Discernimento e misericordia secondo il Cardinale Martini

A novant’anni dalla sua nascita una pagina in cui il cardinale – a partire dalla Parola di Dio – esplorava una relazione tanto discussa oggi nella Chiesa

Esattamente 90 anni fa a Torino nasceva il cardinale Carlo Maria Martini, biblista, per oltre vent’anni arcivescovo di Milano e figura di primo piano nella vita della Chiesa. A cinque anni ormai dalla sua scomparsa il suo magistero rimane un punto di riferimento attualissimo. Ne è prova il testo che proponiamo qui sotto: una riflessione sul tema deldiscernimento, una delle parole chiave del pensiero di Martini, ma nello stesso tempo anche una delle più discusse oggi nella recezione dell’esortazione apostolica «Amoris Laetitia». Il brano è tratto da un discorso che il cardinale Martini tenne nel 1985 e che oggi viene pubblicato nella raccolta di testi inediti «Cristiani coraggiosi. Laici testimoni nel mondo di oggi», fresca di stampa per l’Editrice In Dialogo.

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C’è un testo del documento conciliare sull’apostolato dei laici, che richiama ogni cristiano a vivere l’esperienza dell’atteggiamento contemplativo per essere in grado di operare la sintesi delle diversità:

Solo alla luce della fede e nella meditazione della Parola di Dio è possibile, sempre e dovunque, riconoscere Dio nel quale noi viviamo, ci muoviamo e siamo, cercare in ogni avvenimento la sua volontà, vedere il Cristo in ogni uomo, vicino o estraneo, giudicare rettamente del vero senso e valore che le cose temporali hanno in se stesse e in ordine al fine dell’uomo. Chi ha tale fede vive nella speranza della rivelazione dei figli di Dio, nel ricordo della croce e della risurrezione del Signore.

È un testo molto bello che specifica una spiritualità, la capacità cioè di cogliere l’opera universale di Dio nella realtà della storia, di sentirla quasi vicino con un’esperienza che è il dono della contemplazione, dato a tutti i cristiani. A noi spetta il dovere di imparare a realizzarlo nella vita quotidiana, per capire come le singole realtà si compongono in unità nell’unico disegno di salvezza.

A partire da questa percezione, è possibile esercitare quello che ho chiamato discernere. Discernere significa cogliere le dinamiche di riconciliazione e di pace che, nella forza dello Spirito santo, corrono dentro la storia e la realtà; significa porsi in condizione di chi, sapendo che lo Spirito di Dio è all’opera nella Chiesa e nella storia, si domanda: «dove sta operando adesso lo Spirito? Lungo quali linee, in quali espressioni della vita ecclesiale o umana si muove l’esperienza dello Spirito? Che cosa possiamo fare per riconoscerla e per aiutarla, per metterla in armonia verso un unico cammino?».

Il termine un po’ tecnico di “discernere” ha la sua radice in san Paolo e il suo sviluppo nella lunga storia della spiritualità cristiana patristica, medievale e moderna. Significa, in altre parole, coscientizzazione, sensibilizzazione alla grazia dello Spirito già operante. Se lo Spirito c’è, noi, scommettendo su di lui, lo riconosciamo in noi. Se non ci fosse lo Spirito di Dio, a nulla servirebbero il presupposto e le analisi: si giungerebbe al massimo a una ricomposizione di forze per sopravvivere in un mondo frammentato perché non giunga a ulteriore frammentazione, all’opposizione e alla morte.

La Chiesa non si pone semplicemente in atteggiamento timoroso e deploratorio ma, pur riconoscendo la vastità e l’immensità del peccato, riconosce che Dio è più forte del peccato e che la sua forza opera adesso così come operava al tempo di Cristo. Sta a noi riconoscerla, farle spazio, darle campo e aperture nell’insieme della vita della Chiesa e in tutte le realtà della comunità umana.

Ora, l’esempio biblico di cui mi servo per spiegare il distinguere e il discernere, è la descrizione del Concilio di Gerusalemme (cfr. At 15) dove si può vedere bene la dinamica di Chiesa.

Se leggiamo attentamente il resoconto del Concilio, rimaniamo stupiti nell’accorgerci che, dovendo risolvere un problema pratico molto difficile – la convivenza tra i cristiani provenienti dal giudaismo e i cristiani convertiti dal paganesimo -, non si fa ricorso alle Scritture o a una tradizione canonica, di cui c’era un primo embrione, ma si fa ricorso, anzitutto, alla riflessione sul vissuto nella grazia dello Spirito santo!

Ci sono tre grandi relazioni nel Concilio di Gerusalemme: la prima, in cui Paolo riferisce su quanto lo Spirito santo ha operato in tutte le comunità, e quindi prendendo coscienza di ciò che è il vissuto di grazia; la seconda, in cui Pietro si domanda quale relazione abbia il vissuto di oggi con gli eventi passati, qual è la continuità di grazia in cui esso si inserisce; la terza relazione, in cui Giacomo, a partire dalle parole di Paolo e di Pietro, propone un modo pratico di vivere insieme, un modo che tenga conto delle verità fondamentali.

Questo atteggiamento è quello che si propone di ascoltare la voce dello Spirito e di trarne conseguenze per l’oggi, in umile obbedienza di quella Parola che ha parlato nella Chiesa e che ancora parla nel Magistero, nella forza della predicazione, nella lettura quotidiana della Scrittura, nella vita quotidiana dei fedeli, nell’esperienza della santità.

Se leggiamo la Dei Verbum vediamo che la comprensione che la Chiesa ha di sé cresce nella storia concreta attraverso l’azione congiunta di tutte quelle realtà, nelle quali ha posto anche – e in un posto importante, soprattutto per le decisioni contingenti – la santità dei fedeli e il modo con cui essi vivono questa esperienza in maniera evangelica.

Per questo mi è accaduto più volte di riflettere e di parlare sul tema della santità cristiana comune. È la chiamata alla santità di un popolo ed è la capacità dì vedere la santità che esiste, di fatto, e che io incontro quotidianamente nelle visite pastorali, nell’ascolto delle persone, nel dialogo, nelle lettere che ricevo. È la santità vera, umile del popolo di Dio, che mette in rilievo le grandi costanti della storia della salvezza.

Spesso noi, proprio perché i nostri laboratori concettuali non sono sensibili a questo momento di Chiesa, non la percepiamo, oppure la riteniamo troppo ovvia e non vi cogliamo il gratuito di Dio, rivelato nell’oggi in maniera creativa ovunque, senza esclusione di ambienti e quindi dentro e fuori, in tutte quelle realtà che lo Spirito di Dio tocca in maniera genuina e autentica.

Ecco allora la possibilità che una vera grazia di Dio tocchi persone in situazione di lontananza o di peccato o di gravissima devianza sociale: la comunità cristiana non può escluderle ma, con le esigenze radicali di conversione evangelica che la fede richiede, deve accoglierle e stimolarle. Deve accoglierle con quella gioia evangelica di cui ci parla più volte Luca, quando riporta la parola di Gesù: «C’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che non per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza» (Lc 15,7). È il grande Vangelo della misericordia, che talora crea disagio.

Dio può veramente cambiare il cuore dell’uomo! Attraverso il discernimento è dunque possibile, pur nella convinzione che il maligno opera nel mondo, la serietà cristiana. La serietà cristiana non è semplicemente un facile ottimismo, non è chiudere gli occhi su certe realtà ma è considerarle nel loro insieme, mettendo in conto la grazia dello Spirito santo e il suo agire

nella storia. La serietà cristiana è il rendersi conto della serietà del Vangelo e della sua forza nella ricomposizione continua dell’umano, nella sua difesa dalla degradazione che continuamente lo minaccia e lo insidia a causa del peccato.

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