Alessandro Beltrami sabato 3 ottobre 2020
La sfera estetica, a partire dall’aspetto educativo, può generare una società armonica, aperta, inclusiva. Il pamphlet di Irene Baldriga
Ambrogio Lorenzetti, "Effetti del Buon Governo in città" (1338). Siena, Palazzo Pubblico

Ambrogio Lorenzetti, “Effetti del Buon Governo in città” (1338). Siena, Palazzo Pubblico

«La cittadinanza non è un mero elenco di diritti e di doveri, bensì una postura, un modo di essere e di interagire con gli altri e con i luoghi che si abitano e che abitano dentro di noi». Lo scrive Irene Baldriga in Estetica della cittadinanza, vero e proprio pamphlet (Le Monnier, pagine 132, euro 14,00) che fa del patrimonio artistico e culturale una questione politica. Il volume si chiude con i dieci punti di un “Manifesto dell’estetica della cittadinanza” e “Per una nuova educazione civica” è il sottotitolo.

Storica dell’arte e docente alla Sapienza, già nel 2017 aveva dedicato un libro al Diritto alla bellezza. Nel nuovo, attraverso numerosi rimandi alla filosofia, alla storia dell’arte, al cinema, alla letteratura ma anche alla cronaca, amplia la questione all’impatto generale della dimensione estetica, a partire dall’aspetto educativo, nel generare una società armonica, aperta, inclusiva. La cittadinanza non si risolve in un regolamento ma in una forma – e sappiamo come in latino formosus (cioè “dotato di forma”) significhi bello ma, a differenza di pulcher, di una bellezza reale, non ideale – del vivere e del convivere.

Al centro fisico del libro c’è un capitolo sulla “democrazia estetica” mentre “Discorso estetico e democrazia” è tra quelli che lo concludono. Se la filosofia recente si è concentrata sul ritorno di centralità della cultura umanistica nella formazione del cittadino e sull’accesso alla bellezza come fattore dirimente nella rilevazione dell’equità sociale, «l’arte – osserva la Baldriga – è la dimensione culturale che maggiormente ci pone nella condizione di ri-conoscere la diversità e di farla nostra, creando lo spazio per accoglierla. Maturare una sensibilità estetica, praticarla nella quotidianità, rende il cittadino maggiormente propenso a uscire dall’autoreferenzialità individuale e culturale». E se l’esperienza dell’arte è un esercizio di bene comune (di res publica), «l’evoluzione del concetto di bellezza accompagna la storia del rapporto tra uomo e dimensione sociale, l’equilibrio tra singolo e ordine politico, tra l’io e gli altri». L’esercizio della cittadinanza estetica finisce per modellare lo spazio, inteso come habitat. Ce lo insegna il Buon governo, il celebre affresco di Ambrogio Lorenzetti a Siena, che potrebbe essere intitolato il “Bel governo”.

Possiamo dire allora che la cittadinanza estetica riguarda dunque anche la forma in sé della democrazia. Come in matematica la bellezza della risoluzione di un teorema e di una formula indicano la bontà di quanto trovato, c’è una bellezza intrinseca, data dalla stretta correlazione tra bellezza e necessità, nei meccanismi che regolano il vivere comune con armonia, equità e giustizia. Basti pensare ai Principi fondamentali della Costituzione italiana, il cui testo è stato modellato dai padri costituenti parola per parola, sintagma per sintagma. La stessa Baldriga dedica un paragrafo a “Cittadinanza e bellezza della parola”. In questo senso c’è una questione estetica anche nel modo interpretare un ruolo istituzionale: la presidenza di rigore euclideo di Sergio Mattarella ne è un fulgido (perché la forma “splende”) esempio.

C’è infine una estetica della democrazia anche nell’accezione kantiana, ossia di scienza della percezione. Una democrazia sfigurata, piegata e abusata nelle strutture primarie dal potere in sé, svuotata dal parassitismo dei populismi, e nella quale il diritto è deformato da desiderio e privilegio, non percepisce più il mondo, antepone alla realtà e alla stessa pratica democratica un filtro mistificatorio, finendo per sostituirle con un’immagine fittizia. È l’estetica dell’ideologia. Il risultato è duplice: da una parte i cittadini finiscono per percepire il mondo e la società attraverso lo stesso filtro, soppiantando il reale con una narrazione; dall’altra è la politica (e quindi la democrazia) a essere percepita come debole in sé, perniciosa, inutile. Si aprono così gli spazi per fenomeni ambigui e più o meno velatamente totalitari. E nel totalitarismo la dimensione estetica – magari anche raffinata – è sì centrale, ma non come pedagogia della libertà bensì opera di conformazione a un modello unico di pensiero, non come esercizio di verità ma, al modo del giardino di Armida, il maquillage ipnotico di un mondo di violenza e orrore.