Affidare i “processi” al popolo di Dio. Audacia che occorre esercitare per imboccare, senza ulteriori ritardi, i sentieri aperti dal primo papa gesuita

di: Roberto Oliva

avviare processi

Il 19 ottobre di sei anni fa si chiudeva la III Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi sulla famiglia che ha raggiunto il suo culmine nella pubblicazione dell’Esortazione apostolica post-sinodale più discussa di sempre, Amoris laetitia. Il dibattito provocato ha fatto emergere le prime importanti frizioni intorno al pontificato di Francesco, che il prossimo 17 dicembre compirà 84 anni.

Il recente contributo di Marcello Neri “Per Francesco” su SettimanaNews ha evidenziato l’ormai palese bipolarismo che ruota attorno all’odierno pontificato: l’opposizione dei reazionari e la crescente onda degli scontenti. Lo sbocco imprevedibile del Sinodo sull’Amazzonia (nonostante il papa stesso lo abbia definito ancora aperto) suscita pressanti domande circa l’audacia che occorre esercitare per imboccare, senza ulteriori ritardi, i sentieri aperti dal primo papa gesuita.

Il suo modo di procedere, il peso degli anni e la fatica delle resistenze che incontra, non possono costituire in alcun modo motivo per tirare i remi in barca o per delegare al prossimo papa il coraggio delle scelte audaci. A. Melloni ha ipotizzato la pandemia da Covid-19 come l’evento che segnerà l’inizio della fine del papato di Bergoglio, servendosi della drammatica immagine che lo ritrae in una Piazza San Pietro deserta la sera del 27 marzo 2020.

Ma non corriamo forse il rischio di sprecare le occasioni nate dai processi innescati da papa Francesco? Cosa attende ancora la comunità ecclesiale, soprattutto dopo la crisi pandemica in atto?

Queste domande possono diventare un autentico esercizio di discernimento comunitario, tenendo presente quello che papa Francesco ha precisato sin dall’inizio del suo pontificato: occorre «avviare processi, più che occupare spazi» (Evangelii gaudium, 223): ma chi è responsabile, cioè continuatore dei processi avviati?

Siamo tentati di ammettere che questa domanda interpella in prima istanza l’episcopato, oggetto (prima e durante il Vaticano II) di un’attenta analisi teologica sul rapporto con il successore di Pietro (basta valutare a tal proposito la cosiddetta Nota explicativa praevia del 16 novembre 1964). Il nodo dell’episcopato era e continua a essere cruciale per la recezione dinamica del Vaticano II in ordine alla riforma della Chiesa: poiché resta affidata ai ministri ordinati la possibilità di accelerare o ridurre i processi in corso.

La valorizzazione da parte di Francesco del Sinodo dei Vescovi percorre questa strada, sebbene la comunione dell’interno del corpo episcopale con il suo capo non possa ridursi solo a momenti circoscritti, ma debba animare realmente una communio non solo affettiva ma anche effettiva (troviamo l’espressione affectus collegialis in Lumen gentium 23). La menzione e valorizzazione del collegio episcopale, rispetto all’accentuazione del primato petrino del Vaticano I, favorisce il coinvolgimento dei vescovi in merito alla responsabilità in questione, unitamente alla Chiesa locale che governano.

Non si tratta qui di sgravare unicamente la responsabilità dei vescovi, e nemmeno di avallare l’impostazione “gerarcologica” della Chiesa, bensì di valorizzare la ricchezza della Chiesa locale nella quale si riflette l’universalità del popolo di Dio. Si valuta quindi la responsabilità dell’episcopato (strettamente connesso al nostro tema il problema delle nomine episcopali!) perché si valorizzi la preziosità teologica e ministeriale della Chiesa locale composta da battezzate e battezzati.

La ripresa evidente dell’ecclesiologia del popolo di Dio da parte di Francesco indica il desiderio urgente di consegnare i processi aperti a tutto il popolo dei battezzati. È come se Francesco passasse il testimone dei processi avviati, non alle sensibilità più o meno aperte dei vescovi, ma al fiuto della fede del santo popolo di Dio. Questo non secondo una logica meramente retorica o populista, bensì secondo una ecclesialità realmente cattolica che abbia la libertà di esprimersi per mezzo di carismi e ministeri.

La crisi pandemica in atto ha palesato le deficienze che attanagliano la Chiesa (non soltanto a causa degli scandali economici), fornendo allo stesso tempo la possibilità di aprire a un’ecclesiologia non manovrata esclusivamente dalle istanze clericali, ma arricchita dal sacerdozio comune dei battezzati e delle battezzate.

Settimana News