non vedendo altro modo di farli esistere in quanto cristiani che radunarli in riunione cultuale in un luogo consacrato attorno a un prete, priva di numerosi spazi umani della presenza di una comunità cristiana viva, di una presenza evangelica che sia di lievito.

Infatti, per timore di sembrare ridurre la necessità e la sfera di attività del sacerdozio consacrato, e malgrado gli inviti del Vaticano II, la Chiesa non sa trattare i fedeli da individui maggiorenni, vuole mantenerli sottomessi al potere sacerdotale e gerarchico che provvede i mezzi di accesso alla vita soprannaturale, e altro non può proporre loro che di aiutare i preti nei ministeri di cui detengono le chiavi; ecco perché i laici che non vogliono rimanere perpetui minorenni nella loro vita di fede né rinunciare a vivere nella Chiesa da soggetti responsabili, come fanno nella società civile, continuano a lasciarla. Così essa si priva del loro concorso per annunciare il vangelo al mondo e presto non avrà più altra visibilità che quella di una religione in via di estinzione» (Umanesimo evangelico, pag. 140).

A parte la conclusione pessimistica, resta il compito della formazione e dell’individuazione di laici e discepoli maturi, risolti, capaci di incarnare, testimoniare e declinare la fede con la loro competenza secolare nella concretezza delle situazioni.

Un correttivo “a monte”
Occorrono però preti che già dagli anni del seminario vengano immunizzati dalla mondanità che si nasconde sotto le mentite spoglie di stili felpati, impeccabili, intrisi di nostalgie per un tramontato e ormai obsoleto ritualismo: cose tutte che possono dare tono e sicurezza a situazioni con piedi di argilla.

A ciò si aggiunge «un’esagerazione sul privilegio della vocazione sacerdotale che rischia di rendere i chierici più o meno consapevolmente, radicalmente insensibili alla propria fragilità e ciechi di fronte alla propria umana vulnerabilità. Così la fragilità rischia di essere imbalsamata nel sarcofago del ruolo.

Questo non può che rendere i chierici del nostro tempo, in quanto figli del loro tempo come i loro coetanei, radicalmente fragilizzati. La conseguenza di un discernimento e una formazione basata sulla sovraestimazione rischia di rendere chierici incapaci di farsi carico della propria vulnerabilità se non nella forma della negazione o della mistificazione. Ambedue le soluzioni sono umanamente pericolose e evangelicamente inaccettabili» (Fratel MichaelDavide Semeraro, op. cit. pag. 29).

Tutti questi fattori possono contribuire a fare del giovane prete un perfetto clericale, ad onta della sua provenienza da un’esperienza vissuta in precedenza da laico. È in atto una profonda riflessione per reimpostare la formazione nei seminari con la presenza di donne, famiglie e formatori dei gruppi sempre più qualificati.

Il clericalismo è come il tango, si balla in due
Papa Francesco coglie nel segno quando dice che «il clericalismo è come il tango, si balla in due: il sacerdote a cui piace clericalizzare il laico e il laico che chiede di essere clericalizzato» (16 giugno 2015).

Jean Luc Marion ha analizzato a fondo il fenomeno della reciprocità e interazione prete-laico nel suo saggio Dell’eminente dignità del fedele battezzato, presente nel suo Credere per vedere (Lindau). Prendo alcuni punti salienti di quel saggio che andrebbe gustato e approfondito nella sua interezza.

Egli scava a fondo nella psicologia del prete che si appoggia al laico per essere rassicurato. Il suo bersaglio è un certo tipo di laico militante e parrocchialista, un certo modo di vivere l’Azione cattolica che creava problemi nella Francia degli anni ’70.

Ecco l’analisi che coglie l’originarsi del “fenomeno” del militante o laico impegnato: «Nel momento in cui il militante cristiano si sente in minoranza e privato di ogni rassicurazione, nel momento stesso in cui la sua intenzione di evangelizzare sembra esigerlo maggiormente, egli ricorre all’ideologia più adatta a fornirgli una rassicurazione presa a prestito per il suo discorso e una appartenenza confortante alla maggioranza, ma all’interno del suo contesto.

Di fronte alla doppia prova della perdita totale di sicurezza e della marginalizzazione assoluta, l’ideologia rassicura il cristiano, che diventa, da apostolo, militante. La sicurezza così ottenuta, a dispetto della realtà, è sicurezza assoluta dell’uomo da parte di sé stesso. Così facendo, trascina la Chiesa nella mondanità

Ed ecco la clericalizzazione, la mondanità, il prete che non si lascia interrogare a fondo dalla realtà e dal mistero pasquale nel suo aspetto di abbandono da parte di Dio e di speranza messianica, si mette alla ricerca della sicurezza nella sua attività pastorale e la incontra nel laico militante che, forte della sua certezza ideologica che la fede ha un avvenire, nasconde a sé stesso e al prete che nessuno diventa cristiano se non imitando Cristo. I laici militanti assicurano a molti chierici un rapporto sicuro e rassicurante nei confronti del mondo».

Di seguito, viene colto il punto cruciale del tango che si balla insieme e che Marion definisce dipendenza mimetica. Succede infatti che «certi chierici non si pongono ai margini del mondo, bensì si circondano di una pellicola pressoché indistruttibile, composta di militanti laici che sostituiscono ai loro occhi il mondo vero con un mondo individuale e portatile, se così si può dire: solo conforme ai loro desideri. Il chierico è spesso tentato di scegliersi dei laici a sua immagine.

Così questi ultimi assicurano ai primi la presa su una (falsa) realtà, e ricevono in cambio l’assicurazione di costituire il (vero) popolo di Dio, invocando tutti insieme la testimonianza del futuro quando la pressione del reale diventa troppo pesante. I laici militanti assicurano a molti chierici un rapporto sicuro e rassicurante nei confronti del mondo, il solo che essi abbiano e auspichino. Che questa rappresenti solo una debole minoranza nel popolo dei battezzati, poco importa ai chierici che riconoscono in essa un’avanguardia profetica. Insomma, la realtà dell’indomani che dispensa da considerare la realtà dell’oggi».

Quello che Marion chiama militante, spesso è rappresentato da piccoli gruppi o da singoli che, con voce suadente, rassicurano il prete in cerca di sicurezze.

Quale laico
In una società secolarizzata che si è organizzata e continua a farlo non avendo più come riferimento la Chiesa, occorrono laici che incarnino senza specificazioni ma con impegno la loro sequela, e perciò stesso adatti alla corresponsabilità e alla missione, persone ben inserite e con competenza nella loro professione, a contatto con le sofferenze, i bisogni, le aspirazioni; laici impegnati nel servizio dei loro fratelli nelle dure realtà dell’esistenza e non in realtà ovattate; formati nello spirito del Vaticano II, dell’apertura al mondo di cui conoscono per presa diretta modi di pensare e linguaggio, abilitati così a comprendere e a farsi comprendere.

Non si auspica con ciò l’affermarsi di una nuova élite, ma la valorizzazione dei carismi diffusi nel popolo di Dio e dove meno ci si aspetta.

Non servono certamente i devoti bigotti che nutrono la loro spiritualità a fonti ambigue, capaci, per esempio, di attribuire la pandemia al maligno o ad un complotto, e capaci di presentarsi nel dialogo con la società con quel bagaglio che risulta irrilevante ed esposto al ridicolo in un contesto secolare a cui invece va presentata la parola inedita, inaudita, di Cristo insieme ad una testimonianza di vita che ne sia l’incarnazione nell’impegno professionale e familiare.

Via via degradando nella tipologia, ci sono certi cristiani informatissimi delle cose che riguardano preti, parrocchie, diocesi, con tendenza spiccata e quasi patologica al campanilismo.

Certi, poi, sembrano remore incollate al prete, quasi prete-dipendenti, tipico di laici immaturi e complicati.

Per non parlare di quelli che, da influencer negativi, sono capaci di creare sommovimenti di popolazioni parrocchiali, pro o contro.

Ci sono pure persone che si servono della Chiesa come occasione per emergere o realizzare sé stessi, quando invece dovrebbero realizzarsi in pieno con le proprie doti nell’ambito sociale e professionale.

Per concludere, cosa sta all’origine del laico clericale e del clericalismo dei preti? Ce lo dice J.L. Marion: «Il militante appare dunque quando il battezzato non comprende più sé stesso e ciò gli deriva dal chierico. E da dove viene il chierico? Probabilmente da un’incomprensione del prete. Se il clericalismo rimane il nemico della Chiesa, è perché suscita una doppia perversione: esso fa scadere il sacerdozio dei battezzati in militanza del laicato e il sacerdozio presbiterale in potere clericale.

Il ristabilimento della dignità specifica del battezzato passa certamente per la determinazione teologica del rapporto organico fra i due sacerdozi. Il sacerdozio dei battezzati non è un’imitazione inferiore del sacerdozio presbiterale, in attesa di una dignità maggiore. È sufficiente che sia riconosciuta la sua eminente dignità».