Come la Chiesa deve comunicare. La gioia del dialogo con i non credenti

L’Osservatore Romano

Pubblichiamo uno stralcio dell’intervento che Timothy Radcliffe, teologo, già Maestro generale dell’Ordine dei predicatori (domenicano), ha tenuto questa settimana a Modena, alla presenza dell’arcivescovo Erio Castellucci, dal titolo «La gioia del dialogo con i non credenti». Nei giorni scorsi Radcliffe, scrittore e oratore tra i più apprezzati nel mondo cattolico a livello internazionale, ha tenuto alcune conferenze in Italia, precisamente a Torino Spiritualità, al Sermig di Torino e al Festival Francescano.
Da pochi giorni è in libreria il suo nuovo testo “Una verità che disturba. Credere al tempo dei fondamentalismi” (Editrice missionaria italiana, Verona, 2019) nel quale sono presentati alcuni dei suoi più recenti interventi su varie tematiche: la fede cristiana e il populismo, il futuro della vita religiosa, l’essere sacerdoti nel secolo, l’attualità della figura di Óscar Romero, il dinamismo del carisma domenicano.
*** Come la Chiesa deve comunicare 
La gioia del dialogo con i non credenti 
di Timothy Radcliffe
In una conversazione davvero profonda, la mia identità non è assolutizzata. È aperta all’espansione e anche alla sfida da parte del mio interlocutore. Ogni amicizia mi rivela delle nuove dimensioni della mia identità di cui non avevo ancora fatto esperienza. Io vivo a Oxford in comunità con giovani frati. Ogni anno ne arriva un nuovo gruppo. Io devo scoprire loro chi sono, ma anche chi sono io con loro. Con ogni nuovo arrivo di giovani, io mi devo aprire al loro modo di essere, e dunque ampliare il mio modo di sentire chi sono io stesso con loro. 
Quando ero un giovane frate ho passato un anno a Parigi. Mi piaceva molto andare al cafè, leggere «Le Monde», fumare le Gauloises e bermi un bel bicchiere di birra. Ero diventato un po’ francese. Se mi fermassi qui in Italia abbastanza a lungo, diventerei di sicuro un po’ italiano. San Tommaso amava l’espressione anima est quodammodo omnia: l’anima è, in un certo senso, tutte le cose. Ogni nuova relazione allarga il mio essere, e mi libera di pregiudizi e identità troppo piccole. 
Nel suo libro su Dostoevskij, Rowan Williams, l’ex arcivescovo di Canterbury, cita Michail Bachtin: «Il dialogo non è il mezzo per rivelare, per portare alla luce il carattere già bello e pronto di una persona; no, nel dialogo una persona non si mostra soltanto verso l’esterno, ma diventa per la prima volta quello che è. E ripetiamo: non solo per gli altri ma anche per sé stesso». Ogni vera conversazione mi invita a essere qualcosa di inedito. Dialogare implica essere aperti a una nuova identità. Come cristiani, ogni identità che costruiamo è qualcosa di parziale e provvisorio. San Giovanni ha detto: «Carissimi, fin da ora siamo figli di Dio e non si è ancora manifestato quel che saremo. Sappiamo che quando ciò si sarà manifestato saremo simili a lui perché lo vedremo come egli è» (1Giovanni, 3, 2). Ciò che saremo non è stato ancora rivelato! Il mio viaggio verso il Dio sconosciuto, che è al di là di tutte le parole, è anche il viaggio verso il mio io sconosciuto. Io, dunque, porto nel dialogo l’identità che ho sviluppato finora: conservatore o liberale, inglese o italiano, gay o etero, persino domenicano o gesuita. E mi aspetto di essere rispettato in quanto tale. Ma se mi relaziono con l’altro, tutte queste identità sono solo delle bozze provvisorie. Chi io sono assieme a te è una scoperta ancora da fare! Così quando la Chiesa dialoga con la modernità laica, la Chiesa sta scoprendo ciò che lei stessa è in questo mondo nuovo. La Chiesa ha un’identità aperta che viene scoperta di nuovo a ogni generazione. 
Quando la Chiesa entrò nell’Impero romano ne fu trasformata. Quando gli europei traversarono l’Atlantico e incontrarono i nativi delle Americhe la Chiesa ne fu cambiata. E così pure al giorno d’oggi. Se io scappo dalla modernità laica e secolarizzata mi nascondo anche dalla persona che potrei diventare. Come possiamo dunque affrontare questa eccitante avventura? Anzitutto, di che cosa dobbiamo parlare? Io suggerisco che la Chiesa e la modernità laica dialoghino di ciò che ci interessa tutti, che è: cosa significa essere vivi. Thomas Merton, il monaco cistercense, tenne la sua ultima lezione a Bangkok, poco prima di morire fulminato nella doccia. Dopo la lezione parlò con una suora che gli chiese perché non avesse cercato di convertire i suoi ascoltatori alla fede. Le sue ultime parole a noi note furono: «Io penso che oggi sia più importante per noi lasciare che Dio viva in noi, così che gli altri lo sentano e arrivino a credere in Dio perché lo sentono vivere in noi». Dio disse a Israele: «Ti ho proposto la vita e la morte (…) scegli la vita» (Deuteronomio, 30,19). Tutto ciò che noi crediamo è un Sì alla vita. Benedict Green era un monaco anglicano che aveva il morbo di Parkinson fin da giovane. Alla fine divenne per lui impossibile parlare in modo comprensibile. Mandò allora una lettera a tutti i suoi amici chiedendoci di pregare per lui ma di non andare più a trovarlo. Non sarebbe stato più in grado di dire nulla. Concluse la missiva con una citazione di Dag Hammarskjöld, il secondo segretario generale delle Nazioni Unite: «Per tutto ciò che è stato: grazie. Per tutto ciò che sarà: Sì». Ovvero, grazie per la vita che ho ricevuto, sì alla vita che Dio darà. 
Così, quando riflettiamo su cosa significa dire Sì alla vita, la speranza della Chiesa incontra l’angoscia dominante del nostro tempo, ossia che la vita stia succedendo da qualche parte dove io non sono. John Lennon ha scritto nel testo della sua canzone Beautiful Boy: «La vita è quel che ti succede mentre sei preso a fare altri progetti». Per questo non è lontano dal futuro san John Henry Newman quando ci ammonisce: «Non aver paura che la tua vita abbia una fine, abbi piuttosto paura che non abbia mai un inizio». I giovani cercano sui loro telefonini per capire dove succedono le cose: è lì che cercano le esperienze di vita autentica. Gesù ha detto: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in sovrabbondanza» (Giovanni, 10, 10). E sant’Ireneo nel secondo secolo ha scritto «Gloria Dei, homo vivens»: un uomo pienamente vivo è la vera gloria di Dio. 
I nostri contemporanei non credenti possono forse guardare a noi e dire: «Caspita, questi cristiani sono proprio vivi?». Se la risposta è no, perché dovrebbero avere interesse a parlare con noi? Questo è il tema del mio prossimo libro, che verrà pubblicato in inglese tra pochi giorni, Vivi in Dio. Un’immaginazione cristiana. Noi cristiani tuttavia riusciremo ad avere una buona conversazione con i non credenti solo se riconosceremo che anche loro capiscono qualcosa di cosa significa essere vivi. Qualcosa che vale la pena per noi di imparare. Anche loro parlano con autorità.
Una buona conversazione richiede che non solo si riconosca l’identità dell’altra persona, ma anche la sua propria autorità. Avremo una buona conversazione solo se riconosceremo che i laici, siano essi credenti o meno, capiscono quanto sia complessa, difficile e meravigliosa la vita oggi. Spesso i sacerdoti durante le prediche dicono delle banalità tali sull’amore e la vita coniugale da irritare profondamente chi li ascolta. È dura essere sposati, tirare su dei figli, sopravvivere se non hai una casa. Un domenicano dello Sri Lanka, Cornelius Ernst, ha scritto nel suo diario poco prima di morire: «Non posso ammettere che Dio possa essere adorato in spirito e verità solo da un individuo ripiegato su se stesso e distaccato da tutto ciò che può disturbare e stimolare il suo cuore. Deve essere possibile trovare e adorare Dio nella complessità dell’esperienza umana». La Chiesa può parlare con autorità delle fatiche della vita umana solo se è aperta all’autorità dei laici, credenti o meno, che sanno quanto sia difficile. Non possiamo parlare di morale sessuale se non ascoltiamo coloro che una vita sessuale ce l’hanno. Io leggo romanzi, guardo film, ascolto musica pop e parlo con tanti amici per cercare di imparare tutto quel che posso sulla ricchezza e la complessità della vita umana. Papa Francesco ha imparato queste cose nelle periferie di Buenos Aires. Le nostre parole devono essere concrete, coi piedi per terra, e ispirate alla vita vissuta. Altrimenti non saranno parole di vita. Rimarranno delle astrazioni. Noi crediamo in un Verbo che si è fatto carne, e così devono fare le nostre parole.
L’Osservatore Romano, 4-5 ottobre 2019